Parrocchia san Giovanni Battista - Borno

Archivio Cüntómela

cuntomela Pasqua 2020

Pasqua 2020

DIO STA DALLA NOSTRA PARTE!
PASQUA: LASCIAMOCI ILLUMINARE DA GESÙ
MOMENTO STRAORDINARIO DI PREGHIERA IN TEMPO DI EPIDEMIA
IL CORONAVIRUS E LE SUE FRECCE
GIUBILEO STRAORDINARIO DELLE SANTE CROCI
LA MISSIONE POPOLARE: tempo di pazienza, attesa e speranza
LA BIBBIA: I LIBRI STORICI (prima parte)
UN DONO D'AMORE Corso sull'Eucarestia con Padre Cesario
CINQUANT'ANNI DI CONSACRAZIONE
BORNO E LA VISITA DI SAN CARLO BORROMEO
NOI VOGLIAMO ESSERCI Volontarie in Casa Albergo
CHIESETTA DI SANT’ANNA A PALINE “E tetto sia!”
SCUOLA MATERNA DI OSSIMO INFERIORE 1919-2020 cent’anni d’attività
FESTA DI SANT’ANTONIO ABATE Una bella tradizione che unisce e dà frutti
UN PARCO... DA DOVE RICOMINCIARE
CANDELORA: verso la luce, la purezza, la primavera
PER I NONNI DI VILLA MOZART Disegno dei bambini di Lozio
Carnavale a Borno 2020
Carnavale a Lozio 2020
SPERANDO E SOGNANDO L’ESTATE Oratori dell'Altipiano
TOUR DELLA SARDEGNA Dal 26 agosto al 2 settembre 2020
45 ANNI DI MISSIONE Intervista a Padre Giacomo
QUERIDA AMAZONIA L'Esortazione del Papa vista da don Lino
Anniversario di matrimonio
BATTESIMI
Chiamati alla vita eterna
IL CAPITALISMO E IL SACRO Il tabù della gratuità


Foto in copertina

Andrej Rublëv, Cristo Salvatore. Mosca, Galleria statale di Tret'jakov
Andrej Rublëv, monaco della chiesa ortodossa russa e famoso pittore vissuto a cavallo tra il XIV e il XV secolo, dipinse questa splendida icona verosimilmente tra il 1410 e il 1420. Venne ritrovata solo alla fine dell’Ottocento, capovolta, immersa in un terreno umido come asse di passaggio per accedere a una stalla. Si racconta che Cristo stesso abbia rivelato a Rublëv come dipingerlo, mostrandogli il volto del Salvatore, a seguito dello sconvolgimento che lo segnò dopo aver assistito, inerme, all’irruzione di un gruppo di Tartari nel suo villaggio dove seminarono terrore e sgomento. Andrej rimase talmente sconvolto di fronte a tutto quel dolore che non dipinse più per lungo tempo.
Nell’icona ritroviamo la traccia eterna del volto di Cristo, dipinta a fuoco sul legno antico: un volto maestoso e grave dagli occhi penetranti, dove pare che s’infrangano gli affanni, i dubbi, e tutto il dolore dell’uomo. Ogni cosa è assorbita e confinata su quel volto, che scavalca la porta del tempo. (fonte: varie dalla rete)



PAROLA DEL PARROCO

DIO STA DALLA NOSTRA PARTE!

ressurezione

Carissimi,
in questo secondo anno in mezzo a voi pensavo di raccontarvi, nel numero pasquale di Cüntomela, della bellezza del vivere insieme la profonda devozione che nutrite da sempre nel celebrare il Triduo dei morti; immaginavo di testimoniarvi del tempo di missione nelle parrocchie di Lozio; accarezzavo l’idea di farvi partecipi dei lavori nella chiesa parrocchiale di Borno e dei tanti progetti, iniziative e idee che avevo in mente. E invece, mi trovo a fare i conti con una Quaresima che è stata molto diversa da come l'avevamo pensata e programmata nei vari consigli Pastorali e assemblee parrocchiali.

La "Machina" del Triduo di Borno è rimasta spenta e troneggia ancora adesso in tutta la sua magnificenza, quasi come un tacito monito, in una chiesa che da diverse settimane è, sì rimasta aperta come segno della vicinanza di Dio alla nostra vita, ma chiusa all’accoglienza dell’assemblea che si riunisce a pregare. Ogni attività è sospesa. Le nostre piazze e borghi sono vuoti, ligi all’appello e all’invito forte di restare a casa. Una situazione che sembrava transitoria e di pochi giorni, ma che via via si è fatta più lunga nel tempo e più dura nelle restrizioni.

don Paolo

In questi giorni in cui mi trovo a celebrare la santa Messa da solo in s. Antonio – come soli sono gli altri sacerdoti e i frati del convento dell’Annunciata che mi aiutano in questo servizio nelle tre messe quotidiane che offriamo alle nostre comunità – sento ancora di più il compito di rappresentare e presentare la comunità tutta al Signore. Anche se le celebrazioni sono a porte chiuse, la trasmissione via radio e in streaming ci permette una partecipazione virtuale. Ma quella spirituale, che sento profondamente, supera di gran lunga ogni mezzo di comunicazione ed è una gran consolazione! E il mio pensiero va agli ammalati negli ospedali, nelle case di riposo, dove a sofferenza si aggiunge altra sofferenza, a motivo della lontananza forzata dai famigliari; va agli infermieri e al personale sanitario che lavorano in condizioni di estrema difficoltà, troppo spesso inermi davanti a questa immane sofferenza, ma che non fanno mai mancare cura e attenzioni anche a rischio della propria salute. In queste settimane ho accompagnato nell’ultimo viaggio da questo mondo al Padre, diversi parrocchiani celebrando con il solo rito delle esequie e soltanto al cimitero o in casa, alla sola presenza dei parenti più stretti, senza poter nemmeno dare non dico un abbraccio, ma neppure una stretta di mano... Solo gli sguardi che si incrociavano sui volti semicoperti da mascherine bianche, si parlavano e trasmettevano tutto il dolore del dramma della morte di una persona cara e la tristezza di non poter lenire tanta sofferenza con il calore della condivisione e della vicinanza degli amici e del proprio paese riunito per l’ultimo saluto.

In questa situazione, che non so davvero come definire, tanto lontana da qualsiasi più oscura e tragica realtà che mai avessimo potuto immaginare, vorrei condividere con voi tre parole: fragilità, coraggio, speranza.

La fragilità - In questi giorni abbiamo fatto esperienza di quanto l’uomo sia debole. Le grandi conquiste in ogni ambito della scienza e della tecnica ci hanno fatto credere di essere invincibili, ma un virus invisibile ha piegato la nostra società e scardinato tutte le nostre certezze. Siamo ricorsi al più antico dei metodi per contrastarlo: cerchiamo di rimanere lontano l’uno dall’altro e aspettiamo che passi il contagio. Non abbiamo mezzi diversi per vincere contro questo virus, non vaccini, non antibiotici, non antidoti... E allora, constatare la nostra fragilità e farne esperienza, ci deve portare a ricordarci che non possiamo tutto, che siamo limitati. Anche la nostra libertà, non è e non deve essere assoluta come se fosse un libero arbitro illimitato. Oggi come non mai anche la nostra millantata libertà deve essere ammantata di responsabilità e di attenzione, soprattutto verso i più deboli.

Il coraggio - L’essere fragili non ci deve quindi far ripiegare su noi stessi, anzi! Ci deve far trovare il coraggio e la forza per rialzarci e darci da fare. Quanti gesti di dedizione agli altri, di solidarietà, di impegno generoso da parte di tanti, bell’esempio di dono di sé, di vera ricchezza stiamo vedendo in questi giorni! Non è sicuramente quando pensiamo di essere invincibili che siamo autenticamente umani, ma quando riconosciamo la nostra fragilità e con coraggio facciamo tutto quello che possiamo senza stancarci e con autentico dono. Riconosciamo di poter fare poco, è vero. Vorremmo fare di più, è vero. Ma quel poco continuiamo a farlo con spirito di condivisione e amore: porterà bontà, amore e speranza.

La speranza - Parola abusata. In realtà, virtù teologale – cioè che fa riferimento a Dio – insieme alla fede e alla carità. In questi giorni di grande difficoltà, dove è facile lasciarsi prendere dallo sconforto, proviamo a guardare a Dio, proviamo ad ascoltare la sua parola! Il suo invito alla conversione del tempo di Quaresima che abbiamo vissuto è un invito a migliorarci, ad essere degli uomini e delle donne più forti, più aperti agli altri. Il ricordarci che siamo polvere non è una minaccia, ma un invito a vivere le cose della vita con il giusto distacco e a dare valore a ciò che davvero conta: l’amarsi gli uni gli altri. Contro questa certezza, non c’è virus che tenga! Non siamo soli e allo sbaraglio in mezzo al mare in tempesta, perché siamo figli amati e sostenuti. Lui ci dà speranza e ci indica la strada: Dio sta dalla nostra parte! Ci si presenta crocifisso per ricordarci quanto grande è il suo amore per noi e quindi ci esorta a non temere.

Carissimi, non so quando la morsa di questo virus ci lascerà riprendere una vita “normale”, quando potremo riprendere a incontrarci e a fare insieme. Questo non sia però un tempo da cancellare o da dimenticare, piuttosto ci aiuti a crescere nel bene riconoscendo il nostro limite umano, trovando il coraggio di dare il meglio di noi stessi e rafforzando la nostra speranza in Dio che ci abbraccia, che ci consola e ci dà sempre la possibilità di ricominciare.

Che sia una Santa Pasqua da cui trarre la speranza viva che Gesù è risorto e ci è accanto. Sempre!

Vostro don Paolo


PREGHIERA

PER LA COMUNIONE SPIRITUALE

Gesù mio,
io credo che sei realmente presente
nel Santissimo Sacramento.
Ti amo sopra ogni cosa
e ti desidero nell' anima mia.
Poiché ora non posso riceverti
sacramentalmente,
vieni almeno spiritualmente
nel mio cuore.
Come già venuto,
io ti abbraccio e tutto mi unisco a te;
non permettere che mi abbia mai
a separare da te.
Eterno Padre, io ti offro
il Sangue Preziosissimo di Gesù Cristo
in sconto dei miei peccati,
in suffragio delle anime del purgatorio
e per i bisogni della Santa Chiesa.



