Estate 2017
Cüntòmela PER RIFLETTERE
60 anni dal 1957
50 anni dal 1967
25 anni dal 1992
Non stiamo dando i numeri, o almeno non del tutto, né vogliamo fare sfoggio dell’abilità di eseguire sottrazioni. Queste date segnano la vita di tre persone care alle nostre comunità: il 3 marzo 1957 è stato ordinato sacerdote don Giovanni Battista Re (ora cardinale), il 17 giugno 1967 don Giuseppe Maffi (per chi non lo sapesse parroco di Borno per 19 anni) e il 13 giugno del 1992 don Francesco Rezzola attuale parroco non solo di Borno, ma anche delle parrocchie di Ossimo e Lozio in attesa dell’istituzione ufficiale dell’Unità Pastorale del nostro altopiano.
Una congiuntura di anniversari che non poteva certo passare inosservata! E che non poteva trovare una collocazione più adatta del 24 giugno, festa del nostro patrono San Giovanni Battista, alla quale sono stati invitati anche gli amici di Ossimo e Lozio, visto che dovremo sempre più imparare a camminare insieme. Grazie all’intraprendenza di don Simone e di un gruppo di amici che hanno pensato e organizzato il tutto, abbiamo vissuto una celebrazione partecipata, ben preparata, solennizzata dai canti del coro parrocchiale e dalle trombe di due amici della vicina val di Scalve. È seguito poi un sontuoso buffet servito sotto i portici del nostro oratorio.
Come in ogni buona famiglia, non potevano mancare i doni per i festeggiati che, graficamente, hanno suggellato il loro forte legame con Borno e i bornesi. A ciascuno è stato offerto un quadro con uno scorcio del nostro paese dipinto da Giuseppe Rivadossi, e per tutti e tre un video con la raccolta di alcune fotografie dei momenti significativi della loro vita sacerdotale, recuperate con la collaborazione omertosa di famigliari e amici.
L’eco di questo evento si potrà avvertire ancora, grazie alla disponibilità del coro “Borno d'incanto”. Sabato 5 agosto, infatti, in occasione del loro concerto che si terrà presso la chiesa parrocchiale alle ore 21,00, il video verrà proiettato dando modo a tutti di vedere questa breve ma curiosa e intensa raccolta che i festeggiati pare abbiano gradito e che volentieri condividono. (la redazione)
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Padre Anselm Grun è un benedettino cattolico tedesco che scrive libretti di spiritualità “alla moda di oggi” e che nelle sue celebrazioni invita esplicitamente i protestanti evangelici, anche al di là del loro desiderio, a fare la comunione nella Messa dei cattolici perché – dice – “ciò che è importante non è quanto condividiamo, ma la fede nel fatto che Gesù è presente nell’ostia”. Come è questa presenza, che significato ha questa presenza non conta nulla: basta fare insieme la comunione anche se non c’è in realtà comunione tra cattolici e protestanti.
Questo padre Grun ha detto anche qualcosa riguardo alla Vergine Maria, sempre in chiave di apertura al mondo protestante, affermando che: “Tutti siamo stati scelti in Cristo prima della creazione del mondo, per essere santi ed immacolati.
Ciò non significa che Maria è un essere speciale e noi solo poveri peccatori. Purtroppo è un’interpretazione frequente, ma questa non è la dogmatica cattolica”. Questo dice Anselm Grun. Ora, che la Madonna sia il prototipo dell’uomo redento, cioè la prima dei redenti, certamente è vero. Che invece non ci sia differenza tra l’uomo peccatore e la Vergine preservata dal peccato originale, Madre del Figlio di Dio, cooperatrice nell’opera della redenzione, prima discepola del Figlio, Assunta in cielo, capace di potente intercessione materna, cose che noi cattolici crediamo, certo risulta quasi una bestemmia. La svendita del patrimonio di fede cattolica in funzione ecumenica protestante sembra ormai pane quotidiano, che scandalizza i semplici e che incrina le convinzioni di fede di tante anime che venerano la Vergine Maria.
Qui io voglio ribadire che quanto insegnatoci dai nostri genitori, dal Catechismo della Chiesa Cattolica, dai nostri sacerdoti è ancora valido, anche a costo di apparire, a chi rincorre la modernità nella fede, dei poveri mentecatti, attaccati alla tradizione della Chiesa, non al passo con i tempi moderni, non aperti a costruire ponti con tutti, come vorrebbe Papa Francesco, dimenticando che per costruire ponti ci vogliono solide basi su cui poggiarsi.
Per i protestanti la Vergine Maria non ha alcun privilegio ed è solo una creatura, servita a Dio Padre perché si incarnasse il Figlio e si realizzasse la sua volontà.
Per noi cattolici Maria occupa invece un posto di onore, intermedio tra Dio ed i santi, che giustifica un culto mai di adorazione (solo Dio si adora) ma certamente superiore al culto devoto che si può dare ai santi. Ci sono termini precisi che regolano questo tipo di rapporti.
LATRIA: è il culto di adorazione riservato solo a Dio. Nessun altro si adora se non la Santissima Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo.
DULIA: è il culto di venerazione che si può dare ai santi, nostri amici e intercessori presso il Padre.
IPERDULIA: è il culto di venerazione superiore a quello dei santi, riservato a Maria in conseguenza del posto speciale che ella ha avuto nella storia della salvezza.
Errore sarebbe considerare la Vergine Maria una divinità femminile, ma altrettanto sarebbe non tener conto della particolare storia che l’ha coinvolta quando fu chiamata dal Padre, lei preservata già dal peccato originale, a diventare la Madre del Signore.
A lei dobbiamo la speciale devozione che ce la fa sentire madre, sorella, condiscepola nella fede, potente nell’intercessione, assunta al cielo dove anche a noi è promessa l’eternità, santa tra i santi, dove anche noi speriamo di essere al termine della nostra vita. La devozione alla Vergine per questi motivi ha un senso per noi cattolici, discepoli di Gesù, ma questa devozione deve comunque avere alcune caratteristiche: deve essere interiore, tenera, santa, costante e disinteressata.
Una devozione mariana interiore: che nasce dal cuore ed attinge alla stima nei confronti della Vergine a causa della sua grandezza e dell’amore per lei.
Una devozione tenera: che nasce dalla fiducia, la stessa che ogni bambino sente naturale in sé per la propria madre.
Una devozione santa: perché guardando alla Vergine Immacolata ella ci aiuta a respingere la tentazione del male e del peccato. Santa la nostra devozione può essere anche guardando all’umiltà, alla fede viva, alla capacità di obbedienza di Maria, alla purezza, alla preghiera e alla carità di lei che unite alla pazienza, alla dolcezza e saggezza, la fanno creatura non totalmente diversa, ma certamente unica davanti a Dio e agli uomini.
Una devozione costante: che attinge alla fedeltà di Maria verso il volere di Dio, che aiuta anche noi a non abbandonare la fiducia in Dio nella difficoltà, che ci rende coraggiosi davanti all’apparente prevalere della mentalità del mondo, che ci fa forti nelle opere di bene, che insieme alla fede salvano l’uomo.
Una devozione disinteressata: che nasce dalla consapevolezza di avere già ricevuto grandi doni da Dio anche attraverso di lei. Una devozione riconoscente non cercherà i favori della Madre di Dio per interesse, per lucro, per proprio tornaconto, ma solo perché ella merita di essere servita per servire Dio in lei.
In prossimità della festa della Assunta rinnoviamo la nostra fiducia nella Vergine, preghiamo lei perché giunga la nostra preghiera a Dio, amiamo lei non per i favori che ella potrà farci giungere, ma perché amando lei ameremo di un amore ancora più grande tutta la Santissima Trinità ed i fratelli nostri.
Più unico che raro amare Dio e la Vergine in questo modo, ma non impossibile. Pensando all’Assunta e ai nostri cari che speriamo già in cielo, si elevi il nostro spirito, così che guidati dalla nostra Santa Madre e Maestra s’avveri quanto S. Paolo disse: “Tutti siamo stati scelti in Cristo per essere santi ed immacolati” per sempre in cielo.
Don Francesco
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Borno, domenica 4 giugno 2017
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Per la prima volta nella storia del mondo, fra le questioni che agitano l’umanità, vi è anche quella della conservazione dell’ambente che ci circonda. Perché nel nostro tempo l’uomo è diventato così potente da trasformare incisivamente l’ambiente e da influire perfino sui cambiamenti climatici.
Gli scienziati dicono che negli ultimi 70 anni le attività dell’uomo hanno modificato l’ambiente più di quanto sia avvenuto in tutti i secoli precedenti, poiché l’inquinamento e lo sfruttamento della natura avvengono oggi in proporzioni molto maggiori e con ritmi enormemente più rapidi che nelle epoche precedenti.
L’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del suolo, come pure la perdita crescente della biodiversità e il surriscaldamento del pianeta che comporta cambiamenti climatici, sono una grande sfida del nostro tempo a livello planetario.
Quanti hanno a cuore il bene dell’umanità non possono restare indifferenti a una questione di tale importanza.
Dobbiamo comprendere che la nostra salute sarà buona soltanto se sarà buona anche la salute del nostro pianeta. La complessità del creato è orientata all’armonia e noi dobbiamo rispettare tale armonia, che ha le sue radici nel disegno dell’intelligenza infinita di Dio. Tutto quanto esiste nell’universo ha un valore e un senso; va pertanto conservato e rispettato.
I credenti debbono essere in prima linea sul fronte della salvaguardia dell’ambiente naturale perché sanno che il mondo è stato creato da Dio. La Chiesa ritiene doveroso impegnarsi per aiutare a trovare il giusto atteggiamento nei riguardi della natura e delle sue risorse, e Papa Francesco lo ha fatto con l’enciclica Laudato si’.
Dio ha affidato la terra all’umanità perché la custodisca e la faccia fruttificare, ma il dominio umano sul creato ha come obiettivo la vita di quanto esiste. Non può essere dominio arbitrario e distruttivo, ma è finalizzato ad una crescita ed a uno sviluppo sostenibili.
È vero che il mondo di oggi ha un grande bisogno di ripresa economica e di nuovo sviluppo, ma ciò va realizzato tenendo conto della sostenibilità ambientale. Il miglioramento delle condizioni di vita è doveroso e richiede l’impegno di tutti i nostri sforzi, ma non soltanto in base a quanto è tecnicamente possibile. Dobbiamo tener conto anche della sostenibilità ambientale e non lasciare l’etica fuori dalla porta.
Per il miglioramento delle nostre condizioni di vita abbiamo bisogno di una crescita e di uno sviluppo che sappiano rispettare il creato.
Non ci sarà sulla terra un futuro migliore per l’umanità se non ci educhiamo tutti ad uno stile di vita più responsabile nei riguardi dell’ambiente che ci circonda.
È vero che nel creato vi sono cicli legati al sole, determinanti per il clima sulla terra, i quali lungo i secoli hanno causato periodi più freddi e periodi più caldi, e che su di essi noi non possiamo influire, ma gli scienziati dicono che gran parte degli attuali cambiamenti climatici sono dovuti innegabilmente all’attività umana.
È necessario pertanto costruire una nuova cultura attenta alla salvaguardia del creato, facendo crescere una coscienza collettiva sensibile ai rischi che corriamo se non abbassiamo nell’atmosfera gli elementi nocivi causati dell’attività umana e se non corriamo ai ripari nei confronti del crescente degrado.
Vi è poi una domanda che non può essere elusa: quale mondo vogliamo trasmettere a che verrà dopo di noi? Da persone ragionevoli dobbiamo pensare anche alle generazioni future e all’eredità che saremo in grado di lasciar loro.
La questione della salvaguardia del creato impegna tutti: singole persone, imprenditori, responsabili della finanza, associazioni, istituzioni, governi, stati, organismi internazionali, in proporzione alla propria possibilità di azione.
