Estate 2008
Estate 2008
Anche se le nuove suore indiane, arrivate da qualche mese in Casa Albergo, potrebbero dirci che per il loro popolo è il colore della festa, per noi il nero continua ad essere espressione di oscurità, di difficoltà, di tutto ciò che non va.
Nella cultura occidentale continua ad essere il colore del lutto che, purtroppo, anche in questi mesi non è stato assente dalla nostra comunità: molte persone, alcune ancora nel pieno delle loro forze, sono venute a mancare all'affetto delle loro famiglie, dei loro amici, dell'intero paese di Borno.
Graficamente, però, lo sfondo nero è molto usato negli album di famiglia per porre in risalto memorie e ricordi fissati in uno scatto fotografico.
Se ancora una volta pensiamo a Cüntòmela come all'album della comunità, è bello immaginare, non solo la copertina, ma ogni sua pagina con uno sfondo scuro, sul quale risplendono i colori della fede, dell'impegno, dell'amicizia, della voglia di camminare insieme.
Anche la vita di ogni persona spesso presenta delle difficoltà, dei lati oscuri, ma è proprio in questi momenti che può esserci di aiuto riguardare le fotografie di lieti eventi passati, non per rimpiangere e provare solo nostalgia per ciò che è stato. La memoria può diventare motivo per riaccendere con maggior vigore la speranza per il futuro, per scuotere la monotonia del quotidiano con i colori della vita; quell'unica vita che non dobbiamo sprecare ma trasformare in preziosa occasione per amare la nostra fede, il nostro Signore, i nostri fratelli.
La redazione
ripensandoci
Il 6 agosto di 30 anni fa, il Papa Paolo VI terminava la sua vita terrena ed entrava nell'eternità.
Negli anni della sua fanciullezza e della sua giovinezza, durante l'estate veniva a Borno insieme con la sua famiglia. Sembra che i Montini avessero scelto Borno come località per le loro vacanze fino al 1919 su suggerimento di Don Defendente Salvetti, amico di famiglia, che era di Piamborno e collaborava a Brescia con Giorgio Montini, padre di Paolo VI, nella redazione del giornale “Il Cittadino”.
Paolo VI conservò sempre un caro ricordo dei periodi estivi trascorsi in giovinezza a Borno.
In questi anni che sono passati dalla sua morte, la figura di Paolo VI è andata crescendo perché si è capita di più la sua vera grandezza.
Mentre era in vita, ebbe molte critiche e dovette soffrire non poco. Dopo la sua morte innumerevoli furono i riconoscimenti dell'importanza del suo pontificato, del valore del suo pensiero e della grandezza della sua opera.
Il Cardinal Garrone ha detto di Paolo VI che era talmente grande, che quando parlava, benché si sforzasse di scendere al livello dei suoi ascoltatori, era sempre un gradino sopra.
Paolo VI era un uomo in apparenza fragile, fisicamente esile e con problemi di salute, ma dotato di singolare forza di intelligenza e di volontà; uomo dallo sguardo sereno e profondo; uomo riflessivo, sensibile alle difficoltà degli altri, rispettoso, dal tratto riservato ma profondamente amabile, fine e cortese.
Per indole Giovanni Battista Montini somigliava alla madre: era contemplativo come lei. Per volontà riuscì ad essere un uomo di grande azione, su imitazione del padre. Un giorno Paolo VI confiderà a Jean Guitton: a mia madre debbo il senso del raccoglimento, della vita interiore, della meditazione e della preghiera. A mio padre devo gli esempi di coraggio, la volontà di non arrendersi mai al male, la convinzione che le ragioni della vita valgono più della vita stessa.
Papa Montini resterà nella storia per l'apporto dato al Concilio Vaticano II. Se fu, infatti, Giovanni XXIII a volerlo e ad iniziarlo, toccò a lui portarlo avanti con mano esperta, delicata e ferma, fino al suo compimento, ed accompagnarlo poi con la parola e con l'azione nei primi non facili anni della sua applicazione.
Egli resterà nei secoli come un grande uomo di Dio, che ha amato con passione profonda la Chiesa, della quale ha fatto il tema prediletto del suo pontificato, come lo fu, per suo suggerimento, del Concilio.
Resterà come il Papa che ha amato e stimato il suo tempo ed ha cercato di avvicinare tutti gli uomini, facendosi anche pellegrino sulle strade del mondo. Come pochi ha capito la grandezza e la miseria dell'uomo. Ha capito l'uomo.... perché lo ha guardato con gli occhi della fede. Ha amato l'uomo, perché lo ha amato in Dio. L'uomo che lavora, l'uomo che soffre, l'uomo che ricerca, l'uomo che cresce.
Man mano che si allontana nel tempo, la sua figura si staglia sempre più luminosa e le sue scelte manifestano genialità e significato profetico.
Mi limito a ricordarne alcuni gesti, che mi sembrano di particolare rilievo. Essi rimangono nella storia e possono essere considerati come una sorta di “primati”, perché furono compiuti per la prima volta da un Pontefice. È vero che alcuni furono possibili grazie al progresso del suo tempo, ma ciò non annulla il merito di chi li ha compiuti per primo.
Egli fu il primo Papa, dopo San Pietro, a tornare in Palestina. Fu un viaggio di alto valore simbolico, che esprimeva il suo mondo interiore, la sua spiritualità e la sua teologia. Compiendolo appena sei mesi dopo l'elezione al pontificato e mentre era in corso il Concilio, egli voleva indicare alla Chiesa la strada per ritrovare pienamente se stessa ed orientarsi nella grande transizione in atto nella convivenza umana. La Chiesa può essere autentica e compiere la sua missione soltanto se ricalca le orme di Cristo: era questo il messaggio che veniva da quel primo viaggio. Quel viaggio fu il primo di una serie che Papa Giovanni Paolo II ha reso lunga e feconda. Il Cardinale Martin affermò di avere un giorno sentito Paolo VI dire: “Vedrete quanti viaggi farà il mio Successore”, perché era convinto che le visite pastorali nel mondo rientrano nei compiti del Papa (Paolo VI ne ha compiuti 8, Giovanni Paolo II ne ha realizzati 104).
Fu il primo Papa che con gesto certamente significativo volle rinunciare alla tiara, togliendosela pubblicamente dal capo il 13 novembre 1964 e donandola ai poveri. Voleva, con questo gesto, far intendere che l'autorità del Papa non va confusa con un potere di natura politico-umana. Poche settimane dopo avrebbe compiuto il viaggio in India, che tanto influenzerà il suo magistero sociale. La rinuncia alla tiara acquistava il valore di un gesto programmatico di umiltà e di condivisione, simbolo di una Chiesa che mette i poveri al centro della sua attenzione e li accosta con rispetto ed amore, vedendo in loro il Cristo.
Come sapete, la tiara fu poi venduta ad un museo negli Stati Uniti e il ricavato fu portato in India e dato per i poveri. Inoltre, al termine della visita pontificia, l'autovettura che era stata portata in India, fu lasciata là a Madre Teresa di Calcutta, perché fosse usata a servizio dei poveri.
Fu il primo Papa a recarsi all'ONU, dove si presentò come un pellegrino che da 2000 anni aveva un messaggio da consegnare a tutti i popoli, il Vangelo dell'amore e della pace, e finalmente poteva incontrare i rappresentanti di tutte le Nazioni consegnando loro questo messaggio. Fu un discorso di grande eco, con alcune frasi scultoree: mai più la guerra, mai più l'uno contro l'altro, o l'uno sopra l'altro, ma l'uno per l'altro, l'uno con l'altro.
Paolo VI resterà come il Papa che ha abolito la corte pontificia e che ha voluto che il Vaticano avesse uno stile di vita più semplice. Resterà anche come il Papa che ha riformato la Curia, rendendola più efficiente, più pastorale e più internazionale.
