Pasqua 2016
La parola del PARROCO
“Chiediamo al Signore la grazia di avere il coraggio di proclamare sui tetti che Gesù è il Signore” e di “essere umilmente fieri della Croce di Cristo”. Sono parole del Card. Angelo Bagnasco pronunciate recentemente e che possono fare da guida anche per noi in questo cammino verso la Pasqua del Signore. La Pasqua è la proclamazione della vittoria del Gesù crocifisso sulla morte, su ogni morte e sull’avversario che si è servito con l’inganno di noi, misere creature, per far condannare l’innocente.
A Pasqua, umilmente coscienti di aver ricevuto un dono immeritato, proclamiamo che Gesù è il Signore, il vincitore, il salvatore nostro. Ma anche coraggiosamente affermiamo che il crocifisso ci ha salvato e redento, che la vita eterna è venuta dal sacrificio di Cristo in croce, che la nostra esistenza è connotata per sempre dalla riconoscenza verso di Lui che si è immolato per noi. Ecco il richiamo a proclamare sui tetti che Gesù è il Signore e a mostrare con fierezza la croce.
La nostra Pasqua sia allora l’annuncio gioioso della riconciliazione avvenuta con Dio, la manifestazione senza vergogna o timidezza che noi siamo salvi solo in Cristo Gesù e l’auspicio che la pace donataci dal Signore riempia i nostri cuori e si trasmetta ai nostri fratelli vicini nella fede e ai tanti fratelli lontani dalla fede e anch’essi destinatari della salvezza.
L’augurio mio pasquale è dunque che il crocifisso risorto ritorni nelle nostre case, sui nostri corpi, nelle nostre parole anche a costo di essere male interpretati, di dare fastidio a chi ci vuole silenziosi o fatti oggetto dell’accusa gratuita di essere con la nostra fede la causa dei mali del mondo e della negazione delle libertà dell’uomo.
Grazie Mons. Angelo, che ci sproni ad una fedeltà più grande a Gesù Salvatore, a leggere la storia alla luce di Gesù Redentore, a giudicare il mondo e le scelte che ci sono richieste alla luce della speranza che ci ha dato Gesù nostro Signore.
E chissà che nelle grandi e fondamentali questioni di vita e di morale anche altri nostri vescovi ritrovino il coraggio e la franchezza nel parlare che fu degli apostoli e così spesso mancante in molti di loro.
Don Francesco
Cüntòmela PER RIFLETTERE
L'abbraccio tra Papa Francesco e il Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, Kirill, in una sala dell'aeroporto di Cuba, è un fatto che resterà nella storia.
L'evento è stato annunciato un paio di settimane prima, ma da lungo tempo era in preparazione. A nessuno è sfuggita l'importanza di questo incontro, il cui annuncio ha avuto vasta eco nel mondo, suscitando sorpresa e interesse.
Come noto, lo scisma di Oriente che comportò la separazione della Chiesa di Costantinopoli (la seconda Roma) dalla Chiesa Romana, con reciproche scomuniche, è del 1054. Il Patriarcato di Mosca (la terza Roma) è stato eretto come Patriarcato indipendente da Costantinopoli nel 1589. Da allora mai un Patriarca di Mosca si era incontrato col Papa.
Ma perché proprio a Cuba?
Sembra uno scherzo della storia! Non tanto per la distanza dell'isola cubana da Mosca e da Roma, ma perché fino a non molti anni fa era impensabile che quella "frontiera" del comunismo ateo diventasse, nel 2016, la terra di un incontro fra due Capi religiosi, uniti da quella fede che l'ideologia atea combatteva.
Ho ancora inchiodato nella mente il ricordo di quanto Papa Giovanni Paolo II desiderasse l'incontro col Patriarca di Mosca e di tutta la Russia, che allora era Alessio II. Egli aveva già incontrato vari Patriarchi ortodossi (da quello di Costantinopoli a quello degli Ameni, dei Copti… ecc), ma anche se il Patriarca di Costantinopoli è storicamente il primo, il Patriarca che ha peso è quello di Mosca, che conta ben 150 milioni di fedeli ortodossi.
Nel 1997, il Patriarca Alessio II si manifestò aperto ad un incontro col Papa e per quanto riguarda il luogo, indicò subito la sua preferenza: non a Roma e non a Mosca, ma in un altro luogo scelto di comune accordo.
Siccome il Patriarca di Mosca aveva intenzione di andare in Austria per la riunione del Consiglio Ecumenico delle Chiese, programmata a Graz, si pensò, in un primo tempo, ad un incontro a Vienna nel Monastero dei Benedettini, appena fuori della città. Mentre si approfondiva questa ipotesi, nacque l'idea di pensare al grandioso Monastero Benedettino di Pannonhalma, in Ungheria, in occasione del millennio di fondazione di tale Abbazia. Il Patriarca Alessio II era d'accordo per un incontro in tale Monastero. Era stato studiato anche un programma di massima: colloquio personale, un momento di preghiera insieme nella chiesa dell'Abbazia e poi pranzo insieme. Il Patriarca però aveva bisogno del consenso del suo Sinodo, trattandosi di un evento di grande importanza. Purtroppo però nel Sinodo, che ebbe luogo qualche settimana dopo, la maggioranza dei partecipanti votò contro il progetto, a motivo delle tensioni che in Ucraina esistevano fra cattolici uniati ed ortodossi. Quel progettato incontro è stato felicemente realizzato ora, il 12 febbraio di quest’anno… a Cuba. Il Patriarca Kirill aveva in programma una visita ufficiale ai fedeli ortodossi residenti America Latina, incominciando da Cuba.
Papa Francesco aveva promesso di visitare il Messico. Si sono fatte coincidere le date, così che l'auspicato incontro ha avuto luogo in terra cubana, all'incrocio tra Nord e Sud, tra Est e Ovest, in un'isola simbolo delle speranze del "Nuovo Mondo" e degli eventi drammatici della storia del XX secolo.
Gli scherzi della storia, a volte, realizzano i piani della Provvidenza Divina, che tiene in mano le sorti del mondo. "Finalmente ci possiamo incontrare! Siamo Fratelli", sono state le prime parole di Papa Francesco nell'abbraccio. Il colloquio è durato quasi due ore e alla fine vi è stata la firma di una dichiarazione comune, preparata e concordata nei giorni precedenti.
Molti sono gli argomenti toccati in tale documento: dall'affermazione "non siamo concorrenti, ma fratelli", all'auspicio che l'Europa resti fedele alle sue radici cristiane; dalla difesa della famiglia, centro naturale della vita e della società, al matrimonio atto di amore tra uomo e donna; dalla preoccupazione per le tecniche dell'ingegneria genetica che manipolano la vita umana nascente, al rispetto della dignità umana secondo il disegno di Dio Creatore.