PER RIFLETTERE

PASQUA: LASCIAMOCI ILLUMINARE DA GESÙ

annunciata Piancogno

Pace a voi care sorelle e fratelli,

stiamo avvicinandoci alla Pasqua cristiana: il ricordo, il rivivere il cammino di Gesù Cristo che dalla croce passa alla resurrezione. In ogni frangente difficile e doloroso la Pasqua di Cristo ci illumina, ci dà sollievo, dà un senso al nostro vivere e morire… ed anche soffrire.

Certo, personalmente, non vivo con grande entusiasmo il triduo pasquale in quanto è ripresentazione di un evento doloroso che avrei preferito non esistesse. Come preferirei non esistesse più nel mondo l’esperienza del dolore e della morte.

Ma Dio ha scelto questa via e lui stesso l’ha voluta vivere.

Quello che possiamo fare è lasciarci illuminare dalla vita di Gesù, dalle sue parole, dai suoi atteggiamenti, dalla sua passione, dalla sua risurrezione. Chiedendo a Dio di darci forza interiore per sopportare il suo dolore, il nostro dolore e il dolore dell’umanità.

“Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto” disse un giorno Gesù. Non comprendiamo appieno queste parole di Gesù; cioè le comprendiamo ma ci è difficile applicarle alla nostra vita umana. Avrei preferito che questo passaggio fosse evitato… un po’ come Pietro quando cercò di dissuadere Gesù dal suo cammino verso la Pasqua.

Chiediamo al Padre la grazia di fare nostra la sua scelta, di essere interiormente illuminati così da vedere in ogni dolore e in ogni fatica l’aspetto glorioso che vi è in essi, la luce della Pasqua, la riuscita della Pasqua, la necessità della Pasqua: Pasqua dovrebbe essere tradotto con Passaggio.

In questo possono molto illuminarci la conoscenza della vita e delle esperienze dei santi.

“La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché è venuta la sua ora; ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza, per la gioia che è venuto al mondo un uomo. Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Vangelo di Giovanni 16,21-22).

La gioia di Gesù inondi la nostra vita e la renda bella, piena di Lui, ricca del Suo ottimismo. Mostri a noi quel bel ricamo che Lui sta intessendo con noi e di cui spesso noi vediamo maggiormente il rovescio.

Buona e Santa Pasqua a voi tutti.

Padre Piero
convento dell'Annunciata



PER RIFLETTERE

MOMENTO STRAORDINARIO DI PREGHIERA IN TEMPO DI EPIDEMIA

Riportiamo le parole pronunciate da Papa Francesco durante il momento di preghiera sul sagrato della Basilica di San Pietro venerdì 27 marzo 2020

Gesù tempesta

«Venuta la sera» (Mc 4,35). Così inizia il Vangelo che abbiamo ascoltato. Da settimane sembra che sia scesa la sera. Fitte tenebre si sono addensate sulle nostre piazze, strade e città; si sono impadronite delle nostre vite riempiendo tutto di un silenzio assordante e di un vuoto desolante, che paralizza ogni cosa al suo passaggio: si sente nell’aria, si avverte nei gesti, lo dicono gli sguardi. Ci siamo trovati impauriti e smarriti. Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Su questa barca… ci siamo tutti. Come quei discepoli, che parlano a una sola voce e nell’angoscia dicono: «Siamo perduti» (v. 38), così anche noi ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme.

È facile ritrovarci in questo racconto. Quello che risulta difficile è capire l’atteggiamento di Gesù. Mentre i discepoli sono naturalmente allarmati e disperati, Egli sta a poppa, proprio nella parte della barca che per prima va a fondo. E che cosa fa? Nonostante il trambusto, dorme sereno, fiducioso nel Padre – è l’unica volta in cui nel Vangelo vediamo Gesù che dorme –. Quando poi viene svegliato, dopo aver calmato il vento e le acque, si rivolge ai discepoli in tono di rimprovero: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v. 40).

piazza san pietro

Cerchiamo di comprendere. In che cosa consiste la mancanza di fede dei discepoli, che si contrappone alla fiducia di Gesù? Essi non avevano smesso di credere in Lui, infatti lo invocano. Ma vediamo come lo invocano: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (v. 38). Non t’importa: pensano che Gesù si disinteressi di loro, che non si curi di loro. Tra di noi, nelle nostre famiglie, una delle cose che fa più male è quando ci sentiamo dire: “Non t’importa di me?”. È una frase che ferisce e scatena tempeste nel cuore. Avrà scosso anche Gesù. Perché a nessuno più che a Lui importa di noi. Infatti, una volta invocato, salva i suoi discepoli sfiduciati.

La tempesta smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità. Ci dimostra come abbiamo lasciato addormentato e abbandonato ciò che alimenta, sostiene e dà forza alla nostra vita e alla nostra comunità. La tempesta pone allo scoperto tutti i propositi di “imballare” e dimenticare ciò che ha nutrito l’anima dei nostri popoli; tutti quei tentativi di anestetizzare con abitudini apparentemente “salvatrici”, incapaci di fare appello alle nostre radici e di evocare la memoria dei nostri anziani, privandoci così dell’immunità necessaria per far fronte all’avversità.

Con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego” sempre preoccupati della propria immagine; ed è rimasta scoperta, ancora una volta, quella (benedetta) appartenenza comune alla quale non possiamo sottrarci: l’appartenenza come fratelli.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, la tua Parola stasera ci colpisce e ci riguarda, tutti. In questo nostro mondo, che Tu ami più di noi, siamo andati avanti a tutta velocità, sentendoci forti e capaci in tutto. Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri, e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato. Ora, mentre stiamo in mare agitato, ti imploriamo: “Svegliati Signore!”.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Signore, ci rivolgi un appello, un appello alla fede. Che non è tanto credere che Tu esista, ma venire a Te e fidarsi di Te. In questa Quaresima risuona il tuo appello urgente: “Convertitevi”, «ritornate a me con tutto il cuore» (Gl 2,12). Ci chiami a cogliere questo tempo di prova come un tempo di scelta. Non è il tempo del tuo giudizio, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è. È il tempo di reimpostare la rotta della vita verso di Te, Signore, e verso gli altri. E possiamo guardare a tanti compagni di viaggio esemplari, che, nella paura, hanno reagito donando la propria vita. È la forza operante dello Spirito riversata e plasmata in coraggiose e generose dedizioni. È la vita dello Spirito capace di riscattare, di valorizzare e di mostrare come le nostre vite sono tessute e sostenute da persone comuni – solitamente dimenticate – che non compaiono nei titoli dei giornali e delle riviste né nelle grandi passerelle dell’ultimo show ma, senza dubbio, stanno scrivendo oggi gli avvenimenti decisivi della nostra storia: medici, infermiere e infermieri, addetti dei supermercati, addetti alle pulizie, badanti, trasportatori, forze dell’ordine, volontari, sacerdoti, religiose e tanti ma tanti altri che hanno compreso che nessuno si salva da solo. Davanti alla sofferenza, dove si misura il vero sviluppo dei nostri popoli, scopriamo e sperimentiamo la preghiera sacerdotale di Gesù: «che tutti siano una cosa sola» (Gv 17,21). Quanta gente esercita ogni giorno pazienza e infonde speranza, avendo cura di non seminare panico ma corresponsabilità. Quanti padri, madri, nonni e nonne, insegnanti mostrano ai nostri bambini, con gesti piccoli e quotidiani, come affrontare e attraversare una crisi riadattando abitudini, alzando gli sguardi e stimolando la preghiera. Quante persone pregano, offrono e intercedono per il bene di tutti. La preghiera e il servizio silenzioso: sono le nostre armi vincenti.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». L’inizio della fede è saperci bisognosi di salvezza. Non siamo autosufficienti, da soli; da soli affondiamo: abbiamo bisogno del Signore come gli antichi naviganti delle stelle. Invitiamo Gesù nelle barche delle nostre vite. Consegniamogli le nostre paure, perché Lui le vinca. Come i discepoli sperimenteremo che, con Lui a bordo, non si fa naufragio. Perché questa è la forza di Dio: volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte. Egli porta il sereno nelle nostre tempeste, perché con Dio la vita non muore mai.

Il Signore ci interpella e, in mezzo alla nostra tempesta, ci invita a risvegliare e attivare la solidarietà e la speranza capaci di dare solidità, sostegno e significato a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Il Signore si risveglia per risvegliare e ravvivare la nostra fede pasquale. Abbiamo un’ancora: nella sua croce siamo stati salvati. Abbiamo un timone: nella sua croce siamo stati riscattati. Abbiamo una speranza: nella sua croce siamo stati risanati e abbracciati affinché niente e nessuno ci separi dal suo amore redentore. In mezzo all’isolamento nel quale stiamo patendo la mancanza degli affetti e degli incontri, sperimentando la mancanza di tante cose, ascoltiamo ancora una volta l’annuncio che ci salva: è risorto e vive accanto a noi. Il Signore ci interpella dalla sua croce a ritrovare la vita che ci attende, a guardare verso coloro che ci reclamano, a rafforzare, riconoscere e incentivare la grazia che ci abita. Non spegniamo la fiammella smorta (cfr Is 42,3), che mai si ammala, e lasciamo che riaccenda la speranza.

Abbracciare la sua croce significa trovare il coraggio di abbracciare tutte le contrarietà del tempo presente, abbandonando per un momento il nostro affanno di onnipotenza e di possesso per dare spazio alla creatività che solo lo Spirito è capace di suscitare. Significa trovare il coraggio di aprire spazi dove tutti possano sentirsi chiamati e permettere nuove forme di ospitalità, di fraternità, di solidarietà. Nella sua croce siamo stati salvati per accogliere la speranza e lasciare che sia essa a rafforzare e sostenere tutte le misure e le strade possibili che ci possono aiutare a custodirci e custodire. Abbracciare il Signore per abbracciare la speranza: ecco la forza della fede, che libera dalla paura e dà speranza.

«Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Cari fratelli e sorelle, da questo luogo, che racconta la fede rocciosa di Pietro, stasera vorrei affidarvi tutti al Signore, per l’intercessione della Madonna, salute del suo popolo, stella del mare in tempesta. Da questo colonnato che abbraccia Roma e il mondo scenda su di voi, come un abbraccio consolante, la benedizione di Dio. Signore, benedici il mondo, dona salute ai corpi e conforto ai cuori. Ci chiedi di non avere paura. Ma la nostra fede è debole e siamo timorosi. Però Tu, Signore, non lasciarci in balia della tempesta. Ripeti ancora: «Voi non abbiate paura» (Mt 28,5). E noi, insieme a Pietro, “gettiamo in Te ogni preoccupazione, perché Tu hai cura di noi” (cfr 1 Pt 5,7).


SUPPLICA A SAN PAOLO VI NEL TEMPO DELL'EPIDEMIA

Ci rivolgiamo a te, san Paolo VI,
nostro amato fratello nella fede,
pastore della Chiesa universale
e figlio della nostra terra bresciana.
Ti presentiamo la nostra supplica,
in questo momento di pena e dolore.
Sii nostro intercessore
presso il Padre della misericordia
e invoca per noi la fine di questa prova.
Tu che hai sempre guardato al mondo
con affetto,
tu che hai difeso la vita
e ne hai cantato la bellezza,
tu che hai provato lo strazio
per la morte di persone care,
sii a noi vicino con il tuo cuore mite
e gentile.
Prega per noi,
vieni incontro alla nostra debolezza,
allarga le tue braccia,
come spesso facesti
quando eri tra noi,
proteggi il popolo
di questa terra
che tanto ti fu cara.
Sostienici nella lotta,
tieni viva
la nostra speranza,
presenta al Signore della gloria
la nostra umile preghiera,
perché possiamo presto tornare
ad elevare con gioia il nostro canto
e proclamare la lode del nostro Salvatore.
Egli vive e regna nei secoli dei secoli.

Amen

+ Pierantonio vescovo



PER RIFLETTERE

IL CORONAVIRUS E LE SUE FRECCE

papa madonna

Il coronavirus non ha risparmiato con le sue frecce micidiali un paese di montagna tranquillo come Borno. La situazione è ovunque tristissima. Purtroppo ci troviamo di fronte ad una situazione di allarme mondiale. Questa inattesa e drammatica situazione creata dalla pandemia del coronavirus ha cambiato d’improvviso la vita di tutti: dobbiamo restare in casa; non possiamo stare fisicamente vicini ai nostri cari ammalati di coronavirus; dobbiamo seppellire i nostri morti in un modo che ci ferisce. È una pena immensa dover seppellire i propri cari senza poterli salutare con i consueti gesti di affetto e circondati dagli amici.

L’umanità, orgogliosa dei mirabili progressi fatti in questi anni dalla scienza e dalla tecnica, si trova estremamente vulnerabile. Tante false certezze sono crollate in questi giorni.

Questa drammatica situazione ci ricorda che siamo nelle mani di Dio e ci porta a riflettere su quale posto Dio ha nei nostri pensieri e nei nostri cuori. Ci induce anche a mettere un po’ di ordine nella nostra vita.

Avvertiamo fortemente il bisogno che la mano di Dio ci venga in aiuto. Il dramma che stiamo vivendo non deve chiuderci nell’ansia e nell’angoscia, che distruggono l’equilibrio. Dobbiamo cercare la forza che ci viene dalla fede e vivere questo momento doloroso nella speranza, che aiuta ad andare avanti con fiducia; soprattutto dobbiamo con la preghiera in famiglia rivolgerci a Dio, perché senza di Lui non ce la faremo. E l’impossibilità di andare nelle chiese deve farci scoprire il valore della preghiera in famiglia, piccola chiesa domestica. Ciò gioverà a rafforzare anche gli affetti familiari ed a dedicare tempo e cuore ai figli ed ai parenti.

Quali preghiere? Direi di ricorrere alle solite preghiere del buon cristiano e al rosario. Suggerirei di unirsi alla bellissima iniziativa del Vescovo di Brescia che ogni sera recita il rosario alle 20,30, trasmesso via Facebook. Inoltre seguire la Messa alla TV. Bella è anche la seguente breve preghiera, che è la più antica in onore della Madonna e che è giunta a noi dal II secolo su papiro egiziano in lingua greca. Ecco il testo:

“Sotto la tua protezione
cerchiamo rifugio
Santa Madre di Dio.
Non disprezzare le suppliche di noi
che siamo nella prova
e liberaci da ogni pericolo,
o Vergine gloriosa e benedetta”.

È questa la preghiera che anche Papa Francesco ha recitato qualche giorno fa.

Fortunatamente in questi giorni stiamo assistendo a meravigliosi gesti di solidarietà e di umanità, che suscitano vivo apprezzamento. Dobbiamo essere grati a quanti sono in prima linea: medici, operatori sanitari, volontari e alpini che si stanno prodigando con una generosità che merita infinita gratitudine non solo per gli sforzi faticosi, ma anche perché fanno tutto quanto umanamente è possibile, nonostante i rischi a cui si espongono.

Dobbiamo essere grati e anche pregare per i medici, infermiere, infermieri, operatori sanitari e volontari; dobbiamo in particolare affidare a Dio quanti sono morti per assistere i malati; e dobbiamo chiedere al Signore di illuminare e assistere le Autorità, che hanno preso con grande serietà la questione, ma che si trovano di fronte a qualche cosa che va al di là delle intelligenze e delle possibilità umane.

Dobbiamo pregare anche per gli uomini di scienza, ora impegnati nelle ricerche per trovare i rimedi per vincere il coronavirus. Al riguardo dobbiamo avere speranza. La storia del mondo dimostra che l’uomo e la donna, quando applicano tutte le loro capacità, possono trovare le soluzioni giuste alle necessità.

Le Grandi Potenze poi devono convincersi della necessità di spostare le loro risorse economiche e tecnologiche dal settore delle ricerche nucleari con scopo bellico (con sempre più potenti armi di distruzione) al settore sanitario e precisamente al campo dei virus. Questo è importante e indilazionabile.

Quindi, non angoscia, ma pazienza (e ce ne vuole tanta), fiducia, speranza e soprattutto preghiera, cercando rifugio sotto la protezione della Madonna.

Card. Giovanni Battista Re



PER RIFLETTERE

GIUBILEO STRAORDINARIO DELLE SANTE CROCI

Venerdì 28 febbraio è stato aperto un Giubileo straordinario. Vi proponiamo ampi stralci dell'omelia pronunciata in Duomo Vecchio dal vescovo Pierantonio Tremolada e la preghiera che accompagnerà questo tempo di grazia per tutta la diocesi di Brescia e quindi anche per le nostre comunità.

giubileo sante croci

Profondamente grati al Signore per il dono fatto alla nostra Chiesa, apriamo solennemente questo Giubileo straordinario delle Sante Croci, che viene istituito in occasione del quinto centenario di fondazione della Compagnia che custodisce le sacre reliquie. Da secoli nel nostro Duomo Vecchio si trova un vero e proprio tesoro, che in questi giorni sarà esposto alla contemplazione e alla preghiera di tutti i fedeli. Circondato dal materiale prezioso, l’oro e l’argento, che l’arte di grandi maestri ha forgiato, il legno della santa croce – un suo frammento – è questo tesoro, riposto segretamente e gelosamente nel cuore della nostra Chiesa bresciana.

Il tempo che si apre, i giorni, i mesi che ci stanno davanti saranno l’occasione per fissare lo sguardo sul grande segno della redenzione universale, sorgente della benedizione perenne di Dio per l’umanità. […]

Le limitazioni imposte dall’esigenza di contenere gli effetti di un’infezione virale tanto seria quanto sorprendente, non hanno consentito a molti che avrebbero voluto partecipare di essere presenti. Tutto questo non ci impedisce, tuttavia, di sentirci uniti e concordi. Forse, anzi, ci spinge di esserlo ancora di più. […] Voglia il Signore che già da questo inizio possa trarre giovamento la nostra comunità diocesana, ma anche l’intera nostra regione, così provate in questo momento di particolare apprensione.

“Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” – scrive l’apostolo Giovanni a conclusione del suo racconto della passione di Gesù, citando il profeta Zaccaria. L’abbiamo sentito proclamare nel brano di Vangelo di questa liturgia. Noi vogliamo essere tra coloro che raccolgono questo invito. Vogliamo “volgere lo sguardo” per contemplare colui che è stato trafitto e sentirci noi pure trafitti interiormente. Lo scenario struggente del calvario non lascia mai indifferente chi vi si accosta con animo sensibile. La misura dell’amore di Dio per l’umanità, che nella croce di Cristo raggiunge la sua piena evidenza, ha un effetto travolgente su ogni onesta coscienza. […]

Non c’è infatti amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici. […] Come ci ricorda sempre san Paolo nella Lettera ai Filippesi: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2,5). Fino a questo punto è giunto il nostro redentore.

Chi potrà dunque contrastare un amore la cui misura è immensa quanto la sua potenza? Chi o che cosa gli potrà mai resistere? Questo amore realmente divino è infatti l’energia di bene che ha dato vita all’universo, che ha fatto esistere l’umanità e che ogni giorno la custodisce; è misericordia rigenerante che scaturisce dall’intimo della Trinità santa. […]

Il Cristo crocifisso è il Signore della gloria, il servo di Dio che è divenuto intercessore a favore dei suoi fratelli. Lui stesso aveva dichiarato ai suoi discepoli e alle folle: “Quando sarò innalzato da terra, io attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Lui, inchiodato sulla croce e ormai in agonia, aveva promesso al ladrone che al suo fianco lo supplicava: “Oggi con me sarai nel Paradiso” (Lc 23, 43).