È il Papa, inoltre, che ha istituito la Giornata Mondiale della Pace, da celebrare il 1° gennaio, come impegno ed augurio, affinché sia la pace a guidare i destini dell'umanità e non la guerra.
Fu un uomo di grande spiritualità e di intensa preghiera, con un appassionato amore a Cristo e sempre teso alla ricerca della volontà di Dio, convinto che nella vita quello che conta è realizzare il disegno che Dio Padre ha su ciascuno di noi.
Paolo VI fu anche uomo del dialogo, attento a non chiudere mai le porte all'incontro, per recare a tutti il Vangelo che salva. Egli coniò l'espressione “civiltà dell'amore” e lavorò per eliminare la violenza, le ingiustizie e le guerre e si prodigò per instaurare nel mondo l'amore e la pace.
Card. Giovanni Battista Re
ripensandoci
È la prima volta che mi trovo a celebrare con voi, fratelli carissirni, questa Messa del Crisma, il giovedì santo e lo faccio con commozione e con gioia. Mi vengono dal cuore le parole del salmo: “Ecco quanto è buono e quanto è soave che i fratelli vivano insieme! È come olio profumato... è come rugiada dell'Hermon”. È il momento più bello e significativo della vita del nostro presbiterio, quello in cui sentiamo nel modo più vivo il legame di comunione che ci unisce e fa di noi un unico segno e strumento di Gesù pastore della Chiesa. Sento vicini a noi tutti i preti che non possono essere presenti per un qualche motivo: i malati, gli anziani, quelli che operano in missione... tutti; e vorrei che tutti ci sentissero vicini a loro, legati dall'affetto che nasce dalla condivisione della medesima fede e dal compimento della medesima missione.
Viviamo un tempo non facile e vorrei tentare di comprenderlo, insieme con voi, in modo positivo, come il territorio del nostro itinerario verso una più grande maturità e verso il compimento della salvezza. Da che cosa nasce il senso di stanchezza che proviamo? E che cosa possiamo fare per superano? Soprattutto: che cosa ci sta chiedendo il Signore in questo tempo particolare?
Credo anzitutto che condividiamo questa sensazione di stanchezza con tutti i nostri fratelli che vivono nel cosiddetto mondo occidentale, ricco e colto. È un mondo che ha dato un contributo immenso alla crescita culturale della famiglia umana, ma che sta vivendo una fase di fatica, di ripiegamento su se stesso. Economia, scienza, tecnica continuano a procedere, ma, sembra, per inerzia; i grandi obiettivi che hanno elettrizzato persone e comunità negli ultimi secoli sono scomparsi e rimane solo la ricerca di un crescente benessere, il tentativo di soddisfare desideri sempre nuovi che si manifestano, però, sempre più effimeri e superficiali.
Il XX secolo ha distrutto impietosamente ideologie diverse che pretendevano di interpretare e dirigere la storia, mostrandone il volto menzognero e disumano. Siamo cosi rimasti orfani di fini proprio quando si moltiplicano e diventano sempre più potenti i mezzi di cui disponiamo. Non si può procedere a lungo su questa strada; o il nostro mondo saprà darsi degli obiettivi credibili e degni, o cadremo nel letargo di una rassegnazione sempre più diffusa, che non trova nulla per cui appassionarsi e nulla per cui impegnarsi e sacrificarsi.
Anche noi preti siamo uomini d'oggi e respiriamo, in modo più o meno consapevole, questo clima pesante. Non è difficile comprendere la stanchezza che sentiamo: nasce dall'impressione che il nostro servizio non sia in realtà desiderato, dal dubbio che la società possa vivere bene anche senza di noi, che il vangelo abbia
perso la capacita di motivare le scelte e i sacrifici delle persone. A queste difficoltà di fondo se ne aggiungono altre che derivano dalle trasformazioni che inevitabilmente siamo costretti a vivere nel ministero e che ci costringono a faticare di più: la diminuzione del numero di preti ci obbliga a rivedere la struttura della nostra pastorale; la mobilità delle persone rende insufficiente quel radicamento sul territorio che ha caratterizzato per secoli la parrocchia tradizionale; la sfida dei mezzi di comunicazione sempre più vari e potenti ci fa sentire come nani impotenti di fronte a giganti che utilizzano strumenti sempre più sofisticati per trasmettere dei contro-messaggi; sono messaggi insipidi, che non hanno profondità, ma che si fanno forti della promessa di una soddisfazione immediata. In questo contesto, è inevitabile che sentiamo una specie di spossatezza interiore; non nasce dalla fatica del lavoro, ma soprattutto dall'apparente sua inutilità.
Torniamo allora alla domanda che ci occupa: come ricuperare il senso del valore della nostra presenza e attività di preti? Lo riconosco volentieri: non siamo importanti noi; è importante Gesù Cristo; il mondo potrebbe bene sopravvivere senza di noi, ma non potrebbe affatto sopravvivere senza quel Gesù Cristo che noi annunciamo e del quale siamo testimoni. Gesù Cristo è la rivelazione dell'amore di Dio, la traduzione dì questo amore eterno in lingua umana, in gesti umani. E senza questo amore l'uomo non può vivere in modo umano. Siamo tutti dei condannati a morte; abbiamo qualche decennio da vivere, ma poi, inevitabilmente, la morte prevarrà su di noi. E lo sappiamo. Come non essere egoisti? Come non pensare a noi stessi, alla difesa della nostra vita, alla conquista del massimo di soddisfazioni nel poco tempo che ci viene dato di vivere? Come dimenticare noi stessi e prenderci cura degli altri se, in questo modo, siamo costretti a perdere le occasioni di piacere che la vita ci offre? E, d'altra parte, come possiamo pensare di vivere in modo autenticamente umano se non ci prendiamo cura gli uni degli altri? Se non diventiamo capaci di amare? Insomma, siamo presi entro una tenaglia: o scegliamo di goderci la vita - e allora siamo costretti a non prenderci troppa cura degli altri; o ci facciamo carico della vita degli altri - e allora siamo costretti a rinunciare a tante nostre soddisfazioni. Nel primo caso siamo meno uomini; nel secondo, ci sembra, di essere meno felici.
Solo l'amore di Dio, che ci precede e che sostiene la nostra vita, può permetterci di uscire da questa contraddizione spirituale. Se riconosciamo l'amore di Dio per noi come origine e fondamento della nostra esistenza capiamo, senza ombra di dubbio, che l'amore è la cifra vera dell'esistenza umana; e che solo quando impariamo ad amare la nostra vita acquista dignità e valore. E se riconosciamo che l'amore viene da Dio e ci pone in comunione con Dio, possiamo anche sperare che l'amore sia più forte della morte e che un”esistenza spesa per amore porti con sé la speranza dell'immortalità.