La questione è globale perché le emissioni inquinati di un paese non si fermano alle sue frontiere.
Purtroppo non tutti i Paesi del mondo stanno intraprendendo le iniziative necessarie, incominciando dagli Stati Uniti che ora stanno facendo un passo indietro. I governi tendono a rimandare sempre a tempi successivi (che non arrivano mai) le scelte difficili e preferiscono guardare a ciò che al momento presente è più redditizio per loro dal punto di vista elettorale e del profitto. Ma questo non è mettere il bene comune al di sopra dei propri interessi.
Noi siamo legati all’ambiente che di circonda e ne condividiamo la sorte, per cui l’umanità avrà un futuro soltanto se anche il creato avrà un futuro. Siamo tutti dentro un sistema globale, nel quale tutto è interdipendente. Soltanto con l’impegno di tutti si potrà risolvere questo problema. Ora siamo ancora in tempo. Domani sarà troppo tardi. C’è bisogno di un modo nuovo di pensare e di agire, un modo nuovo ispirato dal bene comune e da un senso di vera e fraterna solidarietà, anche nei riguardi delle future generazioni.
Card. Giovanni Battista Re
Cüntòmela PER RIFLETTERE
card. Joachim Meisner
Lo scorso cinque luglio è tornato alla Casa del Padre, mentre era in vacanza a Bad Füssing, una ridente località bavarese, il cardinale Joachim Meisner, uno degli ultimi grandi cardinali della Chiesa (non me ne vogliano i restanti membri del Sacro Collegio!).
In occasione dei solenni funerali celebrati il 15 luglio nella superba cattedrale di Colonia, di cui Meisner è stato vescovo per venticinque anni, è stato letto il messaggio di uno dei suoi più cari amici: Benedetto XVI, papa emerito.
Tra le tante cose che Ratzinger ha detto a riguardo dell’amico cardinale, ce n’è una che mi ha colpito in modo particolare: “Sappiamo che è stato duro per lui, appassionato pastore e guida di anime, lasciare il suo ufficio e proprio in un momento in cui la Chiesa aveva urgente bisogno di pastori capaci di opporsi alla dittatura dello spirito del tempo e pienamente risoluti ad agire e pensare da un punto di vista di fede”.
Queste parole – dicevo – mi hanno colpito, perché mi hanno immediatamente rimandato ad un libro che stavo leggendo per l’ennesima volta, il grande capolavoro di Gerges Bernanos, Diario di un curato di campagna. L’autore mette sulla bocca del sacerdote protagonista queste parole: “Il buon Dio non ha scritto che noi fossimo il miele della terra, ragazzo mio, ma il sale. Il sale, su una pelle a vivo è una cosa che brucia. Ma le impedisce di marcire”.
Le parole del papa emerito e quelle di Bernanos (che, ovviamente, rimandano al più qualificato degli autori, Gesù stesso) mi hanno fatto riflettere su come la Chiesa, insieme di tutti i battezzati, nel suo modo di vivere la fede stia scivolando verso la sdolcinatezza; stia diventando un grande distributore di marmellata, anziché essere quel sale che da’ sapore e all’occorrenza brucia, ma risana.
Mi pare che anche nella Chiesa ci si stia abbandonando al vizio del politicamente corretto anziché alla virtù dell’evangelicamente corretto. Eppure tutti sanno che il politicamente corretto è uno stile di pensare e di vivere contrario al Vangelo e a quella fondamentale massima di Gesù: “Sia, invece, il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno (Mt 5,37). Chi è politicamente corretto ha solo un’unica preoccupazione, quella di tenere il “piede in più scarpe” - come si dice dalle nostre parti – senza voler scontentare nessuno.
Il personaggio politicamente corretto si riempie la bocca di parola come: “accoglienza per tutti, rispetto per tutti, ascolto di tutti, misericordia per tutti”, tralasciandone altre fondamentali come “peccato, conversione, cambiare vita...”.
Politicamente corretto è chi, per non urtare la massa, di fronte al caso di un matrimonio gay di un capo scout cattolico, con successiva comunione sacramentale, si nasconde dietro la frase fatta “chi sono io per giudicare”, oppure invita semplicemente al discernimento. Politicamente corretto è chi dice che, alla fine, tutte le religioni sono uguali e quello che conta è volersi bene.
Evangelicamente corretto è chi, invece, come il ginecologo Leandro Aletti, non ha paura di mettere a repentaglio la propria carriera professionale, pur di salvare ogni vita umana indifesa. Evangelicamente corretto è chi, come un vescovo degli Stati Uniti, candidamente ricorda a preti e laici che “i Cattolici in «peccato grave» – inclusi gli omosessuali attivi e quelli in unione adultera – devono pentirsi prima di ricevere la Comunione”. E soprattutto è evangelicamente corretto chi muore sgozzato per mano dell’Isis, avendo sulla bocca il nome di Cristo, l’unico nome dato sotto il cielo in cui può esserci salvezza.
Certamente chi è politicamente corretto ha pochi grattacapi e tanti onori e applausi, ma sono estremamente convinto che alla fine rimarrà in piedi chi si sforza di seguire il Vangelo e non la massa e il pensiero della maggioranza.
Come mai ci si affanna tanto a seguire il pensiero del mondo, da parte di tanti laici e pastori di Cristo? Forse con la speranza che, essendo di manica larga e molto accomodanti di fronte a certi stili di vita, le nostre chiese tornino a riempirsi di fedeli oranti?
Io, invece, penso che la Chiesa sia destinata a diventare, in mezzo agli uomini e alle donne di questo mondo, una minoranza fedele al suo Signore e che le nostre Chiese torneranno a riempirsi non perché si è di manica larga, ma perché si è coerenti con quello che si crede e annuncia.
Gli atei e i non credenti giungeranno a Cristo non perché il papa o taluni vescovi dimorano in semplici appartamenti anziché nei palazzi che spettano loro, oppure perché hanno rinunciato alle croci pettorali d’oro in favore di quelle d’argento (che pure è un metallo prezioso), ma perché vedranno in tutti i cristiani (pastori e laici) degli ostensori del Vangelo e della Croce, uomini e donne disposti a soffrire l’ingiustizia e la calunnia pur di non rinnegare la loro fede.
Giustamente ci si straccia le vesti di fronte al trasformismo politico, di chi cambia casacca e pensiero per opportunità, pur di mantenere una poltrona o un piccolo posto di prestigio. Ci si dovrebbe altrettanto indignare di fronte a coloro che, nella Chiesa, in questi ultimi anni, hanno cambiato drasticamente pensiero, pur di non perdere il potere o irritare il capo di turno. Tutti questi voltafaccia non fanno altro che scandalizzare i piccoli e i semplici e per questo sarà necessario, alla fine, rendere conto!
Concludo ancora con un accenno a Geroges Bernanos. Nella raccolta di saggi “I grandi cimiteri sotto la luna”, l’autore immagina che in occasione della festa di Santa Teresa di Liseiux uno dei tanti predicatori chiacchieroni abbia un sussulto e faccia salire sul pulpito un non credente a tenere il sermone. Il non Credente così si esprime: “Vi studiamo, vi scrutiamo e che scopriamo? Molti fra voi agiscono per interesse; altri vivono una fede che non cambia nulla nella loro vita. Non c’è nulla di più grottesco che vedervi parlare, come tutti, delle vicende di questo mondo. E la vostra morale poi non differisce molto da quella comune. […] Voi la vostra fede non l’avete vissuta e allora essa è diventata astratta, è come disincarnata. Forse è in questa disincarnazione del Verbo la sorgente delle nostre disgrazie. […] Io non pretendo di interpretare il Vangelo, ma supplico voi cristiani di viverlo pienamente, secondo la vostra fede, secondo la fede della vostra Chiesa.
Sì, ve ne prego, vivete il Vangelo!
E così sia!!!
Don Simone
Cüntòmela PER RIFLETTERE
L’età dell’oro delle religioni io non credo che sia mai esistita. La componente del dolore è indispensabile per il suo ritmo. Anche ieri, quando tutti andavano in chiesa, alle religioni non mancavano prove maggiori, ma una certa chiesa campagnola pare che assicuri di più e che conforti. Ma Dio non ci vuole abbarbicati a questi conforti materiali o intellettuali o spirituali. Il cristiano è l’uomo che si cimenta con lo sconforto, è il nomade del deserto verso la terra promessa. Per sradicarsi veramente dalla terra e muoversi secondo la grazia, bisogna diventare nomadi. La sicurezza della legge non può entrare nel cristiano che ha per fondamento il precetto dell’amore.
Grazie ad un’amica che sistemando la sua casa ha ritrovato un piccolo libretto dei primi anni ‘80, ho avuto l’occasione di leggere “L’ospite più strano”. In queste conversazioni sul dolore, come indica il sottotitolo in copertina, don Giovanni Antonioli colpito dalla malattia del “contare continuamente i soldi senza averne” – così definì ironicamente gli involontari movimenti delle dita indotti dal morbo di Parkinson – affrontò molti aspetti che il dolore e la sofferenza possono provocare nella vita di una persona.
Spaziando da constatazioni di fatto a citazioni letterarie e avendo come sottofondo la straordinaria vita di San Francesco che giunse a chiamare sorella anche la morte, il noto prete camuno e storico parroco di Ponte di Legno (morto ad Esine nel 1992) in queste riflessioni mise in evidenza come il dolore trasformi la visione anche delle cose più quotidiane, isoli chi ne è colpito e come, a volte, a differenza di una certa teologia della sofferenza come dono da offrire al Signore (parole mie), lo stesso dolore possa indurre solo egoismo e smarrimento.
Se non ricordo male già molti anni fa su Cüntòmela era stato presentato questo interessante librettino di 100 pagine. Aldilà dell’argomento trattato, personalmente sono rimasto colpito e incuriosito dal brano sopra riportato.
Quando viviamo momenti di crisi, momenti di sconforto è facile ripensare con nostalgia al passato, per cercare di riaggrappare alcune presunte sicurezze interiori. Ecco che saltano fuori le solite frasi sui tempi di una volta, in cui tutto era più bello, più buono, più genuino. Mentre il futuro proprio perché non lo conosciamo ci fa sempre un po’ paura, il passato, anche nei risvolti meno piacevoli quando costituivano il presente, tendiamo generalmente ad ammantarlo di retorica benevolenza, di sciocca poesia.
In molti di noi è abbastanza diffusa l’idea che la fede, la vita religiosa è veramente tale solo quando è ancorata al passato non solo nei principi ma anche, se non soprattutto, nelle forme. Spesso pensiamo che quando si sente parlare di Gesù, di Dio e di Chiesa sia bello quanto indispensabile respirare l’odore di muffa di certe sacrestie, per essere rassicurati su fumosi valori eterni e immutabili.
A piccola conferma di questo mi è capitato un piccolo episodio. Consigliando ad una persona la lettura della Bibbia (o almeno di tutti e quattro i Vangeli) come mezzo sicuro per approfondire l’esperienza della nostra fede, subito questa mi disse che desiderava, però, acquistarne una molto vecchia, magari in qualche bancarella o negozio di antiquariato. Invano ho tentato di farle capire che prima del 1974, anno di pubblicazione della prima traduzione ufficiale della CEI, difficilmente avrebbe trovato una buona Bibbia anche perché, almeno qui in Italia, era un libro poco diffuso e altrettanto poco consigliato dalla stessa Chiesa.
E forse, se posso permettermi, è anche in nome di questo continuo rimpianto di un mitico passato – della pentola delle cipolle come capitava agli ebrei usciti dall’Egitto – che, accanto ad una certa “papolatria” tornata di moda dopo quella tributata a Giovanni Paolo II, specialmente in Internet si trovano un sacco di critiche, a volte non prive di accenti astiosi, nei confronti di Papa Francesco e del suo voler guardare avanti e portare davanti gli ultimi.