In particolare mi hanno colpito due urgenti impegni concreti. Il primo riguarda la difesa dei cristiani perseguitati in questo nostro tempo, nonostante le solenni dichiarazioni a favore della libertà religiosa. "In molti Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa — dice la Dichiarazione Comune - i nostri fratelli e sorelle in Cristo vengono sterminati per famiglie, villaggi e città intere. Le loro chiese sono devastate e saccheggiate barbaramente, i loro oggetti sacri profanati, i loro monumenti distrutti. In Siria, in Irak e in altri Paesi del Medio Oriente, constatiamo con dolore l'esodo massiccio dei cristiani dalla terra dalla quale cominciò a diffondersi la nostra fede e dove essi hanno vissuto fin dai tempi degli Apostoli" (n.8).
L'altro impegno riguarda la volontà di collaborazione fra cattolici ed ortodossi nel difendere e conservare i valori umani e cristiani della nostra civiltà, tanto calpestati ai nostri giorni.
L'appello firmato da Papa Francesco e dal Patriarca Kirill aiuti a una fruttuosa collaborazione tra cattolici ed ortodossi e dia forza alla comune testimonianza di sostegno ai pilastri spirituali dell'esistenza umana.
Card. Giovanni Battista Re
Cüntòmela PER RIFLETTERE
La Pasqua è una festa cosiddetta “mobile”, cioè la data della sua celebrazione varia di anno in anno e non è definita come per il Santo Natale. Tutti forse ci siamo domandati: “come mai?”.
Le prime testimonianze esplicite della celebrazione della Pasqua risalgono alla metà del II secolo e provengono dall'Asia Minore.
Queste Chiese celebravano la Pasqua il 14 di Nisan, nel giorno stesso in cui cade la Pasqua ebraica, in qualunque giorno della settimana cadesse. Questi cristiani vengono chiamati quartodecimani. Convinti che la morte di Cristo aveva sostituito il Pesah ebraico, celebravano la Pasqua digiunando il 14 di Nisan e terminavano il digiuno con la celebrazione eucaristica alla fine della veglia notturna tra il 14 e il 15 di Nisan. In questo modo si poneva l'accento sulla passione, come bene si intende leggendo l'omelia pasquale di Melitone di Sardi, scritta tra il 166 ed il 180. Nel capitolo 46 egli scrive: “Cos'è la Pasqua? Il nome è derivato dall'accaduto: celebrare la Pasqua viene infatti da patire”.
Le altre Chiese, guidate da Roma e Alessandria d'Egitto, celebravano invece la Pasqua la domenica successiva al 14 di Nisan. Questa tradizione si lega all'idea di Pasqua come passaggio dell'uomo, è una festa “antropologica”, in cui il protagonista è l'uomo, riprendendo in tal modo il concetto allegorico di Filone Alessandrino, secondo il quale Cristo, risorto di domenica, è "il nuovo Adamo" secondo Paolo (I Corinzi 15,45) ed è la sorgente di una nuova creazione escatologica, la "Nuova Gerusalemme" (Apocalisse, 21). Il giorno di Pasqua, perciò, comporta la possibilità per l'uomo di rinascere nella grazia, e diventa il momento privilegiato per impartire il battesimo, sacramento, appunto, con cui l'uomo muore al peccato e rinasce in Cristo. Il passaggio degli ebrei dalla schiavitù alla libertà prefigurava quello verificatosi realmente per merito di Cristo dalla schiavitù del peccato alla libertà dei figli di Dio.
Molti cristiani accusarono i quartodecimani di essere dei giudaizzanti, di non rispettare le prescrizioni del Nuovo Testamento, perché continuavano a celebrare la Pasqua con gli ebrei, mentre Gesù aveva abolito quella Pasqua, instaurando quella vera. Tutto questo portò ad una feroce controversia, che non consisteva nel dilemma se la Pasqua ricordi la morte o la risurrezione di Cristo, ma se debba essere celebrate nel giorno della morte o della risurrezione. La prima prospettiva sottolineava la continuità della Pasqua cristiana, la seconda la sua novità. La controversia raggiunse il suo culmine nell'anno 190, quando papa Vittore minacciò addirittura di scomunicare le comunità quartodecimane. Solo l'intervento pacificatore del vescovo Ireneo di Lione scongiurò il primo scisma della storia cristiana. Rimase però la decisione del papa di celebrare la Pasqua di domenica.
Un ultimo passo nella storia della data pasquale è il Concilio di Nicea (325), nel quale si definiscono i principi nel computo della Pasqua nelle diverse Chiese. Il Concilio innanzitutto stabilì il distacco dal computo ebraico, poi che questa festa non si celebrasse prima dell'equinozio di primavera e, infine, che si celebrasse in periodo di plenilunio. A partire da Nicea la Pasqua si celebra la prima domenica dopo il primo plenilunio di primavera.
Don Simone
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Un dialogo semplice e intimo di papa Francesco sul tema a lui più caro e fulcro del suo pontificato.
Il centinaio di pagine in cui si snoda la conversazione tra Tornielli – noto vaticanista e autore della prima biografia di papa Francesco – non si legge: si beve, letteralmente. E in questo senso, toglie la sete di pace dell’anima, di chi ha bisogno di sentire la mano “materna” di Dio.
Papa Francesco, vuole mostrare il volto di una Chiesa che non rinfaccia agli uomini le loro fragilità, ma le cura con la medicina della misericordia. Un messaggio di cui egli si è fatto portatore sin dall’inizio del suo pontificato e che va, fra le altre cose, a sgretolare due posizioni che caratterizzano oggi la nostra società: da una parte il fatto che ci stiamo abituando sempre meno a riconoscere le nostre responsabilità, per cui pare che a sbagliare siano sempre gli altri, che le colpe non siano mai nostre e, dall’altro, la presenza di un certo “clericalismo di ritorno” dove ciò che conta sono le regole, i prerequisiti, i divieti. Un atteggiamento, questo, occupato a giudicare, a condannare, a puntare il dito, ma non a guardare alle pene dell’uomo con sguardo compassionevole.
Con parole semplici, a volte anche ricordando episodi curiosi della sua vita, Francesco dà precisi segnali in tal senso. Per anticiparvi alcuni di questi temi, mi sono fatta aiutare dal titolo dei capitoli in cui è stato suddiviso il dialogo tra il giornalista e il papa, ma l’invito, ovviamente, è di leggere il libro, perché questo dialogo è tra il papa e ognuno di noi.