Il vangelo è questo: “Mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio” annuncia Gesù nella sinagoga di Nazaret leggendo il rotolo del profeta Isaia. Chi sono i poveri se non i medicanti di vita, quelli che hanno un desiderio prepotente di vita, ma non hanno i mezzi per soddisfare questo loro desiderio? E non è forse proprio questa la condizione di ogni uomo sulla terra? Siamo desiderosi di vivere, certo; ma possediamo solo un'esistenza effimera: basta un virus, una distrazione, un incidente per troncare ogni speranza mondana. Siamo desiderosi di amare; ma anche scettici, insicuri, ripiegati su di noi e incapaci di rischiare il gesto primo dell'amore donato. Paolo esprimeva la tragicità dell'esistenza umana con quel grido: “Chi mi libererà da questo copro votato alla morte?” E rispondeva: “Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore!” (Rom 7,24-25)
Noi diciamo al mondo l'amore di Dio, annunciamo la speranza della resurrezione, edifichiamo comunità dove l'amore diventi la regola fondamentale del rapporto con gli altri. E non facciamo questo con un'operazione ideologica, presentando una filosofia astratta. Lo facciamo narrando un fatto concreto, un'esistenza concreta che si colloca in un tempo e in uno spazio preciso della storia umana. È Gesù il fondamento sul quale è costruito tutto l'edificio dell'esistenza cristiana: la sua vita, le sue parole, la sua morte e la sua resurrezione. Rimane vera l'affermazione di Paolo: “Se Cristo non è risorto, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede”. Perché se Cristo non e risorto, il vangelo che annunciamo rimane una semplice idea; nobile e bella, certo, ma solo un'idea. Se invece Cristo è risorto, se Dio ha manifestato in lui l'efficacia della sua forza, se la morte non ha più nessun potere sopra di lui, allora la morte non può più fare troppa paura: sarà ancora capace di turbare la nostra fragile psiche, ma non riuscirà a condizionare la nostra libertà redenta, non riuscirà a costringerci dentro il cerchio mortale dell'egoismo.
La vita del prete nasce in questa libertà che ci è donata dalla resurrezione di Gesù. Amiamo Gesù perché vediamo in lui l'uomo che siamo chiamati a diventare; amiamo l'uomo perché riconosciamo in lui il volto di Gesù. Stiamo vicino ai malati, visitiamo le case dove si piangono i morti, spendiamo tempo ed energie per educare gli adolescenti, pur sapendo che gran parte di loro si dimenticherà di noi e del vangelo, tiriamo avanti con un salario minimo mentre la gente ci pensa ricchi e potenti. Chi ce lo fa fare? Gesù Cristo e il vangelo; l'amore per l'uomo in tutte le manifestazioni della sua vita, nella sua nobiltà e nel suo peccato.
Nessuno è più convinto di noi che nell'uomo ci sono più cose da ammirare che da disprezzare e perché questo uomo possa vivere spendiamo noi stessi. Ci basta ricordare quello che è scritto nel cap. 25 di Matteo: “Quello che avete fatto al più piccolo di questi miei fratelli, l'avete fatto a me”. Ci basta questo per vedere nel volto di ogni uomo i lineamenti di Gesù. Possiamo essere più facilmente ingannati e truffati, proprio perché non riusciamo a essere diffidenti del tutto nemmeno di fronte a un estraneo. Eppure “insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti, fino ad oggi”. (1Cor 4,12-13)
Mi piace riprendere questa straordinaria descrizione dell'apostolo che ci è consegnata da san Paolo; non perché io possa presumere di essere cosi. Debbo, al contrario, riconoscere di ricevere dalla gente molto più onore e rispetto di quanto so di meritarmi. E tuttavia le parole di Paolo mi consolano; mi aiutano a capire che tutte le debolezze, le fragilità, le incomprensioni che posso sperimentare nella mia vita non rendono vano il mio ministero; al contrario, rendono ancora più evidente la sua origine da Cristo. Abbiamo infatti un tesoro prezioso in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da Dio e non da noi. (2Cor 4,7)
Siamo costretti a vivere nella nostra pelle le incertezze, i dubbi, le perplessità, le angosce di tanti nostri fratelli. Ed è giusto cosi. Dovremmo forse cercare di vivere indisturbati quando gli uomini attorno a noi sperimentano fallimenti familiari, infedeltà, disorientamento? Quando i giovani guardano al futuro più con
timore che con speranza? Accettiamo con gioia anche la fatica di vivere. E cerchiamo di renderci conto del
privilegio che abbiamo: quello di poter portare il peso della sofferenza davanti al Signore, nella preghiera; di potere lamentarci sapendo che c'è un orecchio attento che ci ascolta; di poter servire il Signore esprimendo in questo modo la nostra riconoscenza gioiosa. Insomma, la nostra vita di preti non è facile; ma è pienamente “umana” e degna di essere vissuta. Siano rese grazie per questo a Gesù, nostro Signore.
ripensandoci
Un giorno Dio provò una grande stanchezza per gli uomini. Lo seccavano in continuazione, chiedendogli qualsiasi cosa. Allora decise di nascondersi per un po' di tempo. Radunò tutti i suoi consiglieri e chiese loro: «Dove mi potrei nascondere? Qual è il luogo migliore dove non essere continuamente cercato?» Alcuni risposero: «Sulla cima della montagna più alta della terra». Altri: «No, nasconditi nel fondo del mare. Lì, nessuno ti troverà». Altri: «Nasconditi sul lato oscuro della luna. Quello sarà il posto migliore. Come riusciranno a trovarti là?». Allora Dio si rivolse al suo angelo più intelligente e lo interrogò: «Tu dove mi consigli di nascondermi?». L'angelo intelligente, sorridendo, rispose: «Nasconditi nel cuore dell'uomo! È l'unico posto dove essi non vanno!». (anonimo)
Questa piccola parabola moderna contiene un grosso errore: Dio non si stanca mai degli uomini e, tanto meno, di essere cercato da loro. Semmai è vero il contrario: è l'uomo che cerca la risoluzione ai suoi problemi, che insegue la felicità nelle scoperte scientifiche, nelle proprie forze, nel possesso di sempre più cose, perfino nelle assurdità degli oroscopi o dei vari maghi e ciarlatani; cerca ovunque fuorché nel Signore.
Sempre, ma soprattutto in questi nostri tempi, l'unica cosa di cui può essere stanco Dio è quella di attendere che gli uomini si ricordino di Lui. Anche noi cristiani, a volte, viviamo come se Dio non esistesse.
Un po' di tempo fa una mamma mi confessava: «Mio figlio, che è sempre andato a Messa, ora non ci va più. E quando gli ricordo che io, il suo papà, i suoi fratelli continuiamo ad andarci e gli chiedo perché lui non ci va, mi risponde: “A cosa serve la Messa?... A cosa serve Dio?...”»
Spesso, dicevamo, preferiamo cercare ciò che ci è utile, ciò che ci fa vivere altrove, e spesso diventiamo schiavi di molte cose, ricordandoci di Dio solo magari quando qualcosa va storto, o i nostri castelli di sabbia crollano miseramente.
Dice l'evangelista Matteo: «Nessuno può servire due padroni» (Mt. 6,24). Anche se diverse volte tentiamo di farlo, non è possibile mettere insieme Dio e tutti i nostri piccoli o grandi idoli.
Il salmo 115 ci ricorda che «Gli idoli delle genti sono argento e oro, opera delle mani dell'uomo. Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono...». L'esperienza quotidiana ci dice in faccia che la vita non può essere nutrita solo di cose materiali e di realtà temporali; queste, come ci ricorda sempre la S. Scrittura, sono come il fiore del campo che spunta al mattino e dissecca la sera. La vita è troppo grande per appoggiarsi ed esaurirsi in un orizzonte puramente terreno.
L'angelo intelligente della storiella suggerisce a Dio di nascondersi nel cuore dell'uomo per essere sicuro di non essere disturbato. Tutti noi uomini siamo “sparati fuori”, preferiamo il chiasso, il frastuono della folla che, apparentemente, non ci fa sentire soli, ma che, nello stesso tempo, ci mette al riparo da rapporti personali autentici, da relazioni umane impegnative. Ci fanno paura, invece, la quiete, il silenzio e, magari, il rapporto a tu per tu con Dio nella preghiera e con i fratelli.
Eppure per incontrare l'uomo il Signore preferisce il silenzio, preferisce il deserto. Fare deserto da parte dell'uomo può significare proprio trovare il coraggio di rientrare in sé stesso, ascoltare nel silenzio per scoprire che è sempre il Signore che fa il primo passo, facendosi trovare nel cuore della vita.