Davvero la croce di Cristo è la sorgente della nostra salvezza. […] Con la croce del Signore il cielo e la terra si sono uniti per sempre. Anche in questo la croce è divenuta segno: il suo braccio verticale e il suo braccio orizzontale richiamano la duplice dimensione dell’esistenza umana, con le sue essenziali caratteristiche dell’altezza e della profondità, della lunghezza e della larghezza. Il Cristo salvatore è innalzato tra cielo e terra e muore con le braccia aperte: egli stringe l’umanità in un abbraccio universale, la riunisce dagli estremi della terra, e insieme la eleva con sé verso l’alto, mostrandogli nel contempo la sua nobile profondità. La croce innalzata sul calvario è in realtà piantata al centro della terra e nel cuore della storia. Essa richiama l’evento che ha dischiuso la grande rivelazione e ha alzato il sipario sullo scenario enigmatico della storia. […]

La storia tutta intera trae la sua luce e quindi il suo senso ultimo dal segno che ricorda l’amore sacrificale del Figlio del Dio vivente. Una simile conoscenza desiderava l’apostolo Paolo per i suoi amati fratelli delle comunità cristiane; nella lettera agli Efesini egli scrive: “[...] Che il Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori, e così, radicati e fondati nella carità, siate in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e di conoscere l’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, perché siate ricolmi di tutta la pienezza di Dio” (Ef 3,14-19).

È quanto vorrei chiedere anch’io per tutti noi, per la nostra amata Chiesa di Brescia, che entra nel tempo di grazia di questo Giubileo straordinario. Tenendo fisso lo sguardo sul Cristo redentore, vittima di pace e sacerdote della Nuova Alleanza, e lasciandoci ispirare dallo Spirito santo che illumina le menti e i cuori, potremo scoprire sempre più il tesoro custodito nel mistero della croce.

a cura della redazione


PREGHIERA

O croce santa,
che fosti degna di portare il nostro Redentore,
albero della vita eterna a noi restituita in dono;
sii tu benedetta per la salvezza che da te è scaturita.
O croce beata,
segno perenne della misericordia di Dio per noi,
testimonianza viva di un Cuore palpitante d’amore;
sii tu benedetta per la rivelazione
che in te si è compiuta.
O Croce gloriosa,
vero altare del sacrificio di Cristo,
trofeo di vittoria che ci ha aperto la via del cielo;
sii tu benedetta per il regno che con te si è inaugurato
O croce amabile,
termine fisso del nostro sguardo adorante,
sorgente viva di una luce che trafigge il cuore;
sii tu benedetta per la grazia che da te si è irradiata.
In te, o croce benedetta, noi ci vantiamo,
per te noi speriamo,
alla tua ombra sostiamo,
sotto le tue insegne lottiamo.
A colui che su di te ha steso le braccia per amore,
all’Agnello di Dio mite e vittorioso,
che morendo ci ha resi suoi per sempre,
eleviamo con umile cuore
la nostra lode grata e perenne.
A lui sia gloria nei secoli dei secoli.
Amen



MISSIONE POPOLARE

LA MISSIONE POPOLARE: tempo di pazienza, attesa e speranza


La carità è paziente,
è benigna la carità;
non è invidiosa la carità,
non si vanta,
non si gonfia,
non manca di rispetto,
non cerca il suo interesse,
non si adira,
non tiene conto del male ricevuto,
non gode dell'ingiustizia,
ma si compiace della verità.
Tutto copre,
tutto crede,
tutto spera,
tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine.
(1Cor 13,4-8)

Carissimi don Paolo e don Mauro,
carissimi Amici delle Parrocchie
di Borno, Ossimo e Lozio,
eravamo pronti per iniziare insieme, sabato, 28 marzo, la Missione popolare nelle vostre due comunità parrocchiali di Lozio. Sì, credo proprio che tutti eravamo lanciati e “sprintosi” per vivere l’esperienza della Missione popolare in questa Quaresima che, ancora una volta, ci provoca a rimettere al centro la bellezza della nostra fede cristiana. Eravamo pronti, ma l’imprevisto, davvero serio, della pandemia per coronavirus ha modificato i programmi e messo in standby l’evento, nonché le nostre aspettative.

Quale riflessione consegnarci per custodire il cammino di preparazione fin qui fatto e non dissipare i gioiosi sentimenti di attesa che la Missione popolare ha posto nell’animo di tutti noi?

logo missione popolare

Come prima cosa, possiamo consegnarci l’atteggiamento biblico della pazienza. La carità, ci dice san Paolo nel bellissimo inno all’amore, è innanzitutto un’esperienza di pazienza. Il cristiano, segnato dall’amore, non si perde d’animo di fronte agli imprevisti della vita; non si scompone se i progetti, anche quelli dal marchio ecclesiale e pastorale, sono da rinviare e, magari, anche da rimodellare. Chiamati alla pazienza – segno della maturità della fede di una comunità – perché, forse, il Signore ci vuole più consapevoli del dono che vuole offrirci, venendoci incontro con l’azione straordinaria della Missione popolare. Infatti, prima della pastorale missionaria, prima della nostra preoccupazione nel mettere in atto l’azione evangelica dell’ascolto della Parola e della sua predicazione, il Signore ci chiede di avere una coscienza missionaria, ossia una profonda consapevolezza dell’unicità del mistero umano-divino racchiuso nella vicenda storica di Gesù di Nazareth e della compromissione di questo mistero con l’esistenza di ciascuno di noi, segnati dalla precarietà e dalla necessità di una salvezza, intesa come evento di liberazione dal male e, in ultimo, dalla morte. Coscienza missionaria che apre a quella che, il Card. Carlo Martini, chiamava la “vita missionaria o missione esistenziale”; ossia, quella vita che possiede e sa esprimere un “nuovo stile di vita personale e comunitaria dalla piena appartenenza a Cristo (…), prima e fondamentale forma di testimonianza missionaria” (Lettera Pastorale “Partenza da Emmaus”, 1983-‘84).

Amici, può sembrare un discorso complesso, ma in realtà ci fa toccare con mano la verità della vita cristiana: prima di metterci con la Missione popolare a ri-ascoltare il vangelo della salvezza, come credenti – anche a nome di quanti sono battezzati, ma indifferenti o distanti dalla fede – dobbiamo sentire la chiamata a mettere la vita sotto il primato di Dio e del suo amore, nonostante le nostre fatiche e incoerenze nella fedeltà alle esigenze del vangelo. Rimettere al centro l’esperienza religiosa per sperimentare la capacità che possiede la fede cristiana di dare senso alla vita umana, di rispondere agli interrogativi angosciosi di ognuno di noi circa il nostro destino, il nostro oscillare tra il bene e il male, il soffrire e il nostro donarci agli altri, sentendoci compagni di viaggio di ogni prossimo.

Dunque la Missione popolare, in questo momento particolare e drammatico per il mondo, ci chiede pazienza. Pazienza che può (deve) diventare un’esperienza positiva di “attesa”. Diceva il famoso gesuita Teihard de Chardin che, nell’esperienza credente, “il cristiano è essenzialmente colui che attende”.

Domandiamoci: ma i cristiani, oggi, vivono “in un orizzonte di attesa”, avendo un’aspirazione di compimento per la loro vita alla luce del Risorto? E noi chi attendiamo? Cosa ci aspettiamo dalla vita, da questa vita che diciamo di voler vivere da cristiani? In sintesi, che cosa regge l’urto del tempo, di questo tempo che tutto, pare, rende precario, anche mettendo in forse un progetto bello come quello di una Missione popolare?

Al di là delle nostre risposte, il rinvio della Missione popolare diventa occasione non solo per vivere nella pazienza evangelica la nostra fragile fede, ma anche per sentirci educati a fare l’esperienza gioiosa di un’attesa piena dell’amore del Signore Risorto. Attesa come certezza che il Signore “non ci molla mai”, come fiducia nella Provvidenza, come abbandono di sé stessi alla bontà e misericordia di Dio. Realtà queste che ci permettono di vincere le nostre inclinazioni all’egoismo, alla presunzione di cavarcela da soli nella vita di ogni giorno, ad atteggiamenti arroganti e volgari che nuocciono alla convivenza fraterna e solidale.

Tempo di pazienza e di attesa, che non può non conciliarsi con l’esperienza della speranza. Il rinvio della missione lo vogliamo avvertire come un’occasione unica per lasciarci abitare dalla speranza. Cioè? Avvertire nell’anima che il Risorto ci accompagna e ci abita, ci precede e ci attende, comunque. Come diceva lo scrittore Charles Péguy, la speranza è la virtù bambina che tiene per mano la fede e la carità. Sì, Amici, è la speranza che illumina e rallegra la fede, che altrimenti resterebbe travolta dalle nostre tante resistenze e dai nostri ripetuti dubbi; è la speranza che sostiene e accresce la nostra carità, assicurandole che niente si perderà di ciò che viviamo e condividiamo nell’amore e per il bene degli altri.

Ha scritto il teologo Heinrich Schlier: “Siamo abituati a definire la vita del cristiano come vita di fede. I cristiani sono i credenti. E sappiamo anche che la vita del cristiano deve essere vita di carità. Essere cristiani e non praticare la carità è cosa che non capiremmo. Ma che l’essere cristiani sia determinato sostanzialmente dalla speranza è invece idea che ci è meno vicina, talvolta ci è addirittura estranea. Eppure è così. Secondo il nuovo testamento è comunque possibile caratterizzare la vita del cristiano senz’altro come vita di speranza. I pagani sono coloro che non hanno speranza. E dunque i cristiani sono quelli che l’hanno”. E noi che speranze possediamo? Abbiamo occhi, come quelli di Gesù, che sanno cogliere l’Invisibile nelle vicende quotidiane in cui siamo immersi e che sanno scrutarlo nell’orizzonte aperto sull’eternità?

Già, purtroppo la Missione popolare è rinviata e non sappiamo fino a quando. Ma la nostra vita missionaria, come tensione a vivere nella fede la nostra esistenza, è possibile fin d’ora. Anzi, vogliamo credere che non sia mai venuta meno in noi, almeno come desiderio profondo dell’anima.