Da quel “Esci dalla tua terra e va...” rivolto ad Abramo all’invito agli apostoli ad andare in tutto il mondo per annunciare il Vangelo, il grande racconto biblico è una continua sollecitazione a non rimanere abbarbicati, come scriveva don Giovanni Antonioli, alle proprie piccole o grandi sicurezze.
Se pensiamo alle invettive di Gesù contro le tradizioni farisaiche, alla decisione degli apostoli di non imporre i fardelli di queste tradizioni ai nuovi credenti non ebrei e a molti altri episodi fino all’invito ad aprire la porta di cui parla l’Apocalisse per accogliere Colui che continua a venire nell’oggi e non nel passato, è facile intuire che uscire, andare, accogliere non indicano soltanto azioni fisiche, ma includono un continuo movimento interiore, una sana inquietudine, una fiduciosa apertura verso gli altri e verso il futuro.
Da inconsapevole ma appassionato ascoltatore della Bibbia, ovviamente, non posso dimenticare l’ardore dei profeti nel distinguere ciò che è bene da ciò che è male. In un’epoca in cui alle parole bene e buono si sovrappongono spesso gli infantili “mi piace” e “lo voglio”, in cui sembra regnare una gran confusione (non so se volutamente indotta) siamo sempre più chiamati ad esercitare il nostro spirito critico, a fare discernimento.
Ovviamente il passato e le tradizioni vanno conosciuti e continuamente riscoperti. Come è giusto tener presente l’invito di san Paolo a non lasciarci trasportare qua e là da qualsiasi vento di dottrina. Ma la vita e la fede non possono essere statiche.
Il cristiano, a mio avviso, deve essere sempre in movimento, saper guardare avanti, tendere alle cose nuove che la grazia e la fantasia di Dio creano ogni giorno. Il cristiano, come ci ricorda l’originale stemma di don Marco Busca (ora monsignor e vescovo di Mantova), non può aver le radici piantate in terra, bensì rivolte verso il cielo.
Pur essendo un maledetto abitudinario che tende a sedersi sulle proprie idee, mi piace molto la provocazione di don Giovanni Antonioli e, ricordando il titolo di un glorioso disco dell’omonimo gruppo musicale, è bello che almeno nel cuore e nella mente sappiamo rimanere… per sempre nomadi.
Franco
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Ho letto in anteprima l’articolo di Franco Peci, che prendendo spunto da uno scritto di Don Giovanni Antonioli sul dolore, con il consueto stile anticonformistico, riflette sul tema della fede in bilico tra stabilità e movimento, tra rimpianto e bisogno di esplorazione del futuro, con l’invito a lasciare le ammuffite sacrestie per diventare “nomadi” insoddisfatti del passato e del presente, tesi verso “qualcosa d’altro” che ancora non si sa cosa sia.
Già la categoria “nomadi” non mi piace perché per me esprime quasi un senso costante di irrequietezza, di insoddisfazione, di delusione del passato e del presente e bisogno di evadere da qualcosa che si sente troppo stretto. Non mi piace questa categoria, ma posso capire chi la sente propria.
Nomadi, dunque, ma per andare dove? Verso quale meta? Per incontrare chi? Per trovare cosa? Nomadi SI, ma queste comunque sono domande che bisogna porsi per non vagare nella propria insoddisfazione senza trovare nulla.
Franco nella sua riflessione ritiene che la Parola di Dio, la Bibbia sia una specie di carta nautica che offre la rotta in questa ricerca e nell’esercizio della fede. Mi sa che Franco verrà ben presto catalogato tra gli ammuffiti frequentatori di sacrestie proprio da coloro che nella chiesa, tutta slanciata in avanti, oggi segnano il nuovo corso inaugurato da Papa Francesco, se perfino il nuovo Superiore Generale dei Gesuiti, da cui proviene il Papa, mette in dubbio che il Vangelo riporti veramente quanto ha detto ed insegnato Gesù, e figurarsi l’Antico Testamento. “Al tempo degli apostoli non c’erano registratori per registrare ciò che veramente ha detto Gesù” ebbe a dire poco tempo fa questo consigliere del Papa. Ma se un tale personaggio influente pone questi interrogativi allora su cosa possiamo ancora poggiare la fede: Gesù ha veramente insegnato ciò che ci è chiesto di credere, è veramente stato crocifisso, è veramente morto e risorto, ha veramente dato inizio alla Chiesa, ha istituito l’Eucarestia e gli altri sacramenti, c’è vita eterna?
Nulla allora è più certo e tutto diventa opinione. Anche il diventare nomadi come dice don Antonioli si trasforma in un cercare senza trovare alcunché, se non il Dio che uno si è costruito nella sua mente e desidera incontrare. È il relativismo religioso e morale, dove ognuno si fa il suo Dio e la sua legge, dove il discernimento diventa la parola magica per far emergere la decisione che la propria coscienza ritiene per quel momento “giusta”, dove ciò che ieri era dottrina cattolica universale oggi è diventata opinione e ciò che ieri era considerato oscuramente proibito (dai dieci comandamenti) oggi può diventare perfino virtù.
Si veda in proposito quanto accade intorno all’esortazione apostolica “Amoris Laetitiae” dopo il doppio sinodo sulla famiglia, dove cardinali, vescovi, preti e teologi danno interpretazioni che si oppongono le une alle altre, soprattutto riguardo alle due noticine che nell’intenzione del Papa, volutamente lasciano aperta la porta alla possibilità che gli adulteri divorziati e risposati, anche senza pentimento e senza volontà di conversione, siano ammessi alla ricezione dell’Eucarestia come tutti gli altri, cosa mai ammessa nella bimillenaria storia della Chiesa. Almeno nelle ammuffite sacrestie è ancora ben chiaro che Gesù stesso, pur potendolo fare, non ha abolito nulla della legge antica (i comandamenti) e pur usando la più grande misericordia con i peccatori, tutti i peccatori, ha sempre chiesto di convertirsi e cambiare vita.
Oggi si assiste ad un cambiamento epocale (per merito di Papa Francesco dicono alcuni – per responsabilità del Papa dico io) dove, con un linguaggio adatto a tutte le stagioni e a tutte le mentalità, non si parla più del “divino”, di vita eterna, di misericordia unita al giudizio di Dio, di conversione, di via possibile alla santità.
Anzi dai sostenitori del nuovo corso (e molti sono saliti opportunamente sul carro) non si perde l’occasione per far la morale agli ammuffiti frequentatori delle sacrestie e costringerli a convertirsi all’accoglienza illimitata dei migranti (una vera ossessione del Papa), a fare una pace svenduta con i protestanti che condividono con noi solo il battesimo e poco più, ad avere comprensione per gli islamici perché martirizzano i poveri cristiani del mondo arabo, a non chiamare più peccato quanto esercitano i gay perché è una nuova forma di vero amore, a dare ospitalità alle nuove teorie su famiglia, identità sessuale, ed altre forme stravaganti di ricerca della felicità perché ognuno ha diritto ad essere quello che vuole.
Ecco, questo è il problema: anche nelle alte sfere della Chiesa si pensa come il mondo, si afferma che tutti debbono poter trovare la loro via alla felicità intesa come un diritto inalienabile, un diritto che si deve realizzare però qui, ora ed in fretta, e in una salvezza solo di questo mondo, mica in quello di Dio.
Il Papa (di suo o furbamente manipolato dai suoi sostenitori non saprei) sembra diventato il paladino di questa umanità che cerca la sua felicità nel mondo e quasi lo si identifica più come un sindacalista che come il pastore che guida e conferma il suo gregge, un tribuno che con linguaggio simil-evangelico si fa promotore dei diritti (forse anche giusti) degli ecologisti, dei migranti, delle categorie di persone rimaste in ombra e – si dice – trattate senza misericordia, finora escluse per la condizione da ciò che ad altri sembra accordato per il loro modo di vivere.
Nessuno desidera che una parte dell’umanità resti in ombra e soggiogata dai più forti, e nemmeno io lo penso, ma mi domando se è compito di un Papa fare il politico piuttosto che “dire Dio”. Che delusione questa mania del nuovo, questo asservimento al politicamente corretto dove è scandaloso avere un’idea diversa da quella che hanno i potenti di turno, laici o religiosi che siano, questo ricercare il consenso guardandosi bene dal giudicare: eppure i pastori se devono insegnare a noi la verità, la retta fede ed indicare la via della salvezza devono giudicare, devono dire questo SI, questo NO.
Dove porterà questo “nomade” ricercare un posticino nella mentalità del mondo? Alla insignificanza della fede cristiana, per alcuni, perché ognuno farà comunque come vuole; a rifiutare Gesù Cristo, per altri, perché è ormai vecchio anche lui di almeno duemila anni; a negare Dio e molti già lo hanno fatto per crearsene uno a loro misura, tanto che perfino l’ateo miscredente Scalfari se ne sta costruendo uno anche lui mediante le interviste che gli concede il Papa. Questa mania del nuovo porterà lontano, porterà al paradiso, non quello eterno, ma quello in terra, creato “ad hoc” per far contenti tutti a buon mercato, fino a che non si muoia e si cada nell’oblio eterno. In questa dimenticanza sperano molti per evitare il giudizio sulla propria vita. Ma Dio c’è anche se in tanti non lo credono.
Davanti a tanta incertezza che il “nuovo” porta con sé io preferisco “il vecchio” anche se appare un po’ “ammuffito”, non mi distacco da Cristo Salvatore, resto fermo nella fede come me l’hanno trasmessa i miei genitori, mi fido della dottrina certa del Catechismo della Chiesa Cattolica ed ammiro i preti, i vescovi, i cardinali ed i Papi che senza indulgere nella tristezza, hanno parlato chiaro e chiamato col loro nome i mali del mondo, anche correndo il rischio evangelico di essere insultati e perseguitati dagli amanti del politicamente corretto, che certo non scontenterà e non offenderà nessuno, ma farà perdere la vita eterna ad un gran numero.
Don Francesco
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Mercoledì 12 luglio, poco dopo mezzogiorno, anche a Borno sono suonate le campane per annunciare la nomina del nuovo vescovo di Brescia. Una notizia che, come ironicamente ha lasciato intendere il vescovo Luciano Monari nella conferenza stampa, non era rimasta esattamente un “segreto pontificio” fino all’annuncio ufficiale. Ecco qui di seguito alcune note sul nuovo vescovo prese dal sito della Diocesi di Brescia.
“Sono emozionato. Speriamo che la Diocesi di Brescia non rischi troppo. Conosco bene i miei limiti. Dal momento in cui mi è stato dato questo annuncio ho incominciato ad amarla. Davanti ai numeri e alle misure cresce l’ansia. Conosco il vescovo Luciano a cui mi lega l’amore per le scritture. Non sarà facile lasciare la mia Diocesi. Il mio desiderio è di diventare un tutt’uno con la Chiesa bresciana. Cammineremo insieme nella luce del Vangelo”.
Sono queste le prime parole del nuovo vescovo di Brescia. Mons. Pierantonio Tremolada, attuale vescovo ausiliare di Milano, è il 122° Vescovo della Diocesi di Brescia. Succede al vescovo Monari insediatosi a Brescia nel 2007 che lascia per sopraggiunti limiti di età, avendo consegnato al Santo Padre la rinuncia dopo il compimento dei 75 anni il 28 marzo.
Nel saluto alla diocesi di Brescia ha preso ispirazione dalle scritture. Si sente un po' come Abramo: "Lascia la tua terra e va' verso il paese che io ti indicherò".