Tempo di misericordia Oggi è il tempo della misericordia, perché la nostra è un’umanità ferita: dalle diseguaglianze sociali, dalla superficialità, dal relativismo che ci ha portato a non avere più il “senso del peccato”. Ma anche, per contro, dal ritenere il nostro peccato così grande da pensare che non possa essere perdonato! Dice il papa: ”La fragilità dei tempi in cui viviamo è anche questa: credere che non esista possibilità di riscatto, una mano che ti rialza, un abbraccio che ti salva, ti perdona, ti risolleva, ti inonda di un amore infinito, paziente, indulgente; ti rimette in carreggiata. Abbiamo bisogno di misericordia.”
Il dono della confessione Alla domanda sul perché sia importante confessarsi, sul perché non è sufficiente pentirsi e chiedere perdono da soli, insomma, di vedersela “a tu per tu” con Dio, papa Francesco ricorda come lo abbia “sempre commosso il gesto della tradizione delle Chiese orientali, quando il confessore accoglie il penitente mettendogli la stola sulla testa e un braccio intorno alla spalla, come in un abbraccio. È una rappresentazione plastica dell’accoglienza e della misericordia. Ricordiamo che non siamo lì anzitutto per essere giudicati. […] È lo stare di fronte ad un altro che agisce in persona Christi per accoglierti e perdonarti. E’ l’incontro con la misericordia”.
Cercare ogni spiraglio Troppo spesso siamo convinti di essere così lontani da Dio, convinti che il nostro peccato sia così grande da ritenere impossibile colmare questa distanza, da ritenere impossibile godere della sua misericordia. E invece, dice il papa, basta poco, pochissimo! Basta provare vergogna, basta dispiacerci del nostro peccato, “la medicina c’è, se soltanto muoviamo un piccolo passo verso Dio, o abbiamo almeno il desiderio di muoverlo”. Che balsamo questa frase! E qui si vede chiaramente ciò che anima papa Francesco su questo tema. Dice: ”Lui non vuole che qualcuno si perda. […] Dio ci attende, aspetta che gli concediamo soltanto quel minimo spiraglio per poter agire su di noi, col suo perdono, con la sua grazia.”
Peccatore, come Simon Pietro Saper guardare con onestà e sincerità alle proprie azioni, non essere superbi, è il consiglio del papa al penitente per una buona confessione. Un peccato che noi non consideriamo tale, non cessa di essere un peccato! Dall’altra parte, al sacerdote che desidera essere un buon confessore, consiglia “di ascoltare con tenerezza, di non scagliare mai la prima pietra, di assomigliare a Dio nella sua misericordia.”
Troppa misericordia? Si sente a volte dire che la Chiesa non deve essere troppo indulgente, che deve condannare il peccato… Anche qui il papa consola, affermando che la Chiesa condanna il peccato perché deve dire la verità, ma come un padre premuroso e attento abbraccia il peccatore che si riconosce tale, lo accoglie, lo consola per promuovere l’incontro con l’amore viscerale che è, appunto, la misericordia di Dio. Da qui nasce il suo messaggio della Chiesa in uscita, della necessità “di uscire dalle chiese e dalle parrocchie e andare a cercare le persone là dove soffrono, dove vivono, dove sperano”. Tanti brani di questa conversazione meriterebbero di essere citati, ma questo è uno fra i tanti che mi è piaciuto particolarmente: ”L’ospedale da campo, l’immagine con la quale mi piace descrivere questa “Chiesa in uscita”, ha la caratteristica di sorgere là dove si combatte: non è la struttura solida, dotata di tutto, dove ci si va a curare per le piccole e grandi infermità. È una struttura mobile, di primo soccorso, per evitare che i combattenti muoiano. Vi si pratica la medicina d’urgenza, non si fanno check-up specialistici. Spero che il Giubileo straordinario faccia emergere sempre di più il volto di una Chiesa che riscopre le viscere materne della misericordia e che va incontro ai tanti “feriti” bisognosi di ascolto, comprensione, perdono e amore.”
Pastori, non dottori della legge Francesco parte dal brano evangelico della guarigione del lebbroso da parte di Gesù per analizzare queste due logiche di pensiero e di fede. Da una parte la paura di perdere i giusti, i salvati. Dall’altra, il desiderio di salvare i peccatori, chi si è perduto. La prima è la logica dei dottori della Legge, la seconda è la logica di Dio che accoglie, abbraccia, tramuta la condanna in salvezza. Ma quello che conta per Lui, sottolinea, è raggiungere i lontani e salvarli: “Allora, come oggi, questa logica può scandalizzare chi è abituato sempre e soltanto a far rientrare tutto nei propri schemi mentali e nella propria purità ritualistica, anziché lasciarsi sorprendere dalla realtà, da un amore e da una misura più grandi.”
Peccatori sì, corrotti no Ho trovato illuminante la definizione che Francesco dà della corruzione: “La corruzione è il peccato che invece di essere riconosciuto tale e di renderci umili, viene elevato a sistema, diventa un abito mentale, un modo di vivere.” Così non ci sente più bisognosi né del perdono né della misericordia, bastiamo a noi stessi e ci crogioliamo nei nostri comportamenti di comodo. Il peccatore pentito, che ricade ancora nell’errore, come spesso capita a motivo della sua debolezza, trova invece il perdono perché avverte il bisogno della misericordia.
Misericordia e compassione Potremmo dire misericordia divina, compassione umana. Francesco cita la resurrezione del figlio della vedova di Nain: Gesù si commuove davanti alle lacrime della madre per la perdita dell’unico figlio. “Il Dio fatto uomo si lascia commuovere dalla miseria umana, dalla nostra sofferenza.” Poi accoglie, cura le ferite e ci insegna che vivere la misericordia vuol dire vivere nella logica dell’amore e della gratuità.
Per vivere il Giubileo Il papa conclude il suo messaggio chiedendoci di ricordare sempre queste parole di san Giovanni della Croce: “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore”.
Leggiamo questo libro! Ancora di più se ci sentiamo lontani da Dio e dalla Chiesa! Troveremo pace, accoglienza e la carezza di un padre buono.
A cura di Emilia Pennacchio
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Il Triduo Pasquale è il tempo più importante di tutto l'Anno Liturgico. Sono tre giorni che ci conducono a vivere gli ultimi gesti e momenti di Gesù, fino alla sua morte e alla sua risurrezione.
Oggi ricordiamo l'ultima cena di Gesù con i suoi discepoli.