I Missionari
p. Alberto, p. Dino, p. Natalino, p. Cesario



L'ABC DELLA FEDE

LA BIBBIA: I LIBRI STORICI
(prima parte)

bibbia

Nei precedenti numeri di Cüntòmela con don Simone abbiamo iniziato ad analizzare la Bibbia. A Natale abbiamo affrontato il Pentateuco, ora riprendiamo da lì.
Restiamo quindi nell’Antico Testamento.
Dopo i primi cinque libri (appunto il Pentateuco), troviamo i libri storici, sono ben 12: Giosuè, Giudici, Rut, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re, 1 e 2 Cronache, Esdra, Neemia e Ester.
Raccontano le vicende del popolo d'Israele: il suo ingresso nella terra promessa sotto la guida di Giosuè, la conquista del paese, le numerose infedeltà e i vari ritorni al Signore, l’introduzione della monarchia, le invasioni da parte di Assiri e Babilonesi fino alle deportazioni. Poi, dopo settant'anni di esilio, il ritorno in patria, la ricostruzione delle mura e del Tempio a Gerusalemme. Dopo tali avvenimenti, la narrazione si interrompe per un periodo di quattrocento anni.
In questo articolo cerchiamo di vedere un po’ più nel dettaglio i primi cinque libri di questo gruppo.

bibbia giosuè

Il libro di Giosuè racconta della conquista del territorio di Canaan da parte degli Israeliti, di come essi si allontanassero da Dio e come Egli, quando veniva invocato, li liberasse puntualmente. Purtroppo queste liberazioni non erano durature a causa della continua ricaduta nel peccato da parte del popolo di Israele. Dio aveva dato la terra agli Israeliti con un patto incondizionato, ma doveva essere conquistata. Essi dovettero combattere le battaglie e prendere possesso dei nuovi territori. E, come Giosuè ricordò loro nel suo ultimo discorso prima di morire, la loro ubbidienza alla Parola di Dio avrebbe determinato il possesso duraturo della terra. Giosuè, il cui nome significa “Dio salva”, fu il successore di Mosè ed un gran condottiero. Nato schiavo in Egitto, aveva quarant’anni al tempo dell’esodo dal paese della schiavitù, ottanta quando ricevette il mandato come successore di Mosè e centodieci al momento della sua morte. Non ci furono solo vittorie, ma anche disubbidienze e sconfitte. Il libro di Giosuè mostra che, ogni volta che gli Israeliti facevano affidamento sulle proprie forze anziché su Dio, i risultati erano disastrosi, come pure quando permettevano che il peccato entrasse nella loro vita. Questo scritto ci presenta la fedeltà di Dio, che diede ad Israele la terra promessa, ma anche il parziale fallimento di Israele, che non riuscì a prenderne possesso pienamente. Il concetto chiave del libro di Giosuè non è la vittoria, bensì che è Dio che dà la vittoria.

Il libro dei Giudici è così chiamato per via di dodici uomini e una donna che servirono Dio come cosiddetti "giudici" di Israele. Fu scritto durante il periodo della monarchia e racconta le vicende comprese, appunto, fra la morte di Giosuè e l'avvento della monarchia stessa, nel periodo in cui visse il profeta Samuele. È possibile sia opera del profeta Samuele, ma in realtà non abbiamo certezze riguardo l'identità dell'autore. Dopo la scomparsa di Giosuè, il popolo di Israele era rimasto privo di un potere centrale e la nuova nazione era costituita da una confederazione di dodici tribù indipendenti. L’unico legame fra le tribù era rappresentato da Dio, che governava direttamente il suo popolo. Dunque la teocrazia era la forma di governo in Israele al tempo dei giudici. Purtroppo il popolo dimostrò poca fedeltà al suo Dio, continuando a ricadere nell’idolatria, nell’anarchia e nella debolezza militare, incapace di resistere ai nemici che continuamente cercavano di sottometterlo. I Giudici erano le guide spirituali in Israele e, dato che spesso ricoprivano anche la carica di capi militari, venivano designati come strumenti di liberazione. In tempo di pace, svolgevano la funzione giuridica, con il compito di far applicare il diritto divino.

bibbia rut Rut, la moabita, disse a Noemi: "Lasciami andare in campagna a spigolare dietro qualcuno nelle cui grazie riuscirò a entrare". Le rispose: "Va' pure, figlia mia". Rut andò e si mise a spigolare nella campagna dietro ai mietitori. (Rt 2,2-3)

Il libro di Rut è l'unico libro della Bibbia dedicato interamente ed esclusivamente alla storia di una donna. È composto di soli quattro capitoli e racconta una vicenda svoltasi in un periodo di circa dodici anni. Rut, la protagonista, era una moabita e proveniva quindi dal paganesimo. Non vi racconto la storia, leggetela, ne vale la pena, a me piace tanto! Vi dico solo una curiosità: alla fine della narrazione, vediamo come il libro chiarisca la genealogia di Davide, gli anelli di congiunzione da Perets a Davide. Rut fu la bisnonna di Davide: ciò mostra che Dio ha usato sangue non ebraico per formare una famiglia speciale, dalla quale sarebbe nato il Messia che avrebbe redento tutte le nazioni, Gesù, e ci ricorda che nell’Antico Testamento si fanno tantissimi riferimenti alla venuta di Gesù, centro della nostra fede.

Il Primo e Secondo libro di Samuele. Questi due libri prendono il nome da Samuele, ultimo giudice d’Israele, che visse attorno all’anno 1000 a.C. Fu lui che, come profeta di Dio, conferì l’unzione regale a Saul e, dopo di lui, a Davide. Samuele segna, dunque, il passaggio dalla fine del periodo dei giudici all'istituzione della monarchia.

Luca Dalla Palma



L'ABC DELLA FEDE

UN DONO D'AMORE
Corso sull'Eucarestia con Padre Cesario

corso p. cesario

Sintetizzare il contenuto di un corso che affronta un tema così importante come quello dell'eucarestia, non è facile. Si devono fare delle scelte e mettere in evidenza ciò che più incide sulla comprensione e l'approfondimento di questo speciale “EVENTO”, come Padre Cesario definisce la liturgia eucaristica.

Cercherò comunque di essere fedele nel trasmettere il messaggio emerso dalla catechesi, che va affrontato con fede pura e parla dell'amore infinito di Dio e del sacrificio di Gesù che si è donato a noi.

L'Eucarestia è proprio questo: un dono d'amore, è un nucleo incandescente (lettera apostolica), è il roveto ardente che mai si spegne e che rivela la presenza di Dio nella nostra esistenza.

È la vetta e il culmine della vita cristiana (Concilio Vaticano II). Con l'eucarestia entriamo in un rapporto cuore a cuore con il Signore che si fa uomo e si concretizza in un pezzo di pane che ci nutre e ci sostiene.

All'inizio del rito, dopo l'atto penitenziale in cui presentiamo le nostre mancanze e chiediamo perdono, siamo convocati alla mensa della Parola. Essa è ascolto di Dio, del battito del suo cuore e ci prepara all'incontro sacramentale.

Nell'omelia poi il sacerdote la “spezza” perché porti frutti nella vita e il silenzio che segue è interiorizzazione da vivere a tu per tu con il Signore. Nei salmi ci sono tutti i sentimenti dell'uomo: gioia, rabbia, sofferenza perché la vera preghiera nasce dalle nostre situazioni ed esperienze.

La parola di Dio è la lampada che guida, è l'ancora che ci dà sicurezza, deve penetrare nell'intimo e diventare carne nella nostra quotidianità.

Nella liturgia eucaristica, cuore della Messa, il pane e il vino sono piccoli gesti che Gesù ci restituisce trasformati. Egli subentra con la sua anima e il suo corpo, con tutta la magnificenza e divinità, con grande amore.

È importante in questo intenso momento la nostra partecipazione attiva, perché è rendere grazie all'Onnipotente per la creazione, per il dono di Gesù e della redenzione per mezzo della Pasqua.

La preghiera eucaristica si prolunga con il Padre Nostro sintesi dell'insegnamento di Gesù. Inizio di quella parte della Messa che ci predispone a ricevere la comunione e momento in cui è indispensabile avere il cuore in pace e aperto al perdono.

L'atto che il sacerdote fa dello spezzare il pane è il gesto di Gesù nell'ultima cena e nell'incontro con i discepoli di Emmaus che, trasformati, hanno potuto testimoniarlo.

Anche noi diventiamo ciò che riceviamo: ogni volta che ci accostiamo all'Eucarestia diventiamo corpo di Cristo, un segno efficace che ci pone in comunione con la Chiesa e in particolare con la famiglia e la comunità.

È l'antidoto al nostro egoismo perché ci facciamo dono agli altri come Lui ha spezzato la sua vita per noi.

Partecipare alla liturgia eucaristica allora è una grande responsabilità: non è solo un rito, fare memoria, ma è immergersi in una realtà che ci impegna a vivere come Gesù.

Nei riti di conclusione come all'inizio, il sacerdote dice: “Il Signore sia con voi” per sottolineare la presenza del Risorto in coloro che si riuniscono nel suo nome.

Nelle parole “Andate in pace” c'è infine l'invito a vivere le logiche dell'Eucarestia: il servizio, la solidarietà, la fiducia, la speranza e la misericordia verso il prossimo.

Concludendo si può dire che nell'atto penitenziale chiediamo il perdono che è per noi come l'aria che respiriamo; nella liturgia della Parola ascoltiamo Dio così come dobbiamo ascoltare il fratello, anche il più lontano; il rito dello spezzare il pane ci invita a partecipare al sacrificio di Cristo e ad irradiare l'amore di Dio tra le persone che ci vivono accanto e nella nostra parrocchia.

Quando andiamo a Messa portiamo nella borsa tutto quello che ci è accaduto e deponiamo ogni cosa sull'altare. La nostra piccola storia offerta da Gesù al Padre diventerà preziosa ai suoi occhi.