Classe 1956 e originario della diocesi di Milano, il 13 giugno del 1981 è stato ordinato presbitero, nella cattedrale di Milano, dall'arcivescovo Carlo Maria Martini. Il 24 maggio 2014 papa Francesco l’ha nominato vescovo ausiliare di Milano e vescovo titolare di Massita. Ha ricevuto l'ordinazione episcopale il 28 giugno del 2014, nella cattedrale di Milano, con i vescovi Franco Maria Giuseppe Agnesi e Paolo Martinelli, dal card. Angelo Scola, coconsacranti il cardinale Dionigi Tettamanzi e il vescovo Mario Delpini.
Nella diocesi di Milano ricopre l’incarico di vicario episcopale di settore per l'evangelizzazione e i sacramenti e presidente della commissione per la formazione dei responsabili delle istituzioni di pastorale giovanile. Dal 2013 è anche presidente della Fondazione oratori milanesi.
Il card. Scola nel dare l'annuncio gli ha riconosciuto pubblicamente la capacità di “incarnare la Parola nelle situazioni concrete e il tratto amabile che esprime bene la sua personalità”. E ha ricordato che va in una “Chiesa a noi cara, feconda di istituzioni sociali e culturali”.
Tremolada è l’ottavo vescovo di Brescia che arriva dalla Diocesi di Milano, l’ultimo era stato mons. Giacinto Tredici che ha guidato la Diocesi dal 1933 al 1964.
Nell'arcidiocesi di Milano è stimato dai sacerdoti come persona innamorata del Vangelo e come uomo umile e al tempo stesso affabile.
Lo stemma episcopale di monsignor Pierantonio Tremolada è ispirato al tema della Salvezza operata da Cristo. La croce dello scudo è la croce del Calvario, d’oro per esprimere la gloria della risurrezione, dalla quale sgorga verso il basso un rivo che è simbolo dell’acqua della Vita, scaturita dal costato trafitto del Cristo Redentore (Gv 19,31-37).
A questa fonte si abbeverano due cervi. Essi richiamano il motto episcopale «Haurietis de fontibus salutis», citazione di Is 12,3 ed evocano il Salmo 42: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a Te, o Dio». I due cervi alludono anche la comunione dei fedeli: alle sorgenti della salvezza ci si abbevera insieme.
Gli antichi rotoli della Scrittura rimandano alla Parola di Dio a noi offerta nelle Sante Scritture, esse stesse sorgente della Salvezza. Il campo verde dello stemma vuole evocare anche la «verdeggiante Brianza», area di cui è originario monsignor Tremolada. Il galero e i fiocchi verdi con la croce astile completano come di regola l’insegna episcopale.
Cüntòmela a BORNO
“Spero che tutti oramai saremo persuasi che un divertimento è indispensabile per la nostra gioventù. Ci preme allontanare i nostri giovani dal pericolo dell’alcolismo, che è una delle piaghe più gravi del nostro paese? Se ci preme davvero, bisogna che risolviamo questo problema. Ecco il perché trovo il coraggio di pensare seriamente ad un passo che mi farà invecchiare di molti anni in poco tempo. Schiettamente ne sono impensierito e preoccupato, ma la Provvidenza non può abbandonarci perché non si tratta di un capriccio, né di una spacconeria, ma solo di una necessità, di un’arma indispensabile di apostolato”.
foto da "La Voce di Borno" - marzo 1954
Così scrive don Ernesto sulle pagine del secondo numero de La voce di Borno nel giugno del 1951 a proposito del cinema. Quanti dubbi, quante ansie povero don Ernesto! Eppure quanta forza e quanta determinazione nel volere i cinema a tutti i costi! Forti motivazioni spingevano l’instancabile parroco di Borno degli anni ‘50 e ‘60 a voler affrontare un’impresa per quei tempi davvero titanica! Quando si dice “la forza delle idee”. Egli credeva fortemente nel ruolo educativo del cinema, quale valida alternativa al bar che allora significava principalmente forti bevute e grandi ubriacature con le ricadute deleterie sul tessuto sociale. Ma anche alla sua valenza turistica. Non mancava, infatti, di stimolare anche gli amministratori: “[…] E poi Borno, che vuol dire la sua parola nel campo della villeggiatura, soprattutto in avvenire, non può non avere un cinema”.
Non saprei dire cosa venisse prima nel suo cuore, se la Fede o l’amore per i bornesi. Certo è che pur tra dubbi, difficoltà e paure egli ha saputo applicare, all’indiscutibile necessità di aiutarli nel difficile cammino del dopoguerra e al desiderio di farli uscire dall’immobilismo (a cui un piccolo paese di montagna sarebbe stato altrimenti condannato), il concetto di “bene” - principio secondo il quale le azioni concrete devono produrre vantaggio non solo per chi lo fa, non solo a cui questo bene è diretto, ma all’intera comunità - sostenuto, certo, da una granitica Fede. Con la proficua alchimia di queste due virtù, egli ha contribuito a fare di Borno quel che è stato fino almeno alla fine degli anni ’80. E cioè un paese che ha saputo tener vivo il senso di comunità e metterlo nelle condizioni di giocarsi la partita del turismo sullo stesso tavolo di altri paesi della valle. Una partita che, fino a trent’anni si fa, Borno si è giocata più che bene.
Nel maggio del 1952 i lavori del nuovo cinema sono già iniziati e il nostro instancabile parroco non manca di aggiornare i bornesi sulle colonne del bollettino. Scrive: “L’iniziativa della grande opera è della Parrocchia alla quale rimane la proprietà e perciò stesso ha piena responsabilità del capitale impiegato di cui risponderà fino all’ultimo centesimo. Ma siamo certi che l’Amministrazione Comunale non ci abbandonerà col suo consiglio e con il suo aiuto come non ci ha abbandonato in questa fase preparatoria, e accanto a quella sentiamo vicino a noi tutto il popolo di Borno che ancora una volta è invitato a ricordare che l’unione fa la forza”.
Certo, forti motivazioni sostenevano la sua tenacia, ma egli sapeva bene che solo insieme, bornesi Parrocchia e Amministrazione avrebbero raggiunto l’obiettivo. E oggi? Oggi che, senza accorgercene, siamo andati perdendo il senso di comunità, che ci crogioliamo nel coltivare il nostro orticello, che guardiamo agli altri più per perniciosa curiosità che altro, come possiamo pensare di realizzare qualcosa per il futuro?
Dobbiamo ritrovare la voglia di ricominciare a mettere al centro il progetto e non più il risultato. Un progetto fatto dai bornesi per i bornesi. Sarebbe bello se il ripensare seriamente alla ristrutturazione e riqualifica del cinema, potesse rappresentare davvero un inizio per la nostra comunità e per il nostro paese. E non mi riferisco soltanto alla ricaduta sociale e turistica che ne avremmo, ma soprattutto alla nostra capacità di ritrovare motivazioni forti, spirito di unione che sono imprescindibili per sostenere un progetto così importante e tenerlo vivo nel tempo.
E’ evidente allora che quella del cinema è una sfida che la Parrocchia non può vincere da sola, come non l’avrebbe vinta don Ernesto se non avesse avuto il paese a sostenerlo! Certo, sono cambiate le condizioni, la partita è senz’altro più complicata di quella giocata dall’amato arciprete.
È pacifico che non basta più proiettare un film la domenica pomeriggio per aggregare i giovani e non basta scrivere su un depliant che a Borno c’è una bella sala polifunzionale per far salire a frotte i turisti.
D’altro canto sono persuasa che, opportunamente “pensato” e quindi riqualificato, esso possa diventare un nuovo importante strumento di unione per i giovani e la nostra comunità e un luogo per offrire in una location adatta, tutti quegli eventi di rilievo che purtroppo non possiamo proporre per la mancanza dello spazio opportuno. E a chi mette davanti la questione dei soldi, che certamente esiste, dico che se alla base di tutto si fa fruttare quel concetto di bene di cui si parlava prima e l’amore per la propria gente e per il proprio paese, allora i soldi si trovano.
Proprio a proposito della “questione economica”, don Ernesto così persuadeva i bornesi – e non dimentichiamo che quelli erano anni complicati perché si era appena usciti dalla guerra, bisognava fare i conti con un paese ancora da ricostruire, con tanti uomini lontani da casa per assicurare il pane alle famiglie, dove anche solo proporre l’idea di un cinema, doveva essere considerata una vera follia - a contribuire al pagamento degli interessi per il prestito chiesto alla banca: “[…] noi lo restituiremo un po’ alla volta in alcuni anni con l’incasso del cinema, purché tutti assieme riusciamo con le offerte a pagare le 600 mila lire annue di interessi. Vi sembrano molte? Sono una media di mille lire all’anno per famiglia, o, se più vi piace, un uovo per famiglia per tutte le settimane dell’anno”. (Ecco perché ancora oggi diciamo che il cinema è stato costruito con le uova delle galline dei bornesi!!!)
In definitiva la lezione di don Ernesto ce lo insegna: Parrocchia e Amministrazione e noi cittadini abbiamo il dovere di sederci a questo tavolo! È finito il tempo delle sterili lamentele. Lo dobbiamo a Borno, al suo passato che ci ha affrancato dalle ristrettezze della dura vita di montagna e lo dobbiamo soprattutto ai giovani! E lo dobbiamo anche a don Ernesto!
Eh sì: sedersi e trovare insieme la soluzione migliore per far rinascere il nostro cinema può significare far rinascere la speranza di poter affrontare le nuove sfide per il futuro. E Dio sa quanto ce ne sia bisogno!
Vi lascio con questa lettera che lo stesso don Ernesto ha pubblicato su La voce di Borno nel febbraio 1953 rispondendo all’ingegner Valerio Rivadossi, (bornese, trasferitosi a Genova con i fratelli). Ve la lascio con l’auspicio che lo spirito di condivisione, di affetto, di alterità che traspare nelle sue parole riesca a contagiare un po’ anche noi e ci dia una bella scossa!
Emilia Pennacchio
Carissimo ingegner Valerio,
rispondo brevissimamente alla tua lunga e bella lettera, di cui ti ringrazio di cuore. Conoscevo già i tuoi sentimenti nei miei confronti sempre così benevoli, ma ti sono riconoscente d’avermeli ricordati ancora una volta.
Vuoi sapere qualcosa del cinema che hai sentito magnificare? Siamo alle finiture, e ti posso dire che diventa ogni giorno più grazioso. E’ veramente una cosa imponente e rappresenterà un orgoglio del paese. Certo che abbiamo – come si suol dire – buttato via il cappello.
“Coraggio?”. Di coraggio ne ho parecchio per quanto a volte me lo senta venir meno, soprattutto quando sono stanco e mi vedo attorniato da indifferenza e incomprensione. Però ti devo dire, mio caro Valerio, che il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge. A Borno, si brontola come in tanti altri paesi: “Questi benedetti preti! Vediamo un po’ cosa vogliono fare. Siamo andati avanti anche noi senza cinema e diavolerie del genere. Crederanno mica di cambiare il mondo o di farci vedere bianco adesso quello che prima era nero!” Così dicono, ma nonostante questo sono costretto a dire che i Bornesi sono buoni, tanto buoni e generosi. E’ gente fatta su così.
Si dice che una volta la madre superiora di un convento – persuasa ormai che le sue suore non potessero fare a meno di brontolare – concedesse loro la facoltà di mormorare contro i superiori un quarto d’ora al giorno senza far peccato, anzi acquistando un tantino di indulgenza “Toties quoties”. Io, da questo momento ne concedo il doppio a condizione, s’intende, che poi compatti ci aiutiamo assieme a pagare i debiti. E vedrai che ci riusciremo. La compattezza è una grande forza!