È un momento bello, di amicizia, di intimità con i suoi amici più cari. Ma è anche un momento molto triste e doloroso. Gesù sa che sta per arrivare il momento terribile della sua passione. Inoltre deve subire un grande dolore: uno dei suoi amici, con i quali ha condiviso tutto, che ha amato con tutto il suo cuore, lo tradisce. Anche i suoi amici, nel momento della prova, lo abbandoneranno lasciandolo solo. Gesù, però, non smetterà di amarli nemmeno per un attimo!
Durante questa cena Gesù compie un gesto inaspettato: lui che è il maestro, il più importante di tutti, lava i piedi ai suoi discepoli. Lo fa per insegnarci che se vogliamo essere veramente cristiani dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. Questo vuol dire che dobbiamo volerci bene, metterci gli uni al servizio degli altri.
Dopo averlo spiegato con la sua vita, Gesù ci dà il suo comandamento, quello più importante di tutti, che distingue i cristiani dagli altri uomini: «Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici». Gesù ci considera suoi amici e dà la sua vita per noi e per la nostra gioia.
Infine Gesù ci fa un dono grandissimo: l'eucaristia. Prende prima il pane e dice «Questo è il mio corpo», poi prende il vino e dice: «Questo è il mio sangue». Attraverso l'eucaristia Lui sarà sempre in mezzo a noi. Ogni domenica noi ricordiamo questo grande mistero, per questo ci riuniamo insieme, pieni di gioia: Gesù, il nostro Dio, è con noi e ci ricorda quanto ci vuole bene!
Oggi ricordiamo la morte di Gesù sulla croce.
Le parole dette nell'ultima cena ai suoi discepoli sono diventate oggi una realtà per Gesù: «Nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici». Gesù ci considera suoi amici, e ha voluto dare la vita per noi.
È stato pronto a soffrire, nel corpo e nell'anima, pur di dimostrarci quanto ci vuole bene, quanto ci ha a cuore, quanto siamo preziosi per lui. A un amore così grande si può forse dire di no? Non viene voglia anche a noi di corrispondere, di dire con la nostra vita a Gesù che anche noi gli vogliamo bene, che anche noi vogliamo dare la nostra vita per lui?
Oggi è il giorno del silenzio e dell'attesa. Ricordiamo la morte di Gesù e la sua riposizione nel sepolcro. Gli amici di Gesù hanno avuto compassione del suo corpo. Lo hanno lavato, profumato, avvolto in un lenzuolo e riposto in un sepolcro scavato nella pietra.
Attorno alla tomba di Gesù si crea un silenzio profondissimo. Nell'aria si sente qualche cosa di nuovo. Ma intanto tutto tace. Viviamo questa giornata in silenzio e in attesa.
È il giorno della gioia e della festa, perché Gesù esce dal sepolcro e torna alla vita.
I vangeli ci raccontano che il mattino di Pasqua alcune donne, che avevano seguito Gesù nel suo ministero ed erano state vicino a lui sotto la croce, vanno al sepolcro per ultimare i riti tradizionali della sepoltura. Sono tutte preoccupate perché non sanno come togliere la pesante pietra dal sepolcro. Ma una volta arrivate al luogo della sepoltura di Gesù, rimangono a bocca aperta: la pietra è stata rotolata via dal sepolcro, il corpo di Gesù non c'è più e due angeli annunciano loro che è risorto.
A cura di Don Simone
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Dalla Lettera del vescovo Luciano alle comunità cristiane in occasione del Giubileo della Misericordia
In occasione del Giubileo della Misericordia il nostro vescovo Luciano ha scritto per tutte le comunità cristiane e le Unità Pastorali una bella Lettera Pastorale, tutta incentrata sul tema della Misericordia: Ricchi di Misericordia.
La prima parte di questa lettera riflette in maniera abbondante e profonda sull'Eucaristia, cuore della comunità. Il nostro vescovo mette in luce gli aspetti più importanti e significativi del mistero eucaristico celebrato, fonte di perdono, di ascolto e di grazia.
La prima parte di questo capitolo richiama l'importanza della Messa domenicale per una comunità. Tuttavia, constata il vescovo, tale importanza non sembra essere considerata dai più, visto lo scarso afflusso di fedeli all'Eucaristia nel Giorno del Signore: “Uno dei motivi più forti di preoccupazione (e di sofferenza), oggi, è vedere che i bambini e i ragazzi fanno fatica a partecipare all'Eucaristia e che le famiglie, anche quelle cristiane, sembrano poco determinate; un week end fuori città, un viaggio, un interesse diverso sono sufficienti a tralasciare la Messa senza grosse inquietudini di coscienza”.
A questo punto, due domande fondamentali muovono la riflessione: “Ma perché è così importante l'Eucaristia? E perché nella celebrazione dobbiamo esserci tutti?”.
Il vescovo risponde ricordandoci che la Messa non è semplicemente una bella forma di preghiera, ma azione del Signore risorto che ci costituisce come suo corpo, come comunità, come famiglia. E la partecipazione alla Messa non dipende dalla nostra disponibilità o voglia, ma perché il Signore ci chiama ad essere suoi discepoli. Ecco perché è importante sottolineare e riscoprire la dimensione ecclesiale della Messa: “Supponiamo il caso ideale: la domenica mattina tutti i cristiani di una comunità si recano in Chiesa e partecipano attivamente, come autentici attori, alla celebrazione dell'Euca- ristia. Che cosa succede? […] persone e famiglie disperse sul territorio [...] in questo giorno si trovano insieme, nella medesima casa. Che cosa li ha raccolti insieme? […] Nella Messa ciò che ci mette insieme è l'amore di Gesù per noi e la nostra fede in Lui”. Se allora siamo in Chiesa perchè è il Signore che ci chiama, non sta in piedi il ragionamento di tanti secondo cui “vado in Chiesa quando ne ho voglia, quando me la sento”.
L'insistenza del vescovo sulla dimensione ecclesiale dell'Eucaristia domenicale lo conduce nella terza parte del capito a riflettere sulla modalità della celebrazione delle Messe nelle nostre comunità.
“Non è importante il numero delle Messe che si celebrano in parrocchia, ma il modo in cui sono celebrate, moltiplicare le Messe significa articolare la presenza della comunità in più assemblee e quindi fare vedere meno bene il segno dell'unità che la messa vuole essere”.
Una comunità, cristiana, ci ricorda il vescovo, costruisce la sua unità a partire dall'Eucaristia, segno visibile e concreto della comunione.