Anna Fanetti



DALLE COMUNITÀ - Borno

CINQUANT'ANNI DI CONSACRAZIONE

giacomina e pierina

Carissime Giacomina, Pierina
ed Antonietta,

Domenica 8 marzo avremmo voluto festeggiare i vostri 50 anni di voti religiosi nella Compagnia di sant'Angela Merici.

Le circostanze del difficile periodo che stiamo vivendo, non hanno permesso di far festa e purtroppo l'anniversario è passato in gran silenzio. Conoscendo la vostra riservatezza, immaginiamo che a voi tale mancanza non sia molto pesata.

Aldilà delle formalità, però, è giusto riconoscere e ringraziare il Signore per il vostro impegno e la vostra energia in tutti questi anni, donati nel silenzio e nell’umiltà, sempre pronte ad ogni ora e ad ogni bisogno. In modi diversi – la gentilezza di Giacomina, il piglio benevolo e a volte deciso di Pierina, il sorriso sereno di Antonietta – avete testimoniato a tutti cosa voglia dire far parte e mettersi a servizio della comunità.

Mediante Cüntòmela desideriamo esprimervi semplicemente un grande GRAZIE, pensando di interpretare il sentimento di molti, compresi i parroci e i curati che si sono avvicendati in questi 50 anni e che hanno goduto delle vostre amorevoli cure ed attenzioni; cure ed attenzioni che si concretizzavano nel rispetto, nella conservazione e nella pulizia della chiesa, dei paramenti e di tutto ciò che serve per la celebrazione liturgica. Certo lo sappiamo un grazie è troppo poco, ma in questo momento è l’unica cosa che è possibile a fare. Non mancherà, prima che l’anno si concluda, l'occasione per festeggiarle come si deve. È una promessa!

Care Giacomina, Pierina e Antonietta, l'augurio che vi e ci facciamo è che la vostra fede, il vostro impegno e il vostro esempio possano donare entusiasmo ad altre persone perché continuino il vostro silenzioso, impagabile e imprescindibile lavoro!

La redazione



DALLE COMUNITÀ - Borno

BORNO E LA VISITA DI SAN CARLO BORROMEO

san carlo

Nell’anno 1580, quando San Carlo Borromeo fece visita alla Valle Camonica, Borno aveva 1680 abitanti e faceva parte dei paesi di un qualche piccolo rilievo in terra bresciana e bergamasca. Vi risiedevano ben tre sacerdoti: il Parroco Don Giovanni Fòppoli, originario della Valtellina, che morirà a Borno nel 1618, dopo essere stato parroco per ben 49 anni; il bornese Don Giovanni Rivadossi, che morirà nel 1593 ed il bergamasco Don Giovan Francesco Botti, nativo di Ardesio e morto a Borno nel 1617, a 65 anni di età.

La chiesa parrocchiale era collocata nel medesimo posto di ora, ma era quella precedente, che fu abbattuta nel 1771, perché piuttosto piccola, rispetto alla esigenze della parrocchia ed era dedicata a San Martino, mentre San Giovanni Battista era compatrono.

Il sagrato ai lati della chiesa (soprattutto quello a sinistra, guardando la facciata della chiesa) era adibito a cimitero ed aveva due cappelle: la chiesetta di Sant’Antonio e, sul lato opposto, la chiesetta della Confraternita dei Disciplini. Solo due secoli dopo il cimitero fu trasferito fuori dell’abitato, dove ancora oggi si trova.

San Carlo, Arcivescovo Metropolita di Milano, iniziò la sua visita pastorale in Valle Camonica il 21 agosto 1580, accompagnato dal Vescovo di Brescia Mons. Giovanni Battista Centurione, sostando nei centri maggiori e giungendo fino ai piedi del Tonale alla metà di settembre. Fu un evento memorabile, che diede l’avvio ad una radicale riforma della vita ecclesiale ed a un rifiorire religioso in tutta la Valcamonica, anche se la situazione religiosa trovata da San Carlo fu da lui giudicata abbastanza buona.

San Carlo non salì a Borno, ma furono i Bornesi a recarsi a Breno per incontrarlo, dove egli rimase dal 29 agosto al 2 settembre di quell’anno. Il Parroco, Don Fòppoli, insieme con il Sindaco, guidò la processione dei Bornesi che scesero a Breno per salutare San Carlo, per pregare con lui e ascoltare la sua parola.

Nei precedenti mesi di marzo ed aprile, San Carlo aveva inviato a visitare Borno, in suo nome e per suo incarico, il sacerdote Bernardino Tarugi. Questi giunse a Borno il 14 marzo 1580 e vi sostò un paio di giorni; poi visitò Ossimo e Lozio.

San Carlo, in base alle informazioni che Padre Tarugi gli aveva riferito, diede al Parroco di Borno le seguanti disposizione:
- allungare la chiesa parrocchiale, perché troppo piccola rispetto alla popolazione che nelle Messe domenicali non aveva lo spazio sufficiente e molti dovevano restare in piedi e stretti gli uni agli altri. Il Visitatore aveva anche avanzato l’ipotesi che nell’allungare la chiesa si includesse la cappelletta dedicata a San Rocco che esisteva esternamente appoggiata ad una parte del muro della facciata della chiesa;
- sistemare in modo più dignitoso il battistero;
- porre nella chiesa tre confessionali con la grata.

Non sappiamo se la prima delle tre disposizioni, di non facile attuazione, poté essere realizzata o come si rimediò alla scarsità di spazio. Forse ci si limitò ad aprire un varco nella cappelletta di San Rocco, in modo che anche da quello spazio si potessero seguire le funzioni religiose.

Dalla storia sappiamo con certezza soltanto che 190 anni dopo, cioè nel 1771, quella chiesa fu completamente demolita, per costruire esattamente nel medesimo posto una chiesa del tutto nuova, più grande e più bella, progettata dall’Architetto Pier Antonio Ceti. È la chiesa che oggi noi ammiriamo, maestosa nelle sue linee architettoniche e decorata dal pittore Santo Cattaneo, nativo di Salò.

In occasione della riedificazione della chiesa, fu modificata anche la dedicazione: fu scelto come patrono principale San Giovanni Battista, mentre San Martino restò come patrono secondario.

L’idea che San Carlo si fece di Borno, in base a quanto riferitogli dal Visitatore, fu sostanzialmente buona: la popolazione era religiosa, fedele alla Messa domenicale, attaccata alla Chiesa e senza grossi problemi di moralità.

Il ricordo della fede e della pratica religiosa, che caratterizzavano Borno all’epoca della visita di San Carlo, ci induce a riflettere sulla realtà di oggi. Borno ha conosciuto in questo nostro tempo un notevole progresso in campo economico, sociale e turistico, ma è diventato un po’ meno cristiano e meno religioso. Dai Bornesi che ci hanno preceduto ci viene pertanto un forte richiamo a una ripresa religiosa e al ricupero dei valori umani e cristiani che sono iscritti nella nostra storia e che danno senso e valore alla nostra vita personale, familiare e sociale. Sono valori che fanno parte della nostra identità e che dobbiamo conservare, perché senza di essi il futuro non sarà migliore.

borno vecchia

Dai secoli passati ci viene inoltre l’invito a partecipare con impegno e con convinzione alla Missione popolare che è stata programmata per Borno e per l’intera Unità pastorale.

È un’occasione importante da non perdere. Si tratta di un evento religioso straordinario e di un grande richiamo spirituale.

Tale Missione popolare mira a risvegliare nei cuori e nelle coscienze il senso religioso, e chiama a riflettere sul nostro rapporto con Dio, che è un Padre che ci ama; un Padre che vuole il nostro bene; un Padre che ci perdona quando sbagliamo, perché ci vuole bene; un Padre che ci attende, al termine della nostra esistenza terrena, nella sua casa paterna, per essere eternamente felici nell’immensità del suo amore. La Missione rafforzerà la fede, così che essa possa illuminare e orientare la vita, e rappresenterà una forte ripresa di vitalità religiosa nei paesi della nostra Unità Pastorale.

Card. Giovanni Battista Re



DALLE COMUNITÀ - Borno

"ECCLESIA CURATA"
Cenni storici sulla chiesa di Borno

millenio parrocchia Borno

Per definire con un’immagine felicemente pregnante la chiesa di Borno si può prendere a prestito un icastico passaggio contenuto nel corpo della relazione redatta in occasione della visita effettuata dal canonico Benvenuto de Vanzio, delegato del vescovo di Brescia Bartolomeo Malipiero, oltre 500 anni fa, nel 1459, laddove si afferma che l’“ecclesia curata” dei Santi Giovanni Battista e Martino “pulcra est, et ornata”, dotata di battistero, nicchia per gli olii sacri, calici e croci d’argento, altari, ricco corredo di suppellettili sacerdotali, sacristia e area adibita a cimitero, tutto in manutenzione “bene ordinata, et disposita”. Questo mostrarsi come edificio bello e adorno si giovava di un radicale rifacimento attuato poco prima (essendo stata “de novo fabricate”), reso possibile dalla provvidenziale pioggia battente e fragorosa di donazioni ed elemosine e dalle corvè offerte dai solerti abitanti del luogo, gli stessi – chi più, chi meno – che dieci anni dopo, nel 1469, accorsero – stando allo scrupoloso racconto di un testimone – “con sapi e badilli et altri istromenti necessarii per lavorare la chiesa della Santissima Annunciata e li edificii oportuni” dell’annesso convento francescano, rispondendo all’appello del frate portoghese Amedeo Meneses de Sylva.

L’indissolubile unione delle due splendenti prerogative – “pulcra, et ornata” – incastonate nello scolastico latinetto messo in carta dall’occhiuto funzionario di curia appare lungo il lento scorrere dei secoli solida e duratura tanto da diventare carattere intrinseco, essenziale, genuino e fondante della comunità nel susseguirsi delle generazioni.

chiesa bornoSe desideriamo che la chiesa di Borno continui ad essere “pulcra, et ornata” ogni tanto sono necessari dei lavori.