Ricordo, quando ero ad Artogne, d’aver pagato in due anni l’oratorio che sorse tutto a debito, contro il parere di tutti gli esperti, senza incassi, a soldini a soldini. Fu un sacrificio sì, ma, distribuito sulle spalle di tutti nessuno in fondo se ne accorse. Ed oggi rappresenta una grande realtà e la chiave di volta dell’educazione giovanile. Così avverrà a Borno e vedrai che finiranno per darmi ragione anche quelli che oggi sono contrari.
Continua a volermi bene come te ne voglio io e, quando preghi, ricordati anche di Borno, affinché le galline non facciano sciopero anche quest’anno e affinché faccia giudizio anche il tuo aff.mo Don Ernesto
Cüntòmela a BORNO
Nell’ambito della secolare contesa tra le comunità di Borno e di Scalve, per la definizione dei confini e per il possesso del monte Negrino, i documenti storico-archivistici collegati, danno conto di una fase delle trattative, nelle quali sono coinvolti anche i Vescovi Landolfo di Brescia e Alcherio di Bergamo che, accompagnati dai loro avvocati, sono presenti nel giorno 13 novembre 1018, in Borno, “ante hostium basilice Sancti Martini” (“davanti alla porta/ingresso della chiesa di San Martino”, antico patrono del borgo), per la definizione dell’annosa questione . È questo il più antico, ed uno dei pochi – e pertanto preziosi – documenti che testimoniano, in forma scritta, la presenza “certa”, sul colle del Sagrato di Borno, di una chiesa.
Nasce da qui l’idea del compianto Mario Gheza di approfittare, se così possiamo dire, di questo particolare anniversario “per celebrare degnamente” la storia della nostra parrocchiale. Non solo. In effetti, nel 2018 ricorrono anche altri due importanti avvenimenti che riguardano la nostra comunità: il 30° della costruzione dell’Oratorio Arcobaleno (con il correlato 30° di Cüntòmela come bollettino parrocchiale stampato in tipografia) e il 20° della visita di papa Giovanni Paolo II. Inoltre avremo anche modo di festeggiare l’ordinazione sacerdotale del giovane Alex.
È dunque bello ed importante celebrare degnamente un millennio così ricco di avvenimenti. L’idea è di farlo con una serie di iniziative di rilevanza religiosa e culturale con un intento di fondo: risollevare, far rinascere quello spirito di comunità che ha contraddistinto i bornesi negli anni passati e che ci ha consegnato figure importanti sia in ambito laico che religioso.
In che modo? “Richiamando alla memoria” - come ha scritto lo stesso Mario nei suoi spunti di riflessione sul tema - “il lungo percorso di fede e di civiltà della nostra Comunità e del nostro territorio, fissarlo nella memoria collettiva per tramandarlo alle future generazioni, affinché non ci dimentichiamo delle nostre radici” e delle ragioni, aggiungerei, che hanno contribuito, nel corso dei secoli, a rendere Borno all’altezza di essere ascritto nel grande libro della storia degli uomini di questo nostro grande, tormentato mondo.
Poiché tutto inizia dal documento che attesta l’esistenza della chiesa intitolata a San Martino, il rimando ai patroni è immediato, pertanto l’idea è di aprire le celebrazioni domenica 24 giugno (san Giovanni Battista) e concluderle domenica 11 di novembre (san Martino).
Questo tempo, che diventerà dunque per la nostra comunità il tempo del Millennio, andrà arricchito da iniziative celebrative, culturali e caritative.
Abbiamo già qualche idea in mente e finita l’estate ci troveremo per raccogliere idee e il contributo di tutti. Nel frattempo cominciate a pensarci!
Cüntòmela a BORNO
Il gruppo dei pellegrini della notte giunti ad Ardesio a piedi
Cüntòmela a BORNO
Ogni anno, la prima domenica di giugno, c’è un appuntamento fisso: è la festa della Protezione Civile di Borno. Ritrovo ai Lazzaretti, Messa in ricordo dei volontari che non ci sono più e poi si fa un po’ di festa - sempre ben organizzata dal gruppo - nel prato accanto alla piccola chiesa. Questo appuntamento è assai sentito, anche se durante l’anno i Lazzeretti non sono una meta frequentata dai bornesi. C’è sempre infatti un buon numero di persone che nel pomeriggio, complice il bel tempo, si raduna là per stare con i volontari e vedere aperta la bella chiesetta.
Naturalmente nei giorni precedenti c’è bisogno di dare aria all’ambiente, pulire, sistemare, preparare decorosamente interno ed esterno per la celebrazione. Ecco allora che tra i volontari, un gruppetto (nella foto qui sotto) si distingue per volontà e servizio.
All’interno c’è un bell’altare in legno ed un leggio sempre in legno che sono stati costruiti proprio da uno dei volontari: è bello che la Protezione Civile si prenda cura di questo luogo così tranquillo e sereno e bella meta per una semplice passeggiata a portata di tutti.
Al termine della Messa il parroco fa sempre un appello perché il gruppo si allarghi e nuove leve vengano a sostituire coloro che hanno sulle spalle un po’ di anni. La speranza è che chi ha a cuore l’ambiente, la salvaguardia del territorio, le bellezze delle nostre montagne raccolgano l’appello e vengano. La Protezione Civile serve tutti. Facciamo in modo che “chi è servito” trovi il modo di diventare un po’ “colui che serve”.
D.F.
Cüntòmela a BORNO volti e nomi
Evelin Swartz
di Oliver e Veruska Corbelli
9 aprile 2016
Beatrice Rivadossi
di Giuseppe e Sara Cerchi
18 dicembre 2016
Petra Zigatti
di Valerio e Eleonora Bonizzoli
19 gennaio 2017
Alex Arici e Aurora Arici
di Luca e Chiara Rivadossi
14 maggio 2017
Maria Chiara Gheza
di Igor e Anna Martinazzoli
Paspardo 21 maggio 2017
Alyssa Bianchi
di Daniele e Jessica Sanzogni
8 luglio 2017
50° di Matrimonio - Auguri vivissini a Basilio Isonni e Lina Arici
35° di Matrimonio 7 maggio 2017 - chiesa di S. Antonio - Borno
Auguri vivissini a tutti questi sposi... ormai non più novelli!
Margherita Re
10-11-1929 + 21-4-2017
Santina Miorotti
2-11-1917 + 23-4-2017
Luciano Venturelli
23-5-1931 + 23-5-2017
Giacomo Corbelli
19-2-1933 + 3-6-2017
Pietro Pedrotti
15-6-1935 + 11-6-2017
Domenica Gheza
13-1-1926 + 12-6-2017
Giovanni Tedeschi
24-7-1927 + 27-6-2017
Alessandro Bertelli
2-1-1936 + 28-6-2017
Piera Marisa Sanzogni
1-9-1954 + 19-7-2017
(a Pian Camuno)
Cüntòmela a BORNO
Donna forte e generosa
Nata a Borno il 27-7-1927
morta a Bergamo il 4-7-2017
La giovane Benedetta, amante della povertà del Serafico Padre san Francesco, dopo averla vista vivere con profonda dignità nella sua semplice famiglia, sentendosi chiamata da Dio nella Famiglia francescana delle Suore Cappuccine di Madre Rubatto, decise di abbracciarla come scelta di vita.
Lei stessa amava raccontare che la sua vocazione era nata in mezzo al profumo dei campi e della natura perciò appena poteva lodava e rendeva grazie al Creatore di ogni cosa.
Nel 1946, con grandi sacrifici dei suoi cari genitori, Benedetta entrò a Loano nel Noviziato delle Suore Cappuccine di Madre Rubatto, dove apprese a vivere i Voti di castità, povertà e obbedienza; Voti che abbraccerà con fede e gioia nel 1948 con la Professione semplice e nel 1953 in modo definitivo con quella Solenne.
Sr. Assunta, la vediamo subito impegnata nell’assistenza dei malati a domicilio, uno degli aspetti fondamentali del nostro Carisma che poi vivrà in tante cittadine Italiane: Genova, Varese, Bergamo, Oneglia, Sanremo, Pietra Ligure, Roma Tor Tre Teste e Varazze.
Sr. Assunta si recava molto volentieri nelle famiglie per visitare anziani e malati, il suo passo era lesto per portar a tutti una parola di conforto o consolazione; quella Parola che lei stessa ogni giorno riceveva con amore dal suo Signore. Sembrava una donna schiva e burbera ma chi la conosceva bene sapeva che aveva un cuore grande. Nella Casa di Riposo di Novara con carità e dedizione seguì le ospiti del pensionato, donando una buona parola a tutti, ai parenti, ai dipendenti così anche nell’infermeria di Genova-Quarto dove curò le nostre sorelle malate.
Per alcuni anni fu pure Superiora e Vicaria di fraternità. Donna molto disponibile in Comunità si donava in silenzio, facendo tanti piccoli servizi nel nascondimento; un giorno mi confidò che quello che non riusciva a fare di giorno lo faceva di notte.
Religiosa molto generosa, non badava a fatiche, per rallegrare le sorelle e farle star bene in salute, per anni con umiltà, nonostante i molti dolori alla schiena, coltivò per loro anche l’orto.
Amava con affetto il suo Signore e soprattutto a Varazze custodiva con cura la sua “Casa”, la Cappella della Comunità come pure quella dei Frati vicini. Finchè riuscì, seguì con grande interesse tutte le notizie del mondo per presentarle poi davanti a Dio in una fervente preghiera e contribuire così con Lui, come spesso diceva Madre Francesca, ad arrestare tanto male presente.
Da vari anni ormai si trovava a riposo nella R.S.A. di Bergamo alternando alti e bassi di salute. Cara sr. Assunta come era bello vedere, anche quando eri impossibilitata a camminare, l’ardente desiderio del tuo cuore di andare…di uscire… così appena potevi ti lanciavi, sganciando la tua carrozzina per andare… ancora nel mondo per diffondere la Buona notizia del Vangelo che sempre ha riempito il tuo cuore.
Cara sorella, grazie del tuo grande esempio, della tua fede, della tua carità… ora dal cielo continua a intercedere per noi, per i tuoi cari e per tutti, grazie e benedizioni divine. E con la Fondatrice ti diciamo arrivederci in Paradiso!
Milano, 4 luglio 2017
Madre Loredana Tiraboschi
Superiora Provinciale
8-6-1927 + 23-4-2017
Al secolo Angelo Lorenzi, è nato a Gorlago (BG) il giorno 8 giugno del 1927. Nel 1948 ottempera al servizio militare a Casale Monferrato presso la caserma Legnano nel corpo della Fanteria. Dopo il congedo si impiega presso la Manifattura Maffeis di Montello (BG) dove rimane fino all’età di 27 anni. Poi sente la chiamata religiosa che caratterizzerà la sua esistenza in futuro ed entra nel Seminario dei Cappuccini di Albino per farsi Frate Cappuccino. Inizia il noviziato, con la vestizione, a Lovere il 3 ottobre 1956; l’anno dopo, il 4 ottobre, fa la prima professione. Nella solennità di San Francesco d’Assisi del 1960 fa la professione perpetua a Bergamo.
Il 23 gennaio del 1965 è ordinato sacerdote a Milano da Mons. Giangrisostomo Luigi Marinoni di Clusone, Vescovo missionario dell’Eritrea.
Padre Serafico è poi incaricato come secondo cappellano presso l’Ospedale Psichiatrico di Como (1966). Nel 1969 è trasferito presso il Convento di Oreno di Vimercate, quale addetto al Terzo Ordine Francescano.
Nel 1975, nel rispetto dell’obbedienza, assume l’incarico di archivista provinciale, ruolo che svolge presso il convento di Milano posto in Viale Piave 2.
Nel 1991 è nominato Padre Superiore presso il Convento camuno della Santissima Annunciata di Piancogno (BS). Nel 1994 è superiore presso il convento di Lovere, casa del Noviziato Cappuccino. Nel 1997 torna a Milano presso il convento Monforte, dove ricopre l’incarico di Confessore e Direttore Spirituale nella chiesa francescana annessa al convento intitolata al Sacro Cuore.