Moltiplicare le Messe implica sfilacciare questa comunione, oltre a ridurre la celebrazione eucaristica ad un fatto quasi privato e personale: “Se vogliamo ottenere che tutti abbiano la Messa all'orario per loro più comodo, dovremo inevitabilmente moltiplicare le Messe e celebrarne quante più possibile, a ritmo continuo. Ma cosa otterremo in questo modo? Forse, che più gente vada a Messa. Otteniamo anche che diventi parte della comunità in modo più consapevole e profondo? […] Temo di no: la moltiplicazione delle Messe vuole rispondere a un desiderio (bisogno) individuale delle persone, mentre dovrebbe essere l'obbedienza delle persone a rispondere all'azione di grazie comunitarie della Messa”.
Certamente la diminuzione dei sacerdoti porterà ad una diminuzione, anche drastica, della celebrazione delle Messe. Però alla luce di quanto ci ha ricordato in maniera chiara e profonda il nostro vescovo, mi chiedo se per raggiungere gli alti e doverosi obiettivi che ci sono stati indicati, dobbiamo semplicemente attendere che il numero dei preti venga meno o raggiungerli perché ne siamo consapevoli che deve essere così e perché ci crediamo. Temo che l'attendere il calo inesorabile dei preti ci porti solo a questo scenario: meno Messe, meno Messa.
Don Simone
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Un parabola molto nota, quella del figliol prodigo, che in questo anno del Giubileo della Misericordia, ne diventa in qualche modo il “baluardo”. Vorrei perciò proporre questa breve meditazione, soffermandomi in particolare sulla magnanimità del Padre poiché è proprio questo l’atteggiamento che Egli riserva ad ognuno di noi quando “rientriamo in noi stessi” dopo esserci allontanati da Lui.
Il vangelo di Luca narra la vicenda di una famiglia nella quale il figlio più giovane dopo aver chiesto e ricevuto la sua parte di eredità, lascia la casa paterna e se ne va «per un paese lontano». Questi, dopo aver esaurito irragionevolmente tutte le sue sostanze, diventa come un barbone, un guardiano dei porci che ben contento di mangiare perfino il mangime dei porci, se gliene avessero dato! Arrivato all'insopportabile, questi si ricorda della casa di suo Padre dove i servi erano ben trattati. A questo punto, egli decide di tornare a Casa non più come figlio ma come servo. Ecco l'inizio del cammino di ritorno, di «conversione», di «metanoia» di questo figlio.
Da lontano, dice il Vangelo, il padre riconosce suo figlio e va gli incontro, colmandolo di abbracci e di baci, e organizza una festa per suo figlio che «era morto ma ora è tornato alla vita». Ora vorrei mettere in risalto gli atteggiamenti del padre. Il primo riguarda la sua capacità di comprendere i suoi figli. Particolarmente verso il figlio più giovane, quando questi gli chiede la sua parte di eredità. Il Padre non dice nulla. Il padre accetta la richiesta del figlio. Egli dà al figlio più giovane la sua parte di eredità e lo lascia andare. Qui emerge il rispetto del padre per la libertà del figlio.
Il secondo atteggiamento del padre riguarda il pensiero per il figlio che se n'è andato. Il padre non ha mai smesso di pensarlo, di pregare per lui. Il padre pensa spesso al suo ritorno, e di poterlo rivedere un giorno. Qui emerge la speranza del Padre di poter riaccogliere suo figlio anche quando sembra se ne sia andato per sempre.
Il terzo atteggiamento del padre riguarda l’attesa del ritorno del figlio. Per lui non è importante come sarebbe ritornato, in quale condizioni, se sposato oppure no, rivederlo con i nipoti, felice, oppure povero, ammalato, affamato, sporco. Al padre non importa questo: l'essenziale è il ritorno «in vita del suo figlio». Il figlio torna come un barbone, triste, tutto sporco, con i vestiti stracciati, ma “questo è mio figlio, questo è stato il mio figlio e questo sarà sempre il mio figlio” pensa il padre, non fa nessuna domanda. Il discorso che il figlio aveva preparato non è più necessario. Ciò che vale è il suo ritorno.
Il quarto atteggiamento del padre riguarda l'accoglienza. Il padre accoglie suo figlio con abbracci e baci. Questo padre abbraccia suo figlio incurante della sporcizia e della puzza. Prima lo abbraccia e poi lo fa lavare e vestire. Il padre glorifica così suo figlio, gli ridona la vita. Che padre! Quale bontà! Quale tenerezza! Quanto affetto!
Infine questo padre organizza una festa per il ritorno del figlio. Tutto si conclude con una festa. Ecco cosa vuol dire la Misericordia di Dio! Questo è l'atteggiamento di Dio verso ciascuno di noi: Egli si rallegra, fa festa quando torniamo a lui.
Don Ilario
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Nel mese di febbraio sono stato a Roma per l’udienza di Papa Francesco concessa ai gruppi di Padre Pio e là abbiamo potuto anche varcare la porta santa di San Pietro e ricevere i benefici dell’indulgenza annessi alle celebrazioni dell’Anno Santo della Misericordia. È questa l’occasione per spiegare un po’ meglio cosa significa e come si applica l’indulgenza della chiesa.
Anzitutto bisogna dire che l’indulgenza ha un senso soltanto se rientra nella grande realtà del peccato dell’uomo. Il peccato ha due conseguenze.
La prima conseguenza è il distacco da Dio, che è la pena eterna, cioè l'inferno. E questa viene cancellata ogniqualvolta ci confessiamo e veniamo riammessi allo stato di grazia e alla comunione con Dio.
La seconda conseguenza è che ogni peccato, anche quello veniale, provoca ciò che il Catechismo della Chiesa cattolica definisce "un attaccamento malsano alle creature" che ha bisogno di purificazione e merita una pena temporale, a cui "si può" essere ancora obbligati nonostante il perdono delle colpe ottenuto nella confessione.
Questa seconda conseguenza del peccato, cioè la pena temporale, può essere scontata quaggiù, sulla terra, con volontarie preghiere e penitenze, con opere di bene e con l'accettazione delle sofferenze e delle prove della vita, oppure può essere scontata nell'aldilà, nel Purgatorio. La pena temporale non è una vendetta inflittaci da Dio ma deriva dalla natura stessa del peccato commesso.
Dentro questa realtà del peccato la chiesa dà ai suoi fedeli la possibilità di attingere all’indulgenza. Lo fa perché possiede un grande tesoro, cioè i meriti di Gesù Cristo, della Madonna e dei santi. Nella comunione dei santi, "tra i fedeli che già hanno raggiunto la patria celeste o che stanno espiando le loro colpe in Purgatorio, o che ancora sono pellegrini sulla terra, esiste certamente un vincolo perenne di carità e un abbondante scambio di tutti i beni". In questo scambio di beni, la santità di uno aiuta gli altri.
Il ricorso alla comunione dei santi permette al peccatore di essere purificato più in fretta e più efficacemente dalle pene del peccato. Chi ha meno viene aiutato da chi ha di più.