Scriveva S. Agostino: «Rientra, o cristiano, in te stesso, perché solo dentro di te c'è la verità, solo dentro di te c'è Dio». Dio sta nascosto dentro ciascuno di noi, nel nostro cuore, e solo se siamo capaci di entrare in noi stessi lo possiamo incontrare.
Se anche solo una volta nella vita, in modi non descrivibili come tutte le esperienze veramente autentiche e personali, avremo avuto la grazia di vivere questo incontro nel nostro essere più profondo, sicuramente la nostra esistenza sarà trasformata; le difficoltà non spariranno, ma la nostra quotidianità verrà illuminata da quella fede, da quella speranza, da quell'amore che solo Dio può donarci.
Il salmo 139, in modo speculare alla storiella sopra riportata, ci dice che è l'uomo che tende ad allontanarsi, a nascondersi da Dio; ma ovunque siamo, anche nei mari più lontani o nella notte più oscura ci dice questa bella preghiera, Dio è là e non si stanca mai di scrutare il nostro intimo, di tenderci la mano per guidarci sulla via della vita.
Se è vero che Dio non si stanca mai di bussare alla porta della nostra vita, come troviamo scritto ancora nell'Apocalisse, è bello pensare che proprio il nostro cuore sia la casa prediletta in cui Dio desidera entrare; è bello pensare che ognuno di noi - specialmente la domenica, quando usciamo dalla chiesa dopo esserci nutriti con la Parola e con l'Eucaristia - sia un tabernacolo vivente perché ospita il Signore nel proprio intimo e, mediante la semplice testimonianza quotidiana. lo porta in famiglia, fra gli amici e, magari, anche a coloro che sembra non vogliono lasciarsi trovare dal Signore o, spero non superficialmente, continuano a chiedersi: “A cosa serve Dio?”.
don Giuseppe
ripensandoci
Com'erano belli i suoi monti, si stupì volgendo attorno lo sguardo e, anche se era cambiato, com'era bello il suo paese. Si sentì stringere la gola. Eh sì, stava proprio diventando vecchio, la commozione non gli era mai stata familiare, era una cosa tanto nuova per lui che la ricacciò come se fosse disdicevole e vergognoso provarla. La casa che l'aveva visto bambino era da tempo stata trasformata in ostello e non la riconobbe che dalle finestre ogivali. Prese in affitto una camera in albergo; non sapeva quanto si sarebbe fermato: importanti affari l'avrebbero presto richiamato là dove aveva vissuto molti anni.
Riposò come non succedeva da tempo e al mattino si alzò presto col proposito di effettuare un'escursione nei boschi che, a differenza del paese, gli sembravano quelli di un tempo. L'aria frizzante del mattino lo accarezzava dolcemente e non gli faceva sentire la fatica della ripida salita. Trascorse una splendida giornata, solo lui e la montagna, il silenzio e la quiete.
Era così perso nei suoi pensieri, mentre scendeva a valle, verso sera. La luce del sottobosco cominciava a mancare e i raggi del sole morente faticavano a sfondare l'intrico delle fronde degli alberi secolari. Ad un tratto gli parve di udire una voce e una melodia bellissima lo stupì e incuriosì. Da dove veniva?
Tese l'orecchio e trattenne il respiro: qualcuno stava cantando. A piccoli passi si avvicino al luogo da cui proveniva: c'era una piccola radura nel bosco, e una ragazza stava cantando seduta su un ceppo tagliato, teneva in braccio un cerbiatto e lo accarezzava teneramente.
La luce calda del tramonto, filtrando fra l'intrico dei rami, faceva splendere il pulviscolo come pagliuzze dorate che piovevano dall'alto sulle due figure facendole sembrare un miraggio. Il canto era dolcissimo, le note pure e melodiose vibravano nell'aria come un palpito d'ali. Lui non ne comprendeva il significato poiché non conosceva quella strana lingua, eppure venne rapito da quella melodia e rimase nascosto ad ascoltare incantato, mentre il canto si riempiva di una tale struggente malinconia che di nuovo avvertì quella stretta alla gola e, senza sapere perché, si trovò ad asciugarsi gli occhi col dorso della mano.
Così com'era nato quel canto meraviglioso, a poco a poco, impercettibilmente scemò e svanì, e con lui anche chi l'aveva generato. Quando se n'era andata? Non l'aveva vista alzarsi, eppure non c'era più. Mosse qualche passo incerto verso il ceppo e si guardò in giro. Nessuno, solo lui e una sensazione stranissima, sovrannaturale... Provo un brivido di timore e fuggì da quel luogo magico, mentre un turbinio di pensieri gli invadeva la mente. Stava forse impazzendo?
Sentì improvviso, inaspettato il desiderio di pregare ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a richiamare alla mente neppure una piccola preghiera. Come evocata scorse, seminascosta da grandi alberi, la piccola chiesa che si trovava al limitare del bosco. Proprio allora gli arrivarono argentine le note della campana che dalla parrocchiale più a valle invitavano alla preghiera della sera.
Si sentì chiamato da quella campana e si aggrappò al portale della chiesetta credendolo chiuso, invece, cigolando sui cardini logori, si spalancò sotto la sua spinta timorosa. La chiesa era piuttosto buia e lui vi penetrò quasi titubante, si trovo in ginocchio senza quasi accorgesene davanti al piccolo tabernacolo. Solo allora gli salì alle labbra la preghiera del Padre nostro, disseppellita, non dimenticata, dai recessi polverosi della sua memoria.
Lì solo, in quella piccola chiesa, senti rinascere dentro di lui la “sete” di Dio che credeva perduta, la fede che l'aveva accompagnato da fanciullo, che da tanti, troppi anni, aveva abbandonato, ma che non era persa del tutto. Come una piccola scintilla sotto la cenere apparentemente spenta di un camino, alimentata, prende vigore e arde fulgida, così la sua anima sentì il desiderio grandissimo di riavvicinarsi a Dio. Questo avrebbe fatto e la sua vita da quel giorno cambiò: si liberò da tutti i suoi impegni di lavoro, cercò una piccola casa e, non mancandogli la disponibilità economica, si mise ad aiutare quanti erano nel bisogno, tanto che tutti impararono a conoscerlo col nome di “Generoso”.
Per buona parte della sua vita non aveva pensato che ad accumulare denaro ed ora, grazie a un evento strano e bellissimo, aveva trovato il senso vero della vita: si sentiva in pace con Dio e col mondo intero, pienamente appagato e incredibilmente felice di condividere ciò che aveva col suo prossimo.
Racconta un vecchio saggio che vi sono posti nel deserto dove la pioggia non cade quasi mai; a volte possono passare anche 100 anni, ma quando ciò accade, le dune riarse e spoglie si vestono di fiori dai colori spettacolari e quel luogo desolato assume un aspetto incredibilmente meraviglioso perché i piccoli semi erano ancora vivi sotto la sabbia, riposavano attendendo di essere svegliati dal lungo sonno.
Può capitare che alcuni di noi si sentano come quell'angolo di deserto, ma quel piccolo seme che anni prima Qualcuno ci ha gettato nell'anima può improvvisamente ricominciare a germogliare e fiorire perché non era morto, no, aspettava solo di essere destato dal sonno.
Dely
ripensandoci
Caro San Giuseppe, scusami se approfitto della tua ospitalità e, con una audacia al limite della discrezione, mi fermo una mezz'oretta nella tua bottega di falegname per scambiare quattro chiacchiere con te. Tu continua pure a piallare il tuo legno, mentre io, seduto su una panca, in mezzo ai trucioli che profumano di resine, ti affido le mie confidenze...