Nel 2002 la Santa Sede lo nomina Vice Postulatore della Causa di Canonizzazione del Beato Innocenzo da Berzo. Il nuovo incarico prevede fra l’altro l’impegno di redigere la Rivista del Beato, compreso il compito di rispondere alle centinaia di lettere, e-mail e richieste provenienti da ogni parte del mondo dagli abbonati e amici del fratino camuno. Vive al Convento dei Cappuccini dell’Annunciata di Piancogno.
Il 23 aprile 2017, a 89 anni, ritorna alla Casa del Padre.
Cüntòmela a BORNO
Lucrezia Vezzoli
Mamma di Don Francesco
16 novembre 1929
26 giugno 2017
Lucrezia era nata a Gottolengo, nella bassa bresciana, il 16 novembre 1929. Visse in una famiglia contadina dove con i genitori c’erano altri cinque fratelli e sorelle viventi, oltre a lei, dove la vita non era per niente agiata, dove molte erano le rinunce ed i sacrifici, ma dove c’era lo stesso tanta dignità nel vivere.
Ebbe una sua famiglia col marito Battista e quattro figli: Francesco, Pietro, Andrea e Angelo. Non mancarono difficoltà e ristrettezze, ma pur con tanta fatica non fece mai mancare loro il necessario perché crescessero bene e trovassero la loro strada.
Sposatisi i figli minori, visse con il marito Battista seguendo il primo figlio, sacerdote, don Francesco, nelle parrocchie in cui fu mandato: nove anni a Carpenedolo; otto anni a Capo di Ponte, otto anni a Borno.
In tutti questi paesi incontrò persone buone e degne che l’aiutarono e con le quali rimase in amicizia fino a oggi.
A Borno una malattia che non lascia speranze l’ha portata via il giorno 26 del mese di giugno dell’anno 2017.
Donna semplice, ha vissuto anche nella sua famiglia da sposata momenti di ristrettezza, fatica e a volte di incomprensione esercitando la pazienza che si conviene per mantenere la pace.
Tuttavia ha sempre conservato la sua dignità ed ha trovato persone buone e comprensive che l’hanno aiutata.
Ha visto morire improvvisamente il marito quattordici anni prima della sua morte, un evento che le ha lasciato un segno, ma che l’ha spinta a voler ancora più bene ai suoi figli e alle sue nuore, con le quali aveva un rapporto materno e rispettoso allo stesso tempo e ai suoi nipoti, aspettandoli con gioia quando venivano a trovarla. Una gioia grande prima di morire è stata proprio vedere i suoi due piccolissimi pronipoti Viola e Marco, l’ultima generazione della nostra famiglia.
Nelle tre comunità che ha conosciuto seguendo il figlio sacerdote ha conservato una dote importante: non si è mai immischiata delle questioni di parrocchia, coltivando sempre la giusta riservatezza che deve avere la mamma di un prete. E un’altra cosa importante è che sapeva dire grazie, anche ai suoi figli, che ha sempre aiutato fino che ha potuto e come ha potuto.
Ed ora i suoi figli le saranno riconoscenti per sempre per quanto lei ha fatto per loro fino all’ultimo istante della sua vita e per quanto farà ancora dal cielo. Aveva certamente anche lei i suoi difetti, ma questi insieme alle sue virtù sono nella memoria di Dio e di chi l’ha conosciuta.
Noi preghiamo per lei perché lei senza alzare tanto la voce pregava per noi e per molte persone che ha conosciuto a Carpenedolo, a Capo di Ponte e a Borno, in modo particolare le Suore Dorotee di Capo di Ponte e Pierina e Giacomina di Borno a cui era riconoscente ogni giorno per l’aiuto che da loro ha ricevuto.
Nella Divina Commedia di Dante, Canto XIV del Paradiso, si dice che la felicità dei beati sarà piena non tanto (e non solo) per la resurrezione dei propri corpi, ma per quella delle persone amate (…per le mamme, per li padri e per li altri che furon cari…) cosicché nulla andrà perduto di coloro che abbiamo amato (...nemmeno per quel certo sorriso e quello sguardo...).
Riavremo tutto e molto di più, in una misura di gioia non immaginabile ora dalla nostra fantasia terrena. Con questa speranza, davanti a Dio aspettiamo il nostro momento, l’incontro con i nostri cari ed il ricostituirsi della nostra famiglia in cielo.
Don Francesco
Cüntòmela a OSSIMO INF.
Il tema del Grest di quest’anno porta con sé un intento educativo veramente prezioso. La preoccupazione numero uno per chi lo frequenta è: sarà divertente? E la domanda numero uno rivolta dai genitori ai figli sarà: ti sei divertito? Certamente il Grest si serve del divertimento, ma questo non è il fine del Grest, perché il solo divertimento passa e non lascia traccia di ricordi significativi. Passato il divertimento rimane un vuoto.
Proviamo ad aggiungere qualche altra domanda: “Cosa hai imparato oggi?” “Ti sei comportato bene?” “Hai fatto nuove amicizie?” il vostro buon cuore farà il resto.
Ripenso alla scuola degli anni passati: non era solo trasmissione di discipline, perché ogni materia insegnata portava il nome di EDUCAZIONE, (educazione tecnica, educazione artistica, educazione fisica, educazione musicale...) e, cosa importante che oggi purtroppo non si insegna più, era anche l’educazione civica e l’economia domestica. Educazione “è cosa del cuore” insegnava San Giovanni Bosco. Educare vuol dire fare emergere le qualità positive, le virtù, i talenti che Dio ci ha donato, in ogni persona per esprimerli nelle proprie scelte. Oggi la parola educazione è sparita e con essa sta sparendo anche il suo paziente esercizio, con le conseguenze che ne derivano.
Il Grest è una attività che si serve del divertimento come mezzo per educare. “Detto” e “Fatto” sono due parole che richiamano l’azione creatrice di Dio che ha messo nelle nostre mani come segno del suo amore infinito per noi, il mondo intero: un dono da gestire con il compito di COLTIVARE E CUSTODIRE. Cosa ne stiamo facendo di questo dono? Conosciamo tanto ma siamo poveri di esperienza…
Ecco allora che il divertimento di questo Grest ci aiuta ad imparare a conoscere la preziosità di quello che abbiamo ricevuto: Terra, Aria, Acqua, Fuoco, i quattro elementi basilari del nostro bel mondo. Entrare in contatto con tutto questo vuol dire sperimentare la nostra origine e il fondamento della nostra esistenza (Terra), cosa è essenziale (Acqua), essere bisognosi dell’altro (Aria), l’amore per rafforzare le relazioni con tutte le persone che incontriamo e fare comunità e per impiegare la nostra vita in un progetto vocazionale impegnativo e gioioso (Fuoco). Allora preghiera, attività, gioco, recita, diventano gli strumenti divertenti per educarci ad essere uomini liberi e felici cittadini di un mondo che ha voglia di essere veramente bello.
Animatori e assistenti hanno lavorato a pieno ritmo per preparare tutto il necessario per condividere questa bella proposta educativa (appunto!) e divertente. Ringraziamoli per il loro tempo e la loro passione. Sono doni rari di questi tempi e meritano il nostro grande GRAZIE!
Don Mauro
Cüntòmela a OSSIMO INF.
Da qualche mese il nostro oratorio ha sofferto di solitudine e di quasi abbandono, ma con l’arrivo della primavera e più ancora dell’estate ha ripreso vita grazie alla generosità e impegno lodevole di coloro che sono scesi in campo e si sono dati da fare.
San Giovanni Bosco ci ha lasciato una preziosa eredità che è sempre stata apprezzata e amata tanto da spingere a sacrifici per realizzarla con strutture belle spaziose e piene di desiderio di accoglienza di animazione e di educazione delle nuove generazioni.
Abbiamo la responsabilità di portare avanti tutto questo, e grazie alla generosità di mamme, papà, giovani e ragazzi anche se con qualche fatica, ci stiamo riuscendo abbastanza bene.
La parte più difficile però è quella che San Giovanni Bosco ha desiderato come finalità dell’Oratorio: educare alla fede e condurre tutti a Gesù.
Su questo c’è molto da fare perché non è sufficiente il cammino di fede del catechismo e le attività estive del Grest e dei campi estivi o le attività di gioco e aggregazione, benché siano ottime esperienze.
Occorre anche la preziosa e necessaria collaborazione di tutti noi adulti ad offrire, a coloro che dobbiamo guidare e far crescere, una testimonianza di vita cristiana sempre più vera e gioiosa.
Ci auguriamo di onorare nel miglior modo possibile questo nobile desiderio, e chiediamo a tutti gli uomini e donne di buona volontà, di aiutarci secondo quello che ognuno sente di poter fare.
Don Mauro
e i volontari dell’Oratorio
Cüntòmela a OSSIMO INF.
Seconda edizione della Camminata organizzata dai gruppi alpini di Ossimo Inf.re, Ossimo Sup.re, Borno, Malegno, Lozio, Cividate Camuno, Cogno, Piamborno.
È l’unione che fa la forza e se a unirsi sono gli Alpini il risultato non può che essere scontato.
E così il 9 aprile, domenica delle Palme, approfittando di una bella giornata di sole, otto Gruppi della Media Valle hanno invitato la gente a fare una scampagnata alla riscoperta di quei sentieri che, da sempre, hanno unito il fondovalle all’Altopiano del Sole.
Viottoli dimenticati e praticamente in disuso che, tornati percorribili grazie ad un lavoro di mantenimento e di messa in sicurezza delle Penne nere, possono ora, con una ritrovata vitalità, contribuire a promuovere e valorizzare il territorio.
Fatto sta che, all’ora convenuta, ben cinque colonne si sono messe in marcia rispettivamente da piazza S. Damiano di Ossimo, dalla fontana Sicula di Cividate, dal sentiero verso la fabbrica di Cogno, dal bar La Piazzetta di Borno e dalla “Fornace” di Malegno convergendo tutte verso la località “Corna”, in comune di Ossimo, nel cuore dell’Altopiano del sole.
Qui era stato allestito una sorta di accampamento che ha permesso ai pellegrini di ristorarsi assaporando un ricco “rancio alpino” offerto dai Gruppi organizzatori. Un momento conviviale in un gran bel contesto naturale un binomio che non poteva che rendere sereni e socievoli. Questo, a ben vedere, è quello che noi Alpini con le nostre manifestazioni ci prefiggiamo ed anche in questa occasione possiamo ritenerci soddisfatti del nostro operato.
Non è mancato un momento per lo spirito quando Don Francesco Rezzola ha celebrato la Santa Messa con la benedizione dei rami d’ulivo, segno di pace per portare fra la gente un messaggio di rinnovamento dello spirito in vista della prossima Pasqua.
Anche la Sezione Ana di Val Camonica ha presenziato e ha lodato la collaborazione messa in atto. È questo infatti il sunto del discorso del Vice Presidente Alberto Cobelli, accompagnato dai Consiglieri Sezionali Ballardini, Franzoni, Magri. A dare maggior risalto alla manifestazione c’è stata la partecipazione di due autorevoli Penne Nere Camune che hanno rivestito cariche associative di primo piano sia nella Sezione Camuna, che in Sede Nazionale come Giacomo Cappellini e Ferruccio Minelli.
All’appuntamento non sono mancate le rappresentanze Amministrative dei rispettivi Comuni. Il padrone di casa, Cristian Farisè, primo cittadino di Ossimo, nel ringraziare si è detto orgoglioso della promozione del territorio che si fa anche attraverso queste iniziative e, facendosi portavoce di tutti gli Amministratori dell’Altopiano, ha esternato un: “Grazie Alpini per quanto fate”.