La Chiesa però non dispensa le indulgenze in virtù di un potere che si è data da sé, ma del potere di legare e sciogliere affidato da Gesù a Pietro: "Ti darò le chiavi del Regno dei cieli; tutto ciò che avrai legato sulla terra resterà legato nei cieli e tutto ciò che avrai sciolto sulla terra resterà sciolto nei cieli".
Il potere che la Chiesa ha di concedere indulgenze è stato sancito dal Concilio di Trento. "La Chiesa, avendo ricevuto da Cristo il potere di perdonare in suo nome, è nel mondo la presenza viva dell'amore di Dio che si china su ogni umana debolezza per accoglierla nell'abbraccio della sua misericordia. È precisamente attraverso il ministero della sua Chiesa che Dio espande nel mondo la sua misericordia mediante quel prezioso dono che, con nome antichissimo, è chiamato indulgenza"'.
Tradizionalmente nella chiesa le indulgenze possono definirsi plenarie oppure parziali. Con l'indulgenza plenaria si ottiene la remissione di tutta la pena temporale dei peccati già perdonati in confessione. Con l'indulgenza parziale si ottiene la remissione di una parte della pena temporale. Un tempo l'indulgenza parziale veniva quantificata e allora c'erano indulgenze di cento, trecento giorni, uno o più anni. Siccome molti fedeli credevano erroneamente che si trattasse di giorni o anni di Purgatorio in meno da scontare, papa Paolo VI ha deciso di non indicare più la determinazione del periodo dell'indulgenza parziale.
Il metro usato per misurare l'indulgenza parziale non sono dunque più mesi o anni, ma è l'azione stessa del fedele: un'azione buona tanto più vale quanto più costa sacrificio e quanto più è fervida di amore verso Dio.
Il motivo dell’esistenza delle indulgenze sta nelle grandi verità della fede cristiana e cioè che il destino dell'uomo è la vita eterna acquistata per i meriti di Cristo e la vita eterna si raggiunge attraverso l'appartenenza alla Chiesa, nella quale l’uomo riceve la salvezza, alla quale si accede per l'azione purificatrice e santificatrice di Dio. Preghiere ed opere buone dispongono la persona a ricevere l’azione santificatrice di Dio, senza la quale non c’è salvezza. Naturalmente Dio non obbliga nessuno a salvarsi e perciò anche "l'indulgenza non è imposta a nessuno e di per sé non è necessaria ad alcuno."
L’indulgenza dunque esige un cammino, un movimento verso Dio, una richiesta fatta di preghiera, di atti concreti e condizioni previe tali che il fedele sia capace di ottenerla.
Condizioni per l'indulgenza
- Che il fedele sia battezzato, perché la concessione dell'indulgenza è un atto di giurisdizione che può essere esercitato solo su chi appartiene al Corpo mistico di Cristo, che è la Chiesa. E non si appartiene alla Chiesa se non per mezzo del battesimo.
- Che il fedele non sia scomunicato, che significa “si sia messo fuori della comunione della chiesa con i suoi atti o le sue credenze, perché se lo fosse non potrebbe partecipare alle indulgenze e alle pubbliche preghiere della Chiesa stessa.
- Che il fedele sia in stato di grazia, perché il debito della pena temporale non può essere cancellato se non dopo la cancellazione della colpa e della pena eterna mediante la confessione sacramentale, segno della volontà di distacco dal peccato e del pentimento. Non è il compiere pratiche meccaniche che fanno ricevere i benefici dell’indulgenza.
- Che il fedele abbia l'intenzione di ottenere l'indulgenza, perché il beneficio non viene concesso a chi non lo vuole. Alla Chiesa basta soltanto "l'intenzione abituale implicita" perciò si possono ottenere tutte le indulgenze di cui non si è a conoscenza purché si abbia l'intenzione di ottenere tutte le indulgenze ottenibili.
Durante l’Anno Santo il dono dell'indulgenza può essere ricevuto quotidianamente, ma non più volte al giorno, compiendo gli atti richiesti purché permanga lo stato di grazia. "Conviene tuttavia che i fedeli ricevano spesso la grazia del sacramento della penitenza, per crescere nella conversione e nella purezza del cuore". Un indulgenza parziale invece può essere ottenuta anche ripetutamente nel corso di una stessa giornata.
Un' indulgenza giubilare può essere applicata anche a benefico delle anime dei defunti: con questa offerta si compie un grande esercizio di carità soprannaturale, in virtù del vincolo attraverso il quale nel Corpo mistico di Cristo i fedeli pellegrini sulla terra sono uniti a quelli che hanno già concluso il loro cammino terreno.
Nel linguaggio della Chiesa riguardo all’indulgenza si usava il termine “lucrare l’indulgenza”. Questo termine sembra caduto in disuso ed oggi si preferisce sostituirlo con il verbo "ottenere", per non evocare in alcun modo l'idea di lucro o guadagno legata a beni temporali e a taluni abusi che si sono verificati in passato nella storia della Chiesa. Va però aggiunto che il termine "lucro" definisce perfettamente l'azione di ottenere l'indulgenza, che è un vero guadagno per l'anima, la quale può attingere al tesoro della Chiesa, cioè ai meriti di Cristo, di Maria e dei santi, ed essere aiutata ad espiare più velocemente la pena.
Don Francesco
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Abbiamo pensato di chiedere ad uno dei partecipanti al Pellegrinaggio a Roma in occasione della traslazione temporanea delle spoglie dei Santi Pio e Leopoldo, di scrivere le emozioni, le sensazioni di una esperienza così particolare. Ne è venuto fuori un collage, perché altri partecipanti, saputo della cosa, hanno chiesto di poter anche loro condividere con i lettori di Cüntòmela la loro esperienza.
Il pellegrinaggio è una tappa fondamentale in questo Anno Giubilare della misericordia. E noi, pellegrini dell’Altopiano del sole, siamo partiti per Roma in occasione dell’udienza di papa Francesco con i gruppi di preghiera di Padre Pio. Abbiamo accolto volentieri l’invito di Cüntòmela per condividere le emozioni vissute in quei due giorni di preghiera.
Innanzitutto l’incontro con papa Francesco: è stata un’emozione fortissima! Le sue parole arrivano dritte al cuore, con la loro semplicità! “Siete – ha detto il papa – delle centrali di misericordia […] centrali che portano l’energia nella Chiesa e tra i fratelli.” E poi ancora ci ha esortati nella preghiera, ad affidare al Padre Celeste la Chiesa, l’umanità intera, le nostre tribolazioni e sofferenze ma anche le nostre gioie, così che Lui si prenda cura di tutto!