Mio caro San Giuseppe, sono venuto qui per conoscerti meglio come sposo di Maria, come padre di Gesù e come capo di una famiglia per la quale hai consacrato tutta la tua vita. E ti dico che la formula di condivisione espressa da te come marito di una vergine, la trama di gratuità realizzata come padre del Cristo e lo stile di servizio messo in atto come responsabile della tua casa, mi hanno da sempre incuriosito, e mi piacerebbe capire in che misura questi paradigmi comportamentali siano trasferibili nella nostra “civiltà”.
Attraverso l'uscio socchiuso, scorgo di là Maria intenta a ricamare un panno bellissimo, senza cuciture, tessuto tutto d'un pezzo da cima a fondo. Probabilmente è la tunica di Gesù per quando sarà grande. Quando tuo figlio indosserà quella tunica, lui, l'eterno, si sentirà le spalle amorosamente protette dal fragile tempo di sua Madre.
Dimmi, Giuseppe, quand'è che hai conosciuto Maria? Forse un mattino di primavera, mentre tornava dalla fontana del villaggio con l'anfora sul capo? O forse un giorno di sabato, mentre con le fanciulle di Nazaret conversava in disparte sotto l'arco della sinagoga? ...
Ti ha parlato di Jahvé. Di un angelo del Signore. Di un mistero nascosto nei secoli e ora nascosto nel suo grembo. Di un progetto più grande dell'universo e più alto del firmamento che vi sovrastava. Fu allora che le dicesti tremando: «Per te, rinuncio volentieri ai miei piani. Voglio condividere i tuoi, Maria. Purché mi faccia stare con te». Lei ti rispose di si e tu le sfiorasti il grembo con una carezza: era la tua prima benedizione sulla Chiesa nascente.
Hai avuto più coraggio tu a condivide il progetto di Maria, di quanto ne abbia avuto lei a condividere il progetto del Signore. Lei ha puntato tutto sull'onnipotenza del Creatore. Tu hai scommesso tutto sulla fragilità di una creatura. Lei ha avuto più fede, ma tu hai avuto più speranza. La carità ha fatto il resto, in te e in lei. Non hai chiesto nulla per te; non per orgoglio ma per sovraccarico d'amore.
Ora Giuseppe... sta arrivando una donna dal forno. Ecco, ti ha portato del pane, e la bottega si è subito riempita di fragranza... Si direbbe che il pane, più che nutrire, è nato per essere condiviso. Con gli amici, con i poveri, con i pellegrini, con gli ospiti di passaggio. Spezzato sulla tavola, cementa la comunione dei commensali. Deposto nel fondo di una bisaccia, riconcilia il viandante con la vita. Offerto in elemosina al mendico, gli regala un'esperienza, sia pur fugace, di paternità. Donato a chi bussa di notte nel bisogno, oltre a quella dello stomaco, placa anche la fame dello spirito che è fame di solidarietà. Un giorno anche tuo figlio lo spezzerà, prima di morire e la speranza traboccherà sulla terra. Spezza anche per me un po' di quel pane.
Dopo il pane, ecco ti portano il vino. Un giorno tuo figlio lo farà scorrere sulle mense dei poveri e sceglierà il succo della vite come sacramento del sabato eterno. Dammene un po' e dammi anche un po' d'acqua pura della fonte. Quando tuo figlio la userà per lavare i piedi ai suoi amici, diverrà il simbolo di un servizio d'amore, spiegazione segreta della condivisione, della gratuità, della festa.
Caro San Giuseppe, il mio incontenibile bisogno di senso ha trovato rifugio e risposte presso di te. Gli echi di questa ricerca di autenticità ancora si diffondono nel nostro tempo. E - ne siamo certi - continuano a giungere fino a te.
Tonino Belli
da “La carezza di Dio. Lettera a Giuseppe”
ripensandoci
Ritorna l'estate. Ci avvolge con i suoi ritmi, i suoi riti, i suoi desideri, i suoi ludici “santuari” e ci offre, per liberarci dalla fatica del lungo inverno, l'opportunità di un tempo che, chiamato “libero”, c'incatena ad una infinita di abitudini e svuota di senso, di scopo, di significato le diverse opportunità che invece questo tempo può offrirci.
Anche le Comunità Parrocchiali subiscono l'attrattiva di questo tempo: “descolarizzate” le loro attività, avvertono la fatica dell'incontro con l'homo viator, vedono mutare il loro stesso volto. Si perde la dimensione di appartenenza alla Parrocchia.
I fedeli emigrano, partono, si disperdono. E si ricompongono altrove: al mare o ai monti, lungo i fiumi e sui laghi, nei centri benessere e nei parchi, ma anche negli eremi e nei monasteri, nel volontariato e nel servizio verso coloro, e sono tanti, che non possono usufruire né di vacanze né di quiete, nei pellegrinaggi e nell'incontro con l'arte e la cultura. Negli spazi dell'Infinto e del Trascendente.
L'estate e la vacanza non sono nemici della fede, sono tempi da cogliere, da vivere, da riempire.
Papa Benedetto XVI ha detto che “il tempo libero è certamente una cosa bella e necessaria, ma se non ha un centro interiore esso finisce per essere un tempo vuoto che non ci rinforza e ricrea”.
La stessa parola “vacanza” che deriva dal latino “vacare” (essere vuoto, vacante; in senso figurato essere libero quindi avere tempo per, mancare di, essere lontano da) può evocare, nel suo significato etimologico, una prospettiva e uno stile nel “fare vacanza”. La vacanza non come tempo vuoto, ma come tempo di libertà. Tempo riempibile di senso per non sprofondare poi nella noia, per non rinchiudersi nello smarrimento, per non allontanarsi dalla vita, dal quotidiano perché stufi della sua monotonia.
È un tempo creativo, anche nella logica di Dio, Il salmo 45 sembra quasi invitarci a “fare vacanza”: «Fermatevi e sappiate che io sono Dio».
Estate allora è il tempo per fermarsi, per sostare, per verificarsi, per riprendere in mano la propria vita. Tempo per se, tempo per gli altri, tempo per le amicizie, tempo per l'essenziale, tempo per lo spirito, tempo per Dio.
È il tempo per la bellezza. Attraverso “la via della bellezza” nell'estate è possibile risvegliare il desiderio di senso e la nostalgia dell'indicibile. Il Cardinal Ratzinger, oggi papa Benedetto XVI, dice che “l'incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l'anima ed in questo modo le apre gli occhi”. L'enorme patrimonio culturale religioso, risulta essere un percorso privilegiato in tal senso.
La vacanza del credente è un atto estetico. E, continua il Cardinal Ratzinger, “affinché oggi la fede possa crescere, dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a entrare in contatto con il bello e annunciare la verità della bellezza. Non la bellezza mendace, falsa, abbagliante che non fa uscire gli uomini da sé per aprirlo nell'estasi dell'innalzarsi verso l'alto, bensì li imprigiona totalmente in se stessi”.
L'incontro, nel tempo di vacanza, con l'enorme patrimonio culturale religioso, con comunità cristiane accoglienti, con la ricchezza delle tradizioni, risulta essere un percorso privilegiato in tal senso.
Infine, la vacanza, ricorda all'uomo chi egli è: è immagine di Dio chiamato ad immergersi nel non-tempo quando tutto sarà riposo e quiete, incanto e bellezza, gioia e festa senza fine.
Dai “Quaderni della segreteria della CEI”
ripensandoci
Quando i due genitori vogliono progettare di avere un figlio, oppure, grazie alla Provvidenza, si trovano ad aspettarne uno, inevitabilmente si formano pensieri e preoccupazioni che, schematicamente, si possono idealmente descrivere come un bilancio di previsione a due voci contrapposte quali costi/ricavi – entrate/uscite – guadagni/perdite. Queste voci iscritte in bilancio sono anche di natura economica, ma non solo. Per questo ragionamento abbiamo provato, in sintesi, a compilare uno schema di bilancio a voci contrapposte rispondendo alla domanda: cosa comporta avere un bambino?