A questo punto non possiamo che darci un arrivederci all’anno prossimo, augurandoci che, collaborazioni come questa, siano uno stimolo e uno sprone per iniziative analoghe sul territorio.
Gli Alpini dei vari Gruppi
Cüntòmela a OSSIMO INF. volti e nomi
Giulia Trotti
di Nicola e Elena Zani
30 aprile 2017
Thomas Franzoni
di Severo e Elena Longa
10 giugno 2017
Gervasio Tarcisio Zendra
19-6-1950 + 10-12-2016
(Saint Dié des Vosges FRANCIA)
Anna Maria Daniele
8-12-1942 + 5-7-2017
Ettore Richini
7-3-1950 + 7-7-2017
Paolo Zani
2-7-1948 + 8-7-2017
Cüntòmela a OSSIMO SUP.
A due anni dal restauro integrale dello strumento e per ricordare i 230 anni dalla sua costruzione, nella Chiesa dedicata ai SS Gervasio e Protasio, farà sentire la sua rinata voce il prezioso Organo Francesco Bossi 1787 – Giovanni Bossi 1810 – Giovanni Manzoni 1881, restaurato da Barthélémy Formentelli nel 2015.
Un organo settecentesco (le canne più antiche sono databili entro la prima metà del settecento e probabilmente di paternità dell'organaro Don Cesare Bolognini di Lumezzane), costruito dall’organaro Francesco Bossi di Bergamo nel 1787 e riparato da Giovanni Bossi, figlio di Francesco, nel 1810 a seguito di un grave danno cagionato da un fulmine. Poi nel 1881 il restauro con ampliamento del materiale fonico per adattare lo strumento ai nuovi gusti musicali del tempo, da parte dell’organaro Manzoni Giovanni di Bergamo. Con il restauro del 2015 sono stati inoltre ripristinati diversi registri asportati nel corso del ‘900 e ricostruite all’identica varie canne mancanti, nonché il sistema di caricamento manuale dei mantici.
La festa per il restauro Domenica 27 Settembre 2015, una data da ricordare per la Parrocchia di Ossimo Superiore, con la S. Messa di Benedizione ed a seguire il concerto di inaugurazione del restauro dell’Organo. Dopo quasi 36 mesi dallo smontaggio avvenuto nell’estate del 2012, l’Organo è tornato a far sentire la sua “rinata” voce. Per il concerto d’inaugurazione è stato chiamato Pietro Pasquini, Maestro Organista, concertista e docente di Organo e Composizione Organistica presso il conservatorio di Brescia.
Dopo il concerto ci ha scritto: “Grazie, sono stato molto contento della serata e del suono dell'Organo di Ossimo. È uno strumento che rende bene anche la musica polifonica, con la sua brillantezza, e i registri di colore arricchiscono le possibilità esecutive. Complimenti a chi ha promosso il restauro”.
La prossima serata vedrà la partecipazione della M° Organista Susanna Soffiantini che già aveva accompagnato il M° Pasquini nella registrazione del concerto inaugurale.
Susanna è una giovane organista, nata nel 1993, si è formata presso il Conservatorio “Luca Marenzio” di Brescia con i maestri Pinuccia Giarmanà (pianoforte), Gianluca Cagnani e Pietro Pasquini (organo e composizione organistica). Ha conseguito nel 2016 il Diploma Accademico di I livello con il massimo dei voti, la lode e la menzione d’onore e frequenta attualmente il Biennio Accademico di II livello di organo, con indirizzo Romantico- Moderno, sotto la guida del M° Pietro Pasquini.
Numerosi sono i riconoscimenti in concorsi nazionali e internazionali: 2° premio - 1° non assegnato - al IV Concorso Organistico Internazionale “Organi storici del Basso Friuli” (2014), 1° premio ex aequo per la sezione Organo al IX Premio Nazionale delle Arti “Claudio Abbado”, indetto dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (2015) e 1° premio al V Concorso Organistico Internazionale “Daniel Herz” di Bressanone (2016).
La Parrocchia di Ossimo attende la comunità parrocchiale dell'Altopiano del Sole ed anche tutti gli interessati a questo nostro evento, per ascoltare insieme la voce dell'organo suonato da questa giovane e brava concertista.
Cüntòmela a OSSIMO SUP.
Non solo donne nel gruppo di preghiera
C'è anche un'infiltrata proveniente dall'Africa.
Cüntòmela a OSSIMO SUP. volti e nomi
Anna Bianchi
di Michele e Francesca Saviori
25 giugno 2017
Di chi sono questi volti stupiti e anche un po' smarriti?
Cüntòmela a OSSIMO SUP.
Lunette di Francesco d'Antonio, seppellire i morti
Negli ultimi anni ho potuto notare la crescita esponenziale di un fenomeno che non era presente, se non sporadicamente, nelle nostre parrocchie in occasione dei funerali. Questo fenomeno è la cremazione, oggi ammessa anche dalla chiesa, ma verso la quale personalmente ho un atteggiamento di rifiuto.
La ragione avanzata spesso dalle autorità civili è che non c’è spazio nei cimiteri e allora si incoraggia a livello di mentalità la pratica della cremazione per ragioni di pragmatica utilità, che però stridono fortemente con la cultura, la religiosità, la fede di tante persone.
La chiesa non proibisce di cremare il corpo dei defunti, a meno che questa pratica sia scelta per ragioni contrarie alla dottrina cristiana. Insieme, però, raccomanda vivamente che si conservi la consuetudine di seppellire i morti, ricordando che anche Gesù è stato sepolto in attesa della resurrezione e per contrastare l’idea pagana che tutto finisce e che nulla è da aspettarsi dopo la morte. Contrariamente a tutte le religioni che certamente affermano l’immortalità dell’anima, solo la fede cristiana infatti afferma la resurrezione dei corpi che si riuniscono all’anima alla fine del mondo.
Seppellire i morti è anche un’opera di misericordia. Ci ricorda che benché il corpo dopo la morte vada incontro alla decomposizione e alla polvere esso rimane sempre una realtà da rispettare, perché Dio ce l’ha dato come dimora dell’anima in attesa della resurrezione finale. Il rispetto che dobbiamo per il corpo dei morti è significato anche dai vocaboli trovati dai primi cristiani per dare degna sepoltura ai nostri cari.
- “Cimitero” significa infatti dormitorio per ricordare che la morte è un sonno in attesa del risveglio finale.
- “Camposanto” significa luogo consacrato a Dio, un anticipo della dimora eterna del paradiso.
- “Deposizione” è sinonimo di dare in deposito in attesa il corpo sia ripreso alla resurrezione.
Questi termini di uso comune, nel tempo, sono diventati carichi di significati teologici ed hanno contribuito a costruire una identità cristiana originale, lontana da un mondo pagano che bruciava i cadaveri sulle pire infuocate, segno del niente che aspettava l’uomo dopo la morte. Ed anche il seppellire i morti nella terra richiama l’idea evangelica del seme interrato che muore per dare frutto. Come il seme nella terra marcirà e poi germogliando produrrà nuova vita, così il corpo morto, deposto nella terra, con la resurrezione si riunirà all’anima e tornerà ad una vita nuova rigenerata.
Per le ragioni della fede, dunque, io preferisco la inumazione, cioè il seppellimento del corpo. Questa pratica molto umana, risponde anche al desiderio di mantenere un rapporto con i nostri morti. E allora li andiamo a trovare, li salutiamo con una preghiera e manteniamo viva la loro memoria portando un cero o un mazzo di fiori sulla tomba, sapendoli ancora un po’ di tempo lì dietro la loro lapide, piuttosto che ridotti a un vaso di cenere in poche ore. La cremazione, pur permessa dalla chiesa non la apprezzo perché oltre ad essere una risposta utilitaristica a problemi pratici, esprime di più la sfiducia nella promessa di resurrezione e della vita che continua dopo la morte, in una sorta di diffidenza atea verso il credo della chiesa.
Napoleone con le sue leggi anticristiane tentò di imporre la cremazione, ma incontrò una fortissima ostilità popolare che lo fece desistere. Purtroppo fu la massoneria nell’ottocento che lavorando segretamente anche al di dentro della chiesa, indusse ad eliminare le riserve sulla cremazione, e a rinunciare così ad un aspetto importante della originalità cristiana. E furono danni enormi che diedero inizio ad una fase di decadenza e arrendevolezza della chiesa che oggi soprattutto tende a rinunciare a ciò che la distingue per perdersi sempre più in una amalgama indistinta dove trovano spazio tanti modi “personali” di pensare e vivere la fede, non più in sintonia col vero culto all’unico Dio.
Un segno di questa grande religione del mondo è la rinuncia, nella mentalità religiosa di oggi, a precetti particolari quali il magro e il digiuno, il dovere di santificare le feste oggi visto come una scelta più che come un segno distintivo e di coerenza cristiana, il riposo domenicale, la manifestazione anche esterna della fede. Sembra che ci sia quasi una vergogna di mostrare in pubblico ciò che si crede nelle chiese e nelle case. Ed anche il seppellimento dei morti, come coscienza di essere in attesa della resurrezione e della vita eterna, sembra stia per essere superato dalla cremazione. È una manifestazione neanche tanto nascosta, un velato dubbio circa il punto fondamentale della fede cristiana: la resurrezione della carne e la vita eterna.
Confrontandoci con altre fedi tradizionali (Islam, Ebraismo) scopriamo purtroppo che solo la fede cristiana sembra aver orrore della propria storia e della tradizione che l’ha accompagnata per secoli. Si vedano per esempio le condizioni drammatiche delle chiese del nord Europa dove da decenni si è scardinato l’insegnamento di fede e morale della dottrina cristiana, ma dove ora si vendono anche le chiese, si chiudono le parrocchie, si dissolve la fede e la pratica religiosa è ridotta al lumicino.
E non sbaglierò poi tanto se dico che a causare questa miserabile condizione non è estranea ormai quella perdita di identità cattolica che gli stessi vescovi cattolici spesso hanno provocato per adeguarsi alla mentalità del mondo e che ora con smarrimento li fa rimanere impotenti e senza risposte riguardo al futuro.
Don Francesco
Cüntòmela a OSSIMO SUP.
Francesco Girelli
1-11-1930 + 22-4-2017
Giuseppe Pizzamiglio
26-2-1934 + 28-4-2017
(Corsico MI)
Cüntòmela a VILLA di Lozio
Conosciamo bene l'ambiente in cui viviamo in questo nostro tempo, ma cosa sappiamo di tutti gli avvenimenti succedutisi nei tanti secoli passati in questo nostro paese? Un invito a ricordare tra storia e leggenda (seconda parte).
La vittoria dei Comuni italiani a Legnano sull'imperatore Federico Barbarossa segnò nuovamente l'affievolirsi della potenza imperiale. Le libertà comunali e signorili succedutesi favorirono le guerre civili, che allora furono tra guelfi e ghibellini e che nei secoli sarebbero state prima fra nobili e borghesi e poi fra questi e il popolo. C'era bisogno di un po' di pace e di tranquillità: si auspicava cioè un governo forte, che tenesse a freno le fazioni. Così ai consoli si sostituirono i podestà i quali, verso la fine del XIII secolo, circondandosi di potenza sempre maggiore e rimanendo in carica oltre il tempo prestabilito, riuscirono a trasformarsi in veri signori. Questi per formarsi e mantenersi il loro piccolo stato adoperarono le cosiddette milizie mercenarie, prima tedesche e poi italiane.