Con questa consapevolezza abbiamo attraversato la Porta Sanata, affidando al Padre tutto ciò che ci allontana o ci ha allontanato da lui: siamo passati lasciando fuori il nostro peccato. Nel varcare la Porta abbiamo sperimentato l’abbraccio di Dio, abbiamo sentito la certezza del suo perdono, perché solo lui guarisce e consola. Abbiamo sperimentato la Sua misericordia!
Siamo tornati a casa con la speranza di riuscire ad essere testimoni migliori della fede, di questo dono straordinario che è la misericordia di Dio, perché anche chi non ha ancora avuto l’occasione come noi di fare questa straordinaria esperienza, ne possa godere.
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Avere il papa a pochi metri è stata una forte emozione. Un frase in particolare mi è resta impressa: “La preghiera è la chiave che apri il cuore di Dio”. Ho pensato quanto ciò sia consolante e aperto a tutti.
Al termine una coda interminabile, ho varcato la Porta Santa: ho provato una grande gioia, sentendomi davvero abbracciata dalla misericordia di Dio che è tutto amore.
Devo dire che questo pellegrinaggio è stato accompagnato amorevolmente dal cielo. In effetti, davanti ad alcune situazioni che sembravano difficili da sbrogliare, le abbiamo viste risolversi in men che non si dica!
Un pellegrinaggio breve, ma molto intenso e costruttivo, organizzato dal nostro don Francesco con maestria: grazie di cuore!
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Come descrivere la gioia nel vedere ottantamila persone raccolte in preghiera? Una grande testimonianza, di una Chiesa forte, che cresce, non fa rumore – come lo fanno le brutte notizie – che mostra una fede autentica. Un cammino di conversione e la certezza che la vera felicità la trovi solo quando incontri Gesù.
Padre Pio è stato scelto dal Santo Padre come “icona della misericordia”: la sua vita, i suoi scritti, sono perle preziose che ci aiutano nel cammino di fede.
- Ho visto tante città, ma Roma mi mancava. Arrivata in Piazza san Pietro, mi sono sentita come una formichina in mezzo al cuore della Chiesa, al centro del mondo cristiano: ero al settimo cielo! Così vicino al nostro papa Francesco!
L’abbiamo visto molto bene ed è stata un’emozione forte. Ancora più forte è stata quella provata varcando la Porta Santa. Nell’attraversala ho pensato “sono arrivata”! Nel mio cammino personale di Fede c’è stata tanta Grazia, ho sperimentato la misericordia di Gesù, la gioia e la pace sono nel mio cuore. Così, mentre oltrepassavo la Porta Santa, ho avuto la netta sensazione di lasciare tutto ciò che è stato fino a quel momento, sentendo che stavo varcando la soglia della mia nuova vita spirituale, quella che Gesù ha preparato per me!
Altra forte emozione è stato recitare il Rosario dentro le mura di San Pietro, vicino alle spoglie di San Pio e San Leopoldo che sempre mi confortano.
Quante grazie! Quante emozioni! Ne ho assaporato la gioia per una settimana, ma sono certa che la forza nuova che ho portato con me, non mi lascerà mai!
Tutti hanno potuto vedere la gioia e la fede di tante persone per l’arrivo a Roma delle spoglie di Padre Pio e Padre Leopoldo (come anche i nostri hanno scritto). Ma qualche giornale ha titolato: “È tornato il Medioevo”… Con buona pace della solita demagogia spiccia, abbiamo pensato di pubblicare il pensiero di Padre Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia e Cappuccino, sollecitato sul tema dal giornalista Sergio Centofanti.
“E’ tornato il Medioevo” potrebbe anche significare è tornato San Francesco! Pure il grande San Francesco era del Medioevo. Non penso che qualcuno avrebbe qualcosa in contrario se avessimo un altro San Francesco oggi. Dire il Medioevo, quindi, è una cosa molto ambigua, perché il Medioevo può essere anche una cosa positiva, bellissima. Cosa dire di questo? Certamente la pietà popolare ha dei caratteri che non sono fatti per soddisfare i palati sopraffini, colti, qualche volta secolarizzati del nostro mondo. Disprezzare, però, quello che il popolo ama è, secondo me, un insulto al popolo. Non possiamo appellarci al popolo ogni volta che si discute su qualcosa, come fanno i partiti che si riferiscono sempre al popolo - tutto è popolare, i partiti popolari, la voce del popolo, voce di Dio… - e poi quando il popolo si muove, come in questi casi, diventa “pecorone”, da Medioevo. Credo che ci sia un po’ di presunzione in tutto questo, un mettersi al di sopra di tutto. Certo bisogna educare la pietà popolare, però vorrei essere abbastanza semplice per poter imitare quella gente che ha quella fiducia in Dio, anche nell’intercessione dei Santi.
Cüntòmela a BORNO
Domenica 14 febbraio, le parrocchie della nostra Unità Pastorale hanno celebrato il Giubileo degli anziani e degli ammalati. Si è voluto coinvolgere tutte le comunità in un'unica celebrazione di festa e di fede nella chiesa parrocchiale di Borno, dove al centro ci fossero tutti gli ammalati e gli anziani delle nostre parrocchie. Ecco perché ci si è dati da fare per raggiungere tutte le persone interessate, invitandole personalmente nelle loro case e mettendo a disposizione anche il trasporto per quelle più in difficoltà nei movimenti.
Nonostante il tempo inclemente, freddo e uggioso, la partecipazione è stata notevole (più di 250 presenti) e tutte le parrocchie erano ampiamente rappresentate alla solenne celebrazione eucaristica, nel corso della quale è stato amministrato anche il sacramento dell'Unzione degli Infermi, per quanti lo desideravano. La celebrazione poi si è conclusa con la Benedizione Eucaristica e l'accensione della “macchina del Triduo” che per l'occasione è rimasta allestita. Non poteva poi mancare un momento di festa e di convivialità in oratorio.
Un grazie di cuore a quanti hanno reso possibile questo bel momento di comunione: alle volontarie della Caritas, al gruppo “Progetto Cicogna”, al Gruppo Missionario che hanno portato l'invito di casa in casa; agli Alpini e alla Protezione Civile di Borno, Ossimo Inferiore e Superiore per la disponibilità nel trasporto. E un grazie ancora più grande a tutti gli anziani e ammalati che con la loro presenza hanno reso davvero giubilare questo momento di comunità.
Nello scorso novembre prima don Roberto Domenighini, direttore dell'Eremo di Bienno, e poi don Simone ci hanno proposto due incontri, molto interessanti e curiosi, su “Storia, teologia e spiritualità dei Giubilei” nei quali è stato affrontato anche il tema delle indulgenze, da sempre legate ai Giubilei stessi.