COSTI - USCITE - PERDITE (preoccupazioni) |
RICAVI - ENTRATE - GUADAGNI |
La sua salute sarà buona? | Il sorriso di un bimbo piccolo che non sa ancora parlare |
Avremo la forza di accudirlo? | |
A che società andiamo incontro? | |
Notti insonni quando è piccolo | |
Poco tempo per seguire gli affari | |
Avremo i soldi per la casa? | |
Potremo farlo studiare? | |
A quante “pizze” dobbiamo rinunciare? | |
Potremo andare in vacanza? | |
Ci sarà un futuro migliore o peggiore? | |
Avremo qualcuno che ci aiuta? | |
Sarà un buon ragazzo e adulto? | |
Sarà un buon cristiano? |
Alla voce Ricavi - Entrate - Guadagni ci siamo fermati alla prima riga, perché già al quel punto il bilancio presenta un saldo attivo. Anche se aggiungessimo altre voci ai costi (e ce ne sarebbero) il risultato non cambierebbe. Grazie a Dio questa voce attiva del sorriso di un bambino l'abbiamo potuta sperimentare più volte ed ogni volta è stata gioia e stupore. Ci permettiamo solo di indicare due voci fuori dal bilancio sulla parte attiva: Provvidenza e Speranza, anche queste sperimentate e vissute non per nostro merito, ma per grazia, e perciò possibili da offrire a chi legge.
Per chi vuole approfondire, specie i giovani e le giovani coppie, la Parola di Dio e la Chiesa offrono sempre temi ed occasioni da non perdere.
Due genitori
19 luglio 1998: la visita del Papa a Borno
Nel luglio di 10 anni fa, da Lorenzago dove si trovava per le vacanze, il Papa Giovanni Paolo II è venuto in elicottero a Borno per alcune ore ed ha recitato l'Angelus davanti alla facciata della chiesa parrocchiale.
Nei cuori e nelle menti di chi era presente sono rimaste incancellabili le parole del Papa, il cui messaggio centrale è stato un triplice invito. Uno rivolto a tutta la gente di Borno: “Cari Bornesi, amate la vostra fede, testimoniatela con gioia, rendetela operosa mediante l'amore fraterno, il perdono e l'aiuto reciproco e solidale”.
Uno rivolto ai giovani: “Investite bene la vostra vita, che è un talento da far fruttificare; ricordatevi che si vive una volta sola. Non sprecate la vostra vita!”.
Ed uno rivolto ai lontani dalla Chiesa e ai non credenti: “Non abbiate paura a cercare Dio, perché Egli vi sta cercando e vi ama”.
Questo messaggio, insieme col caloroso saluto e gli auguri che il Papa ha esteso ai villeggianti che vengono a Borno “per respirare aria buona e cercare ristoro fra le pinete ed i monti”, non deve essere dimenticato.
Ugualmente non deve essere dimenticata la testimonianza che quel grande Papa ha dato al mondo con la sua fede, col suo coraggio, con la sua preghiera, con i suoi viaggi nei cinque continenti per dire a tutti che ognuno ha un posto nel cuore di Dio e per infondere coraggio alla Chiesa.
Si tratta di un Papa che appartiene ai giganti della storia.
Egli ha risvegliato nel mondo il senso religioso. Ha fatto capire che non si possono limitare gli orizzonti dell'uomo a questa terra. Ha insegnato che la coscienza “in cui l'uomo si trova solo con Dio e scopre una legge scritta nel cuore” (Gaudium et spes, 16) conferisce dignità all'uomo e alla donna, e nessuno può strapparla o sopprimerla.
Ha avuto fiducia nella forza delle istanze spirituali e morali ed ha sempre messo al centro la persona umana con la sua intangibile dignità e libertà.
Questa centralità della persona umana, Giovanni Paolo II ha saputo non solo difenderla col vigore della sua missione apostolica, ma l'ha testimoniata con l'esempio eloquente della sua profonda umanità, con il lavoro da giovane operaio nella cava di pietra e poi nella fabbrica della Solvay, con la passione per il teatro e la fine sensibilità poetica, con l'amore per lo sport praticato da sacerdote, da Vescovo e perfino da Papa, col suo ammirato stupore di fronte alle meraviglie della natura e dell'arte.
Egli inoltre ha saputo congiungere un profondo e penetrante realismo storico con uno sguardo illuminato dalla fede. Perciò ha saputo scorgere l'azione di Dio nella trama degli avvenimenti ed ha saputo influire da protagonista sul corso degli eventi.
La Provvidenza divina ha riservato grandi compiti nella storia mondiale del nostro tempo al Papa venuto dalla Polonia.
Anche se è vero che Giovanni Paolo II ha inciso nella storia e negli avvenimenti che hanno portato alla caduta del muro di Berlino, come ha rilevato lo stesso Gorbachov, la prima e fondamentale caratteristica del suo Pontificato è stata religiosa.
Il movente di tutto il Pontificato, il motivo ispiratore di tutte le iniziative intraprese è stato religioso: tutti gli sforzi del Papa miravano a fare rientrare Dio da protagonista in questo mondo.
Il motivo per cui il Papa era contro il comunismo era un motivo non politico, ma religioso: egli operò con coraggio contro il comunismo perché era un sistema che professava l'ateismo e perseguitava la Chiesa, e in pari tempo opprimeva l'uomo, negandogli piena libertà. Era un motivo religioso quello che ispirava il Papa e che faceva seguito alle parole vibranti da lui pronunciate nella prima celebrazione in Piazza San Pietro: “Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo!”
L'elemento qualificante del suo Pontificato è stato l'amore a Cristo, Redentore dell'uomo, e l'amore all'uomo, redento da Cristo.
La fedeltà al Vangelo ha portato Giovanni Paolo II a difendere col vigore del lottatore i grandi valori umani e cristiani. Difese tali valori con importanti encicliche e innumerevoli interventi, facendo sentire la sua voce anche nelle conferenze internazionali. In tutti gli angoli della terra ha seminato ragioni di vita e di speranza ed ha rivendicato la dignità di ogni uomo e di ogni donna e il rispetto della libertà e dei diritti umani.
Ha indicato a tutti la via della verità e dei valori morali come unica strada che può assicurare un avvenire più umano, più giusto, più pacifico. È stato in questa nostra epoca, nella quale ha lasciato un segno incancellabile, il più strenuo e appassionato tutore dei valori che danno senso alla vita e che fanno parte del patrimonio della civiltà cristiana. È stato un grande messaggero di pace e un instancabile operatore per una convivenza tra gli uomini e i popoli all'insegna dell'armonia e della collaborazione.
La testimonianza della sua vita parla ancora al cuore di ogni uomo e di ogni donna, nonostante l'inesorabile trascorrere del tempo.
Card. Giovanni Battista Re
19 luglio 1998: la visita del Papa a Borno
In occasione del decimo anniversario della visita del Santo Padre Giovanni Paolo II alla nostra comunità, i ragazzi delle scuole medie hanno intervistato alcune persone su questo straordinario evento.
Don Giuseppe Maffi, parroco di Borno
(di Alessandro M.)
- Quanti anni avevi all'arrivo del papa?
Avevo 56 anni.
- Sei stato tu il primo ad essere avvisato dell'imminente arrivo? Da chi e come?
Si, come parroco sono stato il primo ad essere avvisato dal Cardinale Giovanbattista Re tramite una telefonata. In principio il Cardinal Re voleva far portare il Papa in vacanza a Borno, per fargli conoscere il suo paese natale. Purtroppo il Santo Padre mostrava già i primi segni di malattia, motivo per cui Monsignor Stanislao (ora vescovo di Cracovia) decise di mandarlo in una delle sue case in Trentino. Il Papa riuscì comunque ad esaudire il desiderio del Cardinal Re, promettendo che, durante le sue vacanze, sarebbe venuto a Borno una domenica per celebrare l'Angelus. Quel giorno fu il 18 luglio 1998.