Bella, decorata, funzionale al culto e alla preghiera sono le costanti peculiarità che ancora oggi questa chiesa possiede in grado esemplare ed evidente, in virtù dell’inesausto avvicendarsi di stagioni segnate da continui miglioramenti. L’innata predisposizione, l’istinto naturale dei bornesi a curare la propria chiesa, rendendola magnifica, intima e accogliente, per facilitare l’incontro con Dio e cogliere la grazia del mistero, ha reso possibile venisse custodito il senso del sacro, vuoi manifestato nello sfarzo luminoso delle liturgie, vuoi nella quieta penombra invitante serena all’orazione personale.

La prima notizia dell’esistenza di un edificio di culto a Borno risale al 13 novembre 1018 quando, davanti alla locale basilica, una delegazione di scalvini effettuava – nelle mani dei vescovi di Brescia Landolfo e di Bergamo Alcherio e di Lafranco conte del Sacro Palazzo – espressa rinuncia (anche a vantaggio di Borno) a rivendicare diritti in merito alla giurisdizione della vasta montagna del Negrino, in contesa tra le parti. La presenza di alte autorità religiose e civili costituisce prova dei molteplici interessi che ruotavano intorno alla questione e sottolinea il rilievo economico e sociale raggiunto dall’abitato, in grado di ospitare numerosa popolazione al sicuro, grazie alla possente struttura fortificata aggrumata attorno a un reticolo di torri, muraglioni e caseggiati, muniti secondo le caratteristiche di un periodo che prediligeva i borghi posti in sito eminente e strategico.

Fondata con ogni probabilità durante la rigogliosa espansione del cristianesimo compiutasi sul finire dell’epoca longobarda e nella susseguente età carolingia, la chiesa di Borno recava in origine la dedica al vescovo turonese Martino († 396). La devozione verso il santo presule fu molto sentita nelle aree soggette all’influenza franca, trovando decisivo stimolo allorché l’intera Valle Camonica, dai confini lacustri fino al passo del Tonale, venne donata nel 774 dal re Carlo Magno al monastero di Marmoutier di Tours, nel quadro della politica regia volta alla stabilizzazione dei territori alpini da poco conquistati.

L’abbazia francese aveva avuto principio da una cappella edificata nel V secolo dal vescovo Brizio sulla tomba del predecessore Martino, considerato – come ha annotato il fine studioso dom Gregorio Penco – modello inarrivabile del perfetto vescovo e del perfetto monaco, un simbolo, un’insegna, un programma di vita cristiana. L’ipotesi di una genesi della chiesa locale legata a Tours (secoli VIII–X), non esclude che uno spazio di culto vi fosse già esistente nel periodo longobardo (secoli VI–VIII), con la dedicazione a San Martino maturata nel corso della battaglia contro l’arianesimo. All’ambiente carolingio rimontano pure forme di eremitismo legate alla tradizione di San Fermo e alla chiesa campestre di San Fiorino.

Nei primi anni appena scoccato l’anno Mille, “in quasi tutto il mondo, ma soprattutto in Italia e in Gallia, furono rinnovati gli edifici delle chiese. Le genti cristiane sembravano gareggiare tra loro per edificare chiese le une più belle delle altre. Era come se il mondo, scuotendosi, volesse spogliarsi della sua vecchiezza per rivestirsi di un bianco mantello di chiese”, secondo la suggestiva coloritura lasciata dal monaco di Cluny Rodolfo il Glabro. Nel quadro di rinnovamento, che riguardò “persino le cappelle minori poste nei villaggi”, accompagnato da positivo slancio dell’economia e dei commerci, grazie anche a un clima più mite e al rallentamento di epidemie e carestie, la cappella di Borno fu la prima che si svincolò dalla pieve matrice di riferimento, quella di Santa Maria Assunta di Cividate, presso la quale nei primi secoli cristiani si amministravano i sacramenti – in particolare il battesimo – e si esercitava la cura d’anime per le dipendenze rurali. La precoce richiesta di avere il fonte battesimale attesta l’importanza raggiunta da Borno.

Già intorno al 1091 il prete del luogo don Pietro aveva ottenuto dal pontefice il privilegio di porre nella sua cappella il battistero e di conseguire la quarta plebis, la tassa riservata alla pieve riscossa nel territorio bornese. La concessione pontificia, rilasciata con valore temporaneo e ad personam in capo a don Pietro che la godette per trent’anni, venne confermata verso il 1145 dal vescovo di Brescia Maifredo in occasione della consacrazione della chiesa di San Martino: l’anniversario dell’evento si onorava in passato il 25 novembre, poi la terza domenica di ottobre. Negli anni seguenti l’arciprete pievano Arderico avocò nuovamente a sè il diritto di catechizzare e battezzare i ragazzi bornesi, impugnando il rinnovo dell’esenzione papale: non mancarono situazioni imbarazzanti, come il tafferuglio avvenuto a Malegno il sabato santo del 1156 per questioni di precedenza tra le processioni dei catecumeni di Borno e Lozio. Un lodo arbitrale dato nel 1185 in Verona dai cardinali Adelardo Cattaneo di Lendinara e Pietro piacentino, in città per l’elezione del nuovo pontefice Urbano III, confermava a Borno il fonte battesimale, a seguito del cui impianto venne associato il patrono San Giovanni Battista, destinato a prevalere sulla primitiva intestazione.

In quei secoli si registrò una forte influenza del movimento monastico. Nel 1050 il bornese Borno del fu Benedetto donava al monastero bresciano di San Pietro in Monte Orsino di Serle una massa patrimoniale innervata di case e terreni posti in “vico Ausemo”, costituendo una piccola grangia. Proprietà di chiese monastiche – Santa Maria, Santa Giulia e Sant'Eufemia di Brescia, Sant'Alessandro di Bergamo, Sant'Ambrogio di Milano, Sant'Abondio di Verona e San Giovanni di Pontremoli – sono ricordate nel placito celebrato nel palazzo vescovile di Bergamo nel 1091 rilasciato dal messo imperiale Corrado a favore dei “vicini et consortes de Burno”, guidati dal presbitero Pietro, dall’avvocato Ariprando, dal diacono Lazaro e dal sottodiacono Oddo, nel tentativo di raggiungere una pacificazione nella vertenza per il Negrino. Numerosi preti, diaconi e sottodiaconi officianti a Borno compaiono in documenti dei secoli XII e XIII, a testimoniare la probabile esistenza di una collegiata, comprovata dall’inalveamento di vari benefici clericali. Carte degli anni 1241 e 1318–1321 mostrano la chiesa – più contenuta nei volumi e meno slanciata in altezza rispetto all’attuale – guarnita sul davanti di capiente portico adibito anche a funzioni di natura civile.

Nel 1456, accogliendo la supplica degli uomini di Borno, papa Calisto III emanò una bolla tesa a riorganizzare il beneficio parrocchiale. Poiché la villa “era numerosa di due mila anime disperse in varie contrade lontane più miglia di montuosa strada e che le anime pativano estrema necessità per esser la parrochia retta da un solo prete”, il pontefice disponeva la fusione di una decina di chiericati legati ai luoghi di culto esistenti nel territorio, goduti da sacerdoti non residenti. Con il raggruppamento delle rendite venivano create “due porzioni da conferirsi a due preti”, primo e secondo porzionario, tenuti a collaborare nella cura d’anime con il rettore principale, cui spettava “cantar le messe solenni e vespri, portar il Santissimo Sacramento in processione, far tutte le benedittioni, fontioni solenni, officii della Settimana Santa, comunicar il popolo alla Pasqua”. La stabilizzazione giuridica del beneficio e il vincolo alla residenza dei parroci stimolarono il rinnovamento, ribadirono la centralità della prospettiva religiosa per la comunità imbevuta di soprannaturale, concorsero allo sviluppo di una società bene istituzionalizzata, tutta racchiusa dentro l’orizzonte del sacro.

Tra i parroci si distinsero, per pietà, carità e cultura, don Giovanni Foppoli che a fine Cinquecento istituì i registri di stato d’anime, potenziò il culto e costruì la canonica; don Giovan Battista Camozzi che ottenne dal vescovo nel 1701 la dignità di arciprete; don Arcangelo Barcellandi, “uomo di rare qualità, e dottrina”, poeta, organista e maestro di latino, direttore nel Settecento di un liceo che richiamava ragazzi provenienti anche da fuori paese; don Bartolomeo Rizzoni e don Lorenzo Federici che nel XVIII secolo seguirono il rifacimento della parrocchiale. Nell’Ottocento si segnalarono don Bortolo Staffoni che si adoperò per il ripristino del convento dell’Annunciata, don Domenico Torri, passato missionario in India, don Antonio Mojer che ha tenuto un puntuale diario dei fatti accaduti ai suoi tempi.

Giganteggiano nel Novecento don Domenico Moreschi, primario salvatore di Borno durante l’ultima guerra, accanto al curato don Andrea Pinotti, sino ai più recenti don Ernesto Belotti, don Giuseppe Verzeletti e don Andrea Cobelli. Nei secoli d’antico regime il paese fu uno dei centri più popolosi della Valle, con clero preparato e numeroso.

Accanto ai parroci e ai curati, sono emersi i nominativi di circa 150 sacerdoti secolari e 50 religiosi (soprattutto francescani e qualche benedettino, cui si aggiungono numerose monache e suore di varie congregazioni) originari di Borno, dei quali sarebbe istruttivo raccogliere le biografie, soggetti per lo più zelanti nella celebrazione dell’Eucaristia, attivi all’ombra santificante del confessionale, dediti al pulpito e agli esercizi di pietà, amanti della mistica e della direzione spirituale, impegnati nella scuola e nel catechismo, consacrati a favorire la promozione sociale, intenti a coltivare e propagare ideali umanistici incoraggiando la crescita di quanto di elevato reca l’animo dell’uomo, tesi a consolidare le opere di carità e la pratica dell’elemosina, “immersi nella Verità, in Cristo”, modelli di santità capaci di soddisfare le attese del popolo cristiano se è vero come è vero, secondo la sapiente sintesi di Benedetto XVI, che “Dio è la sola ricchezza che gli uomini desiderano trovare in un sacerdote”.