La Valle Camonica, mancando di un forte centro, non seppe unirsi ed evolversi, e fu ben presto loro vittima. La dominò anzitutto Brescia (1242), ma né pacificamente né totalmente; vi successero gli Scaligeri, poi i Visconti di Milano dal 1337 e gli Sforza. Infine, nel 1427, la repubblica di Venezia. Fra tanto avvicendarsi e battagliare è meraviglioso notare la politica sempre rettilinea dei Nobili di Lozio. Con l'idea di una indipendenza assoluta non furono ossequienti a nessun potere, né secolare, né ecclesiastico. Per cui avversarono e lottarono Brescia e Scaligeri, Visconti e Sforza, vescovo e imperatore.
Nel 1360 dominava in Val Camonica Barnabò Visconti, ma impegnato gravemente da altri comuni ostili, non poté esercitarvi un forte governo. Divamparono così lotte fra guelfi e ghibellini con conseguenti uccisioni, distruzione dei raccolti, incendi di intere borgate, saccheggi e rapine di bestiame. Strano ma vero: verso il 1400 la famiglia Nobili di Lozio, rappresentata da Baroncino figlio di Pietro, appare a capo della fazione guelfa camuna.
I Nobili possedettero anche un forno fusorio per lavorare il ferro proveniente dalla Val di Scalve e si può ipotizzare fosse questo uno dei motivi del loro prestigio all'interno dei guelfi della Valle. In ogni caso la politica viscontea non valse ad evitare che nel 1372-73 i guelfi camuni si alleassero con quelli bergamaschi portando guerra a Barnabò Visconti, al quale uccisero il figlio Ambrogio. Verso la fine del XIV secolo l'attività faziosa di Baroncino Nobili si intensificò nelle file dei guelfi di cui era capo. La continua violenza, i bandi che s'era meritati, il capeggiare sempre nuove imprese di distruzione e il favorevole atteggiamento verso il Malatesta che avanzava in Valle spalleggiato da Venezia a tutto danno dei Visconti, attirarono sul capo di Baroncino l'odio acuto e concentrato dei ghibellini che ordirono una terribile vendetta. L'eccidio avvenne quasi sicuramente nell'inverno del 1410, l'impresa fu condotta dai Federici di Erbanno capeggiati da Giovan Federici e da suo fratello Gerardo abitante nella rocca di Mu (Edolo).
Dato il potente sistema difensivo dei Nobili, con buone probabilità il commando ghibellino penetrò in Val di Lozio dal passo di Mignone. Dopo aver percorso la scorciatoia delle viti, l'attuale strada che porta all'Annunciata, alla Rocca, a Borno, salirono ai prati di Lova e a Mignone: fu una strage, si salvarono solo due giovinetti che erano a Bergamo per gli studi. Nuovo capostipite della dinastia post-eccidio fu Bartolomeo Nobili che prese praticamente il posto del defunto parente Baroncino e col passare del tempo aumentò il prestigio e il valore guerresco della famiglia. La sua fama superò quella dell'antenato Baroncino perché non fu ammazzato, perché resistette all'assedio dei Visconti e anche perché Venezia lo ricompensò e lo celebrò massimamente. Oggi gli eredi della grande famiglia dei Nobili restano Gianmario che abita a Villa e altre due sorelle residenti a Ossimo Inferiore.
Se i Visconti accentuavano le divisioni (divide et impera), la politica di Venezia, al contrario, volle tutti, popolo e feudatari, uguali dinanzi a sé. Queste due realtà, maturità popolare e politica democratica veneziana, minarono lentamente la potenza feudataria dei signori camuni; per cui si dovette riconoscere il potere sovrano di Venezia.
Soppiantato il feudo dal Comune, Lozio viveva da piccola borgata tra i monti, povera per natura e di una vita calma, serena, laboriosa e religiosa. Le gravi scosse che la Val Camonica subirà per il susseguirsi di lotte politiche, quassù giungeranno molto affievolite.
Il secolo XVIII, che è spettatore del tramonto della repubblica di Venezia e dell'avvento dell'impero napoleonico, a Lozio non ha lasciato traccia alcuna dal lato politico. Passato il turbine rivoluzionario fece parte della provincia di Bergamo, nel Regno Lombardo-Veneto, fino al 1859.
Nel 1817 si diffuse una terribile pestilenza che colpì tutta la Val Camonica: Lozio ebbe 48 morti. Tale pestilenza fu detta febbre petecchiale e forse fu causata dalla grande carestia che travagliò la nostra popolazione dal 1815 al 1818, anni durante i quali si macinarono addirittura gusci di noci e “melgazzi” per farne cibo cotto con le erbe. Dopo l'armistizio di Villafranca, il 23 ottobre 1859, la Valcamonica, sopratutto per merito di Zanardelli, fu aggregata definitivamente alla Provincia di Brescia ed entrò a far parte del Regno d'Italia proclamato ufficialmente a Torino il 17 marzo 1861.
Nel 1877 a Lozio venne smantellato il forno fusorio sito in località Resone o Ponte del Ferro, che nelle annate più proficue produceva anche fino a 3000 quintali di ferro. Agli inizi degli anni '80 si verificò un'altra epidemia di colera e nel 1884 il medico Girolamo Tempini di Capodiponte pubblicò un opuscolo su come prevenire il contagio. Le regole fondamentali consistevano nell'evitare lo strapazzo alimentare, soprattutto i cibi di cattiva qualità, le acque impure e i vini guasti, avere pulizia della persona e della casa, procurare agli ambienti molta luce e aria pura, tenere coperto il ventre, evitare l'aria quando si è sudati, non bere acqua fredda a corpo riscaldato.
Scoppiata la prima guerra mondiale o “grande guerra” partirono per il fronte ben 157 soldati loziesi dei quali 25 non fecero ritorno, 8 rimasero mutilati, 4 furono decorati. Non appena iniziato il conflitto il parroco di Villa don Stefano Dò promosse l'istituzione del “Comitato pro Famiglie” dei soldati al fronte caldeggiando la raccolta delle offerte per il sostentamento dei nuclei familiari che avevano perso braccia da lavoro. Alla fine del conflitto i poveri soldati che tornavano dal fronte sovente non trovavano lavoro e dopo qualche tempo erano costretti ad emigrare dai loro paesi.
Gli emigranti loziesi si diressero soprattutto verso la Svizzera, la Francia, il Belgio ma pure verso l'America e L'Australia. La guerra aveva aggravato le problematiche socio-economiche ed aveva aumentato la povertà, la miseria, la disoccupazione e le malattie. Sul finire del conflitto s'abbattè la pandemia influenzale denominata “spagnola! che in Europa falcidiò oltre 20 milioni di vite umane. A Lozio perirono alcune decine di persone.
L'influenza mortale si manifestava con una forte cefalea, febbre alta e complicazioni polmonari o cardiache. Nell'anno 1928 venne costruita la nuova sede comunale a Laveno (quella attuale, che venne poi rimodernata nel 1971) che sostituì la vecchia sede in Piazza San Marco.
Il 29 marzo dello stesso anno la scuola elementare di Villa, guidata dal maestro Arnaldo Canossi, risultò vincitrice sulle 120 scuole lombarde partecipanti, del concorso “La più bella spiga d'Italia”, promosso nell'ambito della “Battaglia del Grano”. La spiga prescelta, coltivata dai ragazzi in un campicello a quota 1020 di altitudine, aveva raggiunto il peso di g. 5,270. Fu premiata con la medaglia d'oro e un compenso in denaro agli alunni.
Nel 1931 ci fu un tentativo di bruciare la sede comunale. In agosto un certo Canossi Girolamo di Sommaprada, soprannominato “podestà”, forse perché svolgeva qualche mansione in municipio, aveva accatastato sul solaio una notevole quantità di carta e legna. In una notte imprecisata appiccò il fuoco e le fiamme devastarono il tetto e il sottotetto. Fortunatamente tutta la documentazione d'archivio non andò persa ma si bagnò solamente in seguito all'opera di spegnimento. Il piromane riparò in Africa dove morì.
Sempre nel 1931 il Comune aderì alla “Federazione Pro Montibus”, un ente pluriassociativo che aveva come scopo lo sviluppo della montagna.
Nella Campagna d'Africa del 1935, detta anche Guerra d'Africa Orientale, parteciparono quattro soldati loziesi, tutti arruolati nella divisione “28 ottobre”, due dei quali di Sucinva, perirono nell'anno 1936.
Dalla seconda metà degli anni trenta, anche gli ammalati di tubercolosi di Lozio potevano contare sui Sanatori di Borno, realizzati in località Croce di Salven.
Tanto i combattenti della prima guerra come quelli della seconda fecero voto di una cappella alla Madonna: l'una dedicata a S. Maria Ausiliatrice, venne ultimata nel 1929 lungo la strada che da Villa porta a Ossimo, appena fuori Sommico; l'altra, dedicata alla vergine di Lourdes, fu realizzata nel 1942 sul sagrato della chiesa di Villa, a “perenne testimonianza del popolo loziese che in un sol cuore alberga e riposa fede e patria”.
F. D’A.
Cüntòmela a VILLA di Lozio
Maria Archetti di Daniel e Francesca Tobia
Alice Archetti di Norman e Paola Tobia
17 aprile 2017
Auguri vivissini a Pierina Guassoldi e Giovanni Tilola
Villa di Lozio 30 aprile 2017
Cüntòmela a VILLA di Lozio
Non è ancora passato un anno quando, il primo ottobre del 2016, in quel di Sommaprada di Lozio abbiamo dato vita a “Bote” una nostra libera interpretazione delle storie tramandate di un tempo neanche troppo lontane, che si raccontavano la sera nelle stalle.
L’evento rientrava in un progetto della comunità montana detto “Palcoscenici Verticali”. “Eh sì! Sui pianerottoli, sulle terrazze, abbiamo cantato serenate in dialetto ad una bella sposina tutta agghindata in abito bianco, mentre lo sposo emozionato era ad accorciare l’unico abito della festa.
Nei cortili e in piazza i bambini giocavano con la palla di stoffa o le costruzioni di legno e le bambine intonavano il girotondo…. Da lontano il padre Pedro richiamava Piero che non tornava ancora dal pascolo e al ritorno si sarebbe ritrovato la “trida so la schiena”. Le comari stavano filando la lana e c’era chi con l’uncinetto faceva i centrini, magari proprio per la sposa solo che Marinella stava a spaventarle con storie di paura. Ma poi toccava a lei lo spavento quando per uno sgarro fatto ad un anziano signore, incominciava a sentire il diavolo che sale gli scalini e “pine, pine me tròare morta”. Suonavano le campane della chiesa e suonavano di gioia: si stava celebrando un altro matrimonio con tutto il paese in festa tra il vociare e i tamburelli mentre i soliti curiosi erano ombre alla finestra.
Questo abbiamo cercato di proporre, vestiti come negli anni 30/40 e addobbando il piccolo ma suggestivo borgo di Sommaprada. La cosa più bella è stata la partecipazione di tutti. Gli attori sono stati tutti i cittadini che con entusiasmo hanno inscenato le lavandaie col secchio al lavatoio, le nonnine che con sapienza ricamavano mentre le aie erano teatro di piccole storie. Tanto ci è piaciuto che anche quest’anno lo ripresentiamo a Villa il 5 agosto alle 20.30.
“Bote e Ribote” aspetta tutti noi per calarci in quel calore umano che il tempo passato aveva come sua caratteristica, tutti assieme in un fienile o in una stalla con la curiosità dei bambini, la semplicità del fare gruppo e il rispetto, mentre il più anziano raccontava storie a lui stesso tramandate. Storie di paura, di mistero, di amicizia dove non importava il tema, ma tra un bicchiere di vino e magari un po’ di formaggio si faceva famiglia. Noi vogliamo ricordare questo in un’ epoca in cui internet fa di tutto e di più e purtroppo si va sostituendo agli incontri, alle cose e ai rapporti tra le persone. Non lasciamo dunque che ciò che è utile e moderno si sostituisca troppo ad un amico e ad una compagnia genuinamente umana.