- Cosa hai provato dopo aver ricevuto la notizia?
Ho provato grande gioia e trepidazione.
- In che modo si sono svolti i preparativi? Chi è stato ingaggiato? Con quali emozioni si lavorava?
La preparazione si e realizzata in circa due-tre mesi durante i quali la comunità di Borno ha preparato bandiere, striscioni, ecc... Tutti lavorarono con entusiasmo.
- Dove è atterrato l'elicottero che trasportava il Papa?
L'elicottero, bianco, e atterrato nel piazzale della Dassa.
- Eri lì all'arrivo di una così importante persona?
Ovviamente. Come parroco dovevo essere lì.
- Come vi siete salutati? Cosa hai provato?
Ci siamo salutati con una stretta di mano e poi io gli ho baciato la mano e durante quel saluto io ho sudato, ma non per il caldo.
- Come era vestito il Papa? Da chi era accompagnato?
Il Papa era vestito di bianco ed era accompagnato dalla sua sicurezza.
- Cosa facevi mentre il Papa celebrava l'Angelus? Ti è sembrato un Angelus normale?
Io ero lì sul palco insieme al Cardinale, al Vescovo e don Angelo e quell'Angelus mi è sembrato più familiare perché detto in mezzo alla gente e non da una finestra.
- Il Papa come ha trascorso il resto della giornata? Tu eri con lui?
Ha pranzato a casa mia, eravamo in 12: io, don Angelo, il Papa, la sicurezza e il guardiano dell'Annunciata. Dopo il pranzo ha riposato sempre a casa mia, poi ha preso la Papa Mobile ed è andato a Croce di Salven per incontrare i parenti del Cardinale e al padre di quest'ultimo ha regalato un'icona. Dopo l'incontro è ripartito con l'elicottero in un prato vicino.
- A che ora e andato via? Come lo ha salutato la gente? Come lo hai salutato? Cosa hai provato?
Il Papa è andato via alle 18.00 e la gente lo ha salutato con gioia, io con un abbraccio; in quel momento ho provato gioia, emozione e ho pensato che per fortuna era andato tutto bene.
- Nei giorni successivi il Papa ha parlato di questa visita in televisione?
Non ne ha parlato perché l'Angelus lo ha visto tutto il mondo.
- All'annuncio della sua morte cosa hai provato?
Ho provato dispiacere, rincrescimento, ma anche consapevolezza di aver avuto la fortuna di averlo incontrato perché quando era in vita era venuto a Borno.
Possiamo dire che dopo la morte di Giovanni Paolo II la venuta del Papa a Borno e diventata ancora più importante: la nostra comunità è stata visitata da un Santo. È stato davvero uno splendido ed importante momento per l'intera comunità.
Don Alberto Cabras, curato della parrocchia di Borno
(di Irene)
- Quando il Papa e venuto a Borno era la prima volta che lo vedevi?
Praticamente si. Era già venuto a Brescia quando ero piccolo. ma purtroppo non me lo ricordo.
- Avresti mai pensato che sarebbe venuto nel nostro paese?
In effetti no, ma soprattutto non avrei mai pensato di vivere il sacerdozio nel paese in cui era stato il Papa.
- Che cosa hai trovato di speciale in questo Papa?
Innanzitutto lo rendeva speciale il fatto di essere il Papa. Era un uomo determinato, buono, il “Papa della gente”, ma soprattutto era un uomo di Dio.
- Che cosa ti ha dato l'incontro con Lui?
Anche se ero molto giovane, infatti avevo solo 22 anni, l'incontro con il Papa mi ha trasmesso una fortissima emozione.
- Qual è il momento che ti ha colpito di più?
Non avendo potuto andare sul sagrato per vederlo da vicino, ho assistito solo all'atterraggio dell'elicottero che, comunque, mi ha colpito molto. Poi, grazie a dei maxischermi, ho potuto sentire le Sue parole, quindi anche quello che diceva ai giovani: “La vita è una sola e non va sprecata”.
- Che emozioni hai provato?
Un grande desiderio di donare la mia vita per gli altri, proprio come aveva fatto Lui.
- Non essendo, nel 1998, ancora sacerdote, l'incontro con il Papa ti ha aiutato nel fare la tua scelta?
In tutta sincerità, avevo già fatto la mia scelta. Lui e venuto a Borno a luglio e io già sapevo che a settembre sarei entrato in seminario. Nonostante questo, l'incontro con il Papa ha rafforzato molto la mia fede.
Giovanna Zani, 75 anni
(di Maria)
- Quando hai visto il Papa per la prima volta?
Ho visto il Papa la prima volta in chiesa quando ha salutato i sacerdoti.
- Con chi eri?
Io accompagnavo don Spiranti e ricordo che tutti i sacerdoti avevano un'espressione beata, come illuminata da Dio.
- Hai seguito l'Angelus?
Si. Poi sono uscita e quando il Papa è passato tra la folla ho visto che tutti erano radiosi. È stata un'esperienza indimenticabile perché il Santo Padre era una persona molto umile. Si vedeva chiaramente come il suo volto e il suo sorriso fossero illuminati da Dio.
- Ricordi qualche espressione o gesto di Giovanni Paolo II?
Alla fine dell'Angelus, l'ormai anziano sacerdote don Spiranti l'ha voluto salutare di nuovo. In quell'occasione il Papa mi ha stretto le mani e mi ha toccato due volte il volto. È stata come una benedizione! In ricordo di questa giornata ho conservato parecchie fotografie e, guardandole, rammento i fatti di quel giorno.
Famiglia Rivadossi
(di Alessandro R.)
- Che emozioni avete provato quando è venuto il Papa?
Un'emozione unica, che più grande non si può, davvero indescrivibile. Questo per la grande opportunità che abbiamo avuto di poter accogliere il Papa insieme ai nostri quattro figli.
- Come vi eravate preparati all'incontro con Giovanni Paolo II?
Con gioia e serenità. Quando il parroco, don Giuseppe Maffi, ci ha comunicato che la nostra famiglia avrebbe potuto accogliere il Santo Padre al suo arrivo a Borno, abbiamo provato una grande emozione ma, allo stesso tempo, anche un momento di forte tensione per il compito che era stato assegnato a noi e ai nostri quattro gemellini.
- Come vi ha salutato il Papa?
ll Papa e arrivato con l'elicottero al piazzale della Dassa verso le ore 10. Noi eravamo già là, pronti ad accoglierlo. Non appena l'elicottero è atterrato, il Santo Padre si è presentato sulla scaletta. Nel vederlo ci siamo emozionati molto. Lui ha salutato i tanti fedeli e poi è sceso dalla scaletta. Ci è venuto incontro. I nostri bambini avevano ciascuno una rosa gialla da offrigli. Lui ha preso la rosa, li ha baciati sulla fronte, gli ha donato una corona e ha dato loro la Sua benedizione. In seguito ha salutato le autorità.
È stata davvero una giornata indimenticabile, una giornata molto importante per i nostri bambini e per la nostra famiglia. Spesso la riviviamo con piacere e commozione sfogliando l'album delle fotografie.
Teo Pinzio, gestore dell'Albergo Belvedere
(di Riccardo)
- In che anno e venuto il Papa a Borno?
Il 19 luglio 1998.
- Che significato ha avuto per te questa data?
Per me questa era già una giornata speciale perché era il compleanno di mia moglie; inoltre abbiamo avuto il grande onore di essere scelti per preparare il pranzo a Sua Santità ed il suo seguito. Per noi e stata una giornata molto impegnativa e faticosa perché avevamo il ristorante pieno di gente ed inoltre dovevamo preparare il cibo da portare in Canonica.