Più o meno è stato ricordato quanto possiamo leggere nell'attuale Catechismo della Chiesa Cattolica (nn. 1471-1479). Quando ci confessiamo riceviamo il perdono del peccato, la restaurazione della comunione con Dio e la remissione delle pene eterne che ci condannerebbero all'inferno. «… Rimangono, tuttavia, le pene temporali del peccato. Il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serenamente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del peccato; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completamente dell' “uomo vecchio” e a rivestire “l'uomo nuovo”» (ccc n. 1473).
Dato che i giubilei dell'Antico Testamento prevedevano la remissione dei debiti, la Chiesa Cattolica ad un certo punto ha pensato bene di applicare il concetto di remissione alle pene temporali che potevano essere scontate, oltre che nel purgatorio, mediante appunto la pratica delle indulgenze.
Sarò poco “cattolico” ma a me questa faccenda delle pene temporali da scontare in purgatorio e/o mediante le sofferenze mie e dei fratelli, pur avendo una sua logica, non mi è mai andata completamente giù. Sarò grossolano, ma faccio molta fatica ad immaginare quel Padre della parabola, definito misericordioso, che prima fa festa per il figlio disgraziato tornato a casa e poi, il giorno seguente, lo richiama dicendogli: “Guarda che ieri scherzavo. Se vuoi continuare a stare qui con me, in qualche modo devi meritartelo, devi “soddisfarmi” pagando per tutto quello che hai combinato!”.
Leggendo su Rocca – una rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi – un paio di articoli del teologo Carlo Molari dedicati all'argomento, ho potuto intuire che forse non sono del tutto eretico. Fra altre cose nell'articolo “Peccato, perdono, indulgenze” (Rocca n. 23 dicembre 2015) viene accennato come storicamente è nata l'idea delle indulgenze: «La pratica delle indulgenze è sorta nel contesto della disciplina penitenziale medioevale per la quale i Vescovi prima di ammettere i peccatori pubblici alla Eucaristia e alla piena comunione ecclesiale esigevano un periodo di pratiche per «riparare il peccato» e per “estinguere il debito della pena”. A volte però, in casi particolari, i Vescovi anticipavano l'ammissione alla Comunione ecclesiale, liberando il peccatore dalle pene comminate. Tale anticipazione, chiamata 'indulgenza', era condizionata a impegni spesso onerosi. Dal secolo X in avanti, ad esempio, l'indulgenza venne concessa anche a coloro che offrivano contributi per la costruzione di opere pubbliche, come ospedali, ospizi o santuari, o a coloro che partecipavano ad eventi impegnativi come le crociate».
Illustrato poi la dottrina tradizionale delle indulgenze con gli stessi spunti ricordati da don Simone, don Carlo Molari ha esposto ciò che, secondo me, può essere il nocciolo della questione. «Mentre nei secoli scorsi – scrive il teologo – la redenzione realizzata da Gesù veniva pensata come l'offerta fatta a Dio in riparazione o soddisfazione dei peccati umani, oggi essa è compresa come il dono di vita rinnovato da Dio all'uomo peccatore attraverso la missione di Gesù che in tutta la sua esistenza ha rivelato la misericordia del Padre, ha reso efficace la sua Parola di salvezza e ha profuso il dono del suo Spirito. Era questa la "forza" operata da Dio (Lc 5,17) e trasmessa da Gesù quando perdonava i peccatori o guariva gli ammalati (cfr. Lc. 6,19; 8,46)».
Capirò poco di queste cose, ma l'idea di Gesù che soffra e muoia solo per pagare il riscatto per i nostri peccati, mi sembra troppo meccanica, mi suona tanto da partita doppia, da scambio commerciale: con il nostro peccato sottraiamo qualcosa a Dio e Lui, ligio ragioniere, pretende di essere rimborsato anche a costo della vita di Suo Figlio e delle nostre sofferenze. Ho sempre detestato la stessa espressione di “lucrare” le indulgenze che poteva indurre a pensare al regno di Dio come ad una grande S.p.A., un'impresa appunto a scopo di lucro.
Preferisco ancora una volta il linguaggio dell' “amò i suoi fino alla fine” con cui il Vangelo di Giovanni esprime il dono totale e gratuito di Gesù Cristo. In questa prospettiva, allora, le opere di misericordia, a cui tutti siamo chiamati e non solo in questo anno giubilare, non saranno più viste solo come azioni per “meritarsi” il paradiso, bensì una via per uscire dall'egoismo donandoci agli altri (che può essere già un inizio di paradiso). Cercare in qualche modo di rimediare ai guai che causiamo con il nostro peccato, sarà l'ennesima occasione che Dio ci offre, non per essere “ripagato” riportando in equilibrio un'immagine di giustizia troppo ferma alla bilancia, bensì per aiutarci ad entrare nella sua logica di amore gratuito, per farci sperimentare davvero la gioia di essere suoi collaboratori, nonostante le nostre povertà e le sofferenze che, se non vanno viste come un prezzo da pagare, rimangono comunque una grande prova, un mistero della vita.
Ma se tutta la faccenda può essere vista in questo modo che fine fanno il purgatorio e le relative indulgenze?
Isaia ci ricorda che i nostri pensieri, moderni o antichi, non coincideranno e non esprimeranno mai compiutamente i pensieri e le grandi realtà di Dio. Tra le preoccupazioni di certi siti cattolici per il venir meno di filosofie e tradizioni (a cui sembra siano più devoti che allo stesso Vangelo di nostro Signore Gesù Cristo), e la sbrigativa liquidazione del purgatorio come invenzione medioevale priva, almeno letteralmente, di riferimenti biblici, io per il momento rimarrei a ciò che viviamo ogni giorno.
Per quanto mi sforzi di fare il bravo, come ci raccomandavano sempre le nostre nonne, io mi ritrovo spesso impegolato nelle mie piccole o grandi cattiverie, nell'egoismo che spinge a vedere l'altro più come un avversario da sfidare che un fratello da amare.
Ecco allora che le indulgenze possono rammentarci l'infinita pazienza e misericordia di Dio, sempre pronto a perdonarci, purché non lo rinneghiamo. Il purgatorio può essere ancora visto come l'estremo attimo in cui sempre la grazia di Dio – magari attraverso qualche scottatina come ricordava don Roberto – ci libera definitivamente da tutto ciò che ci impedisce di raggiungere quella pienezza d'amore che il Signore desidera per ogni uomo.
Sul tema delle indulgenze comunque leggete l'articolo di don Francesco.
Franco
Cüntòmela a BORNO