- Siete stati ricevuti dal Santo Padre?
Sì, abbiamo avuto l'onore di essere ricevuti in udienza privata da Sua Santità: è stato veramente emozionante incontrare cosi da vicino un Santo, una persona tanto carismatica, capace di suscitare in noi tutti tante emozioni. Questa giornata non è stata vissuta solo dal punto di vista lavorativo, ma penso che con la sua visita Giovanni Paolo Il abbia portato a noi una ventata di pace e di speranza.
- Cosa hai notato in particolare di questa giornata?
Durante la sfilata del Papa in Viale Giardini, ho notato un particolare veramente importante: sul lato opposto al mio locale c'erano tantissimi ragazzi, abituali clienti della birreria. All'arrivo del Santo Padre tutti avevano, come me, gli occhi lucidi dall'emozione e penso che abbiano atteso questo momento con la speranza di ricevere una benedizione speciale ed il loro entusiasmo era incredibile. Pensavo che certi ragazzi si entusiasmassero soltanto per il rock, invece, con una persona di tanto spessore, tutto può capitare... Non dobbiamo scordarci di ringraziare Sua Eminenza, il cardinal Re, perché solo grazie a lui abbiamo potuto vivere una giornata storica.
Elena Marchi, insegnante di lettere
(di Marco)
- Si dice che sia stato un Papa che ha unito le persone; che emozioni ha provato vedendolo?
La venuta del Papa a Borno non è stata la prima occasione in cui ho visto Giovanni Paolo II. Alcuni anni prima del 1998 trascorsi le vacanze di Pasqua a Roma e ascoltai la Messa in piazza San Pietro. Allora, come poi nell'occasione bornese, provai forti emozioni: non solo Giovanni Paolo II era una persona capace di unire le persone, ma aveva la grande forza di trascinarle, di veicolarle in un'unica direzione, quella della speranza e dell'amore. È un peccato che voi siate così giovani e non abbiate potuto conoscerlo: ma ne troverete un ricordo nei libri, perché quest'uomo ha segnato la storia.
- Mi racconti la sua esperienza.
Sono trascorsi dieci anni e la mia memoria è tutt'altro che ferrea. Comunque ricordo una giornata di grande fervore in Borno. Tanta gente, una grande folla, ma ciascuno credo abbia partecipato in modo molto individuale e singolare a quell'incontro. lo mi recai sul sagrato di Borno a piedi, con mio marito: era l'anno del nostro matrimonio, anzi, eravamo sposi da soli 19 giorni. Quella visita dunque ha avuto un significato particolare per me: è stata un po' la benedizione della mia unione coniugale. Lungo il tragitto, prima di vedere il Santo Padre, io e Marco non ci siamo detti molte parole: stavamo preparando l'animo all'incontro. Poi, davanti alla Chiesa, abbiamo visto il Papa, abbiamo ascoltato l'Angelus, abbiamo partecipato con la comunità bornese, la nostra nuova comunità di appartenenza, ad un evento molto speciale e ci siamo sentiti, io mi sono sentita, parte di un'unica cosa. È stata una splendida sensazione.
- Se avesse avuto l'opportunità di parlargli, cosa gli avrebbe chiesto?
Credo che mi sarei trovata in grossa difficoltà: di fronte ad una persona di cosi grande spessore, di tale carisma, di siffatta “immensità”, anch'io, che difficilmente taccio, forse non avrei proferito parola, mi sarei limitata a sorridere emozionata. D'altronde cosa si può chiedere ad un Papa? Sono sempre stata molto incuriosita dal sapere cosa si dicono negli incontri privati i grandi personaggi di Stato e il Pontefice. Io, nel mio piccolo, non essendo un uomo di stato, oggi chiederei a Giovanni Paolo II di continuare a vegliare su di noi e lo ringrazierei per il sacrificio della Sua vita.
- Se dovesse descrivere il Papa in due parole, come lo definirebbe?
Non lo so, è molto difficile descrivere qualsiasi persona in due parole: come è possibile farlo di un uomo che in qualche modo ha cambiato il mondo contemporaneo? Forse lo definirei il Papa della Pace.
- Cosa ha significato Papa Wojtyla per il mondo?
È stato un grande Papa: è stato il Papa dei giovani ed ha contribuito ad un riavvicinamento della gioventù alla Chiesa, anche attraverso forme di preghiera collettiva o di gruppo che io non amo molto, ma di cui apprezzo comunque la grande efficacia; è stato il Papa della Pace, perché ha agevolato la distensione nel periodo tragico della Guerra Fredda; è stato il Papa del dialogo tra le diverse religioni. E poi, fatto per noi fondamentale, è stato il Papa della Montagna, il Papa dell'Adamello, il Papa di Borno!
Una persona anziana
L'intervista rispecchia il pensiero e le emozioni di molti anziani di Borno che, a dieci anni di distanza, ripensano con gioia e gratitudine alla visita di Giovanni Paolo II.
- Ti ricordi quando Papa Giovanni Paolo Il è stato a Borno?
Non potrei mai dimenticarmelo: era esattamente domenica 19 luglio 1998
- Quanti anni avevi quando il Pontefice ci ha fatto visita?
Avevo esattamente dieci anni meno, cioè 65 anni.
- Sei riuscita a stringergli la mano o a vederlo da vicino?
Tutti avrebbero voluto farlo. Purtroppo io l'ho visto solo da lontano perché il sagrato, ma non solo, era gremito di gente e blindato. Già alcuni giorni prima, il paese era in fermento e preso d'assalto. Una miriade di fedeli giungeva da ogni parte per assistere all'evento.
- Quali sono le immagini e i ricordi che, a dieci anni di distanza, sono ancora vivi?
Tanti sono i ricordi di quella giornata. Ho ancora davanti agli occhi alcuni particolari: il passo lento ma determinato del Pontefice che scende dall'elicottero; il suo sorriso davanti ai quattro piccoli gemelli Rivadossi che, a nome dei bornesi, gli davano il benvenuto e gli porgevano un mazzo di fiori; il suo volto già sofferente raccolto in preghiera durante l'Angelus; la piazza e il sagrato “punteggiati” di bandierine e palloncini bianchi e gialli...
- Qual è la prima cosa a cui hai pensato quando hai visto il Papa?
Potrà sembrare strano ma, guardandolo da lontano, ho pensato che i bornesi erano davvero fortunati: non a tutti è data la grazia di godere della visita del Papa nella propria Parrocchia.
- Cosa hai provato mentre ascoltavi Papa Giovanni Paolo II parlare alla folla sulla porta della nostra bellissima Chiesa?
Un'emozione indescrivibile che ancora rivivo se mi capita di pensarci. La consapevolezza del privilegio di avere Sua Santità così vicino mi faceva e mi ha fatto sentire per molto tempo più vicina al Cielo.
- Immagino che la notizia della sua morte sarà stata un duro colpo...
Penso che la notizia della sua morte sia stato un duro colpo per tutti. È anche vero che la sua visita in paese gli ha riservato un posto speciale nel cuore dei bornesi e la sua scomparsa ha creato un vuoto che a volte sembra davvero incolmabile.
- In conclusione c'è qualcosa che vorresti aggiungere?
Sono davvero fiera di essere stata testimone della visita del Santo Padre a Borno. Ogni volta che mi reco in Chiesa il mio sguardo, anche senza volerlo, si posa sulla parete della navata sinistra che riporta una scritta “Spalancate le porte a Cristo”. Sono parole soavi che rincuorano e danno forza. Sono le dolci e sagge parole di una persona che prima di essere stato un grande Papa, è stato un grande uomo e che mi accompagnano nei momenti di sconforto.
19 luglio 1998: la visita del Papa a Borno