Tralasciando i viventi e quelli scomparsi negli ultimi decenni, noti a molti dei presenti, si possono menzionare almeno due secolari e un regolare: monsignor Francesco Montanari, morto a Venezia nel 1696, vicario generale del patriarca marciano; don Giacomo Andrea Dabeni, defunto nel 1828, eccellente nella predicazione e “fornito di una speciale capacità per allevare egregiamente la gioventù studiosa nelle lettere e nel buon costume”; padre Accursio Belli, provvisto di “bell'ingegno, et spiritoso, pieno di scienza e destrezza nel maneggio degli affari”, definitore e ministro provinciale, commissario apostolico in Austria e Ungheria, morto a Roma nel 1692 nella carica di procuratore dei riformati.

Con il consumarsi dei secoli la parrocchiale è via via divenuta il riferimento tangibile dell’appartenenza alla comunità, al di là delle diversità di classe e di censo, la casa comune dove i terrazzani hanno potuto compiacersi della bellezza della liturgia, essenza della vita cristiana, lo stigma dell’identità e dell’unità spirituale del popolo, secondo il pensiero di Paolo VI, il primo dei due grandi santi papi che nel Novecento hanno sostato e celebrato in questa chiesa.

machina triduo

Tra le ricorrenze che si sono mantenute vi è il triduo dei morti, avviato a metà Seicento, opportunità di intensificare il suffragio verso i defunti, opera di carità volta alla comunione dei Santi, occasione per riflettere sulle realtà estreme dell’uomo, manifestazione devozionale che realizza un rigoglioso trionfo del visibile attraverso cui si radica nel cuore delle persone la consapevolezza di quel “mistero ultimo, incarnato nel mondo concreto dell'esperienza sensoriale”, per ricorrere all’intuizione della brillante narratrice cattolica americana Flannery O’Connor.

In chiesa sono passati tutti, molti sono sepolti attorno, almeno fino al 1810, anno in cui avvennero la benedizione e l’entrata in esercizio del camposanto extra oppidum; qui dentro scorreva buona parte della vita quotidiana dei bornesi che si svolgeva da una festività religiosa all’altra, quasi senza soluzione di continuità, con in mezzo il lavoro agreste e le attività domestiche, esistenza cadenzata dal calendario liturgico, dalle sollecitudini spirituali, dai digiuni e dalle preghiere; in queste quattro mura la comunità ha perseguito la ricerca di Dio, unico e vero scopo di ogni movimento popolare, come ha sottolineato il grande autore russo Fëdor M. Dostoevskij.

Numerose istituzioni qui traevano principio e linfa, per seminarsi poi nella sfera civile. Presso gli altari, che hanno avuto mutamenti di intitolazione e che contenevano insigni depositi di reliquie, tra cui un frammento del “Legno della Croce di Cristo” e il corpo di San Vincenzo martire, esumato dal cimitero romano di San Calisto e portato a Borno nel 1715, stavano attive diverse confraternite: Santissimo Sacramento (fondata nel 1503) che ebbe impulso in epoca tridentina grazie al moto di espansione del culto eucaristico; quelle del Rosario (eretta a fine Cinquecento), Vergine del Carmine, Santissimo Nome di Gesù (creata nel 1663), Immacolata Concezione, Disciplini (presente già nel Quattrocento), Suffragini e Dottrina Cristiana. Le associazioni mantenevano gli altari, coprivano le spese per le messe, assicuravano soccorso agli iscritti bisognosi.

Tra Sei e Settecento funzionavano una ventina di cappellanie, amministrate dai laici sotto il controllo del clero, con l’impiego di una quindicina di sacerdoti, uno ogni cento anime. Le più importanti furono quelle del Rosario, costituita nel 1617 dal curato don Giovan Francesco Botti, con l’obbligo di stipendiare un prete per istruire i fanciulli poveri; la cappellania Belli, creata per “far predicare le feste della Pentecoste”; il lascito Grimaldi per “insignare a figlioli la gramatica”; la cappellania dell’Organo per il salario dell’organista; la Montanari per “insegnare la dottrina cristiana e a ben leggere et scrivere a poveri fanciulli gratis”; la Zanettini per garantire le confessioni durante “le feste solenni e le prime e terze domeniche” dell’anno. Inoltre vi erano il Consorzio dei poveri e il Monte di Pietà dei grani e dei pegni, che soccorrevano i bisognosi, nonché una decina di legati benefici le cui rendite erano impiegate per distribuire agli indigenti denaro, panni di lana e telerie, coperte e materassi, generi alimentari (pane, granaglie, vino e sale), per fornire di dote le ragazze povere, per sostenere gli ammalati e quelli “che vanno in Bresciana à spigolare”, “in separazione de letti ai più miserabili, in aiuto a qualche giovine di buon talento per imparare una professione o un arte onorevole”. Questo ricco mosaico di enti venne praticamente cancellato dalla legislazione eversiva emanata da Napoleone.

Nel 1580 l’arcivescovo di Milano Carlo Borromeo, in visita apostolica, ordinò di ampliare la chiesa, affiancata da svettante campanile realizzato nel 1535 (con due campane fuse nel 1544), venendo avanti con la facciata fino a occupare l’area del portico e a incorporare l’oratorio di San Rocco, sorto nel 1508 non lontano dalla chiesa di Sant’Antonio e dal sacello dei Santi Pietro e Paolo.

Solo a metà Settecento, ormai diventata angusta negli spazi e inadeguata ad esaudire le mutate sensibilità dei fedeli, la chiesa venne sottoposta a un primo, parziale e purtroppo infelice intervento indirizzato ad ingrandire il vecchio coro, attuato nel 1747 dall’architetto Girolamo Cattaneo di Canè.

chiesa borno

Tra il 1771 e il 1781 si pose mano alla nuova fabbrica, sotto la direzione del capomastro milanese Pietrantonio Ceti; i lavori proseguirono fino al 1790 con il rifacimento e l’innalzamento del coro; nel 1823 si diede corso al finimento del campanile. Allora la chiesa si arricchì di nuove produzioni, diventando “commendevole per la situazione, le pitture e l’architettura”, parlando così “eloquentemente della viva fede e del senso artistico dei nostri maggiori” (secondo un testimone dell’epoca), ripiena di opere d’arte, quali tele e affreschi – con i santi della tradizione locale – di Sante Cattaneo e Lattanzio Querena, statue, apparati, stucchi, altari marmorei e lignei dei Fantoni, Giovanni Giuseppe Piccini, Giacomo Novi, Martino Pasquelli, Francesco e Gherardo Inversini, Luigi e Tommaso Pietroboni, Giovanni Clerici, sempre vestita a festa e oggetto di attenzioni, compresi i restauri compiuti negli anni Trenta del Novecento, sotto il parrocchiato di don Moreschi.

Le incessanti migliorie, la dotazione artistica, la devozione popolare, la cura del culto hanno consolidato in capo a questa chiesa l’antico carattere di “pulcra et ornata”, quasi fosse impresso a lettere indelebili sul frontone e trasudasse dai pori dell’edificio sino a connaturare la realtà circostante. Una presenza che i bornesi hanno amato e difeso, consegnandola – varcata la soglia di un altro millennio – alle nuove generazioni. In questo hanno prestato fede alla convinzione espressa dal parroco don Gregorio Valgolio, vissuto agli inizi dell’Ottocento: “a che giovano tante grandiosità, dicono i nemici dell’opere di culto divino? Giovano a svegliare in noi una sensibile idea di quel Dio, che adoriamo”, correlando “il decoro del tempio materiale” a quello dell’anima, “tempio spirituale da tenersi con decoro perché santo”. Prendendo spunto dalle parole del noto scrittore scozzese Archibald J. Cronin, mi piace pensare che queste frettolose pennellate abbiano consentito per un momento “di vedere la chiesa con gli occhi dei fedeli che l’hanno frequentata nel corso dei secoli”, arrivando quasi a “udire l’eco dei loro passi”.

Oliviero Franzoni



DALLE COMUNITÀ - Borno

NOI VOGLIAMO ESSERCI
Volontarie in Casa Albergo

casa albergo

Noi volontarie non abbiamo una formazione professionale, ma cerchiamo con umiltà di imparare e, accettando i nostri limiti, continuiamo a sentirci utili e disponibili per gli anziani della Casa Albergo.

Il nostro intervento consiste nello stimolare gli ospiti a parlare, ascoltarli, lasciarli sfogare, accompagnarli lungo i corridoi o sul terrazzone con le loro carrozzelle, imboccare la merenda ai non autosufficienti, sapere coinvolgere e far sapere coinvolgere. Purtroppo siamo poche come poco è il tempo che possiamo loro dedicare. Ci piacerebbe, e ce lo auguriamo, avere tra noi e con noi altri volti giovani, persone di buona volontà che possano dedicare un po’ del loro tempo a chi si sente tanto solo, a chi ha bisogno di amicizia e affetto.

È bello portare speranza dove c’è disperazione, un sorriso dove regna tristezza.

Molti dei nostri anziani sono persone che vivono con dignità e con gioia anche nelle situazioni più difficili.

Sappiamo che l’anziano è una risorsa e noi dobbiamo stare dentro la sua sofferenza, aiutandolo col massimo del nostro impegno, alleviando le sofferenze per quanto è nelle nostre possibilità, con la vicinanza, la parola, il sorriso, l’aiuto psicologico, senza pretendere di rimuovere sempre e ad ogni costo la sofferenza e il dolore.

Cercare di capirli è lo scopo principale della nostra presenza in Casa Albergo. Il nostro aiuto deve essere impastato di coraggio, gioia, freschezza, disponibilità. Non è una perdita di tempo chiacchierare e far parlare i nonni; è un arricchimento anche nostro: è un successo.

Abbiamo sperimentato che il sorriso e le risate giovano alla salute fisica e mentale nostra e dei nostri anziani; la barzelletta e la battuta spiritosa sono un toccasana come pure il richiamo ai ricordi del loro passato, ad avvenimenti interessanti ed ancora vivi nella loro memoria. Se si dà loro confidenza raccontano dei particolari delle loro gioie vissute come pure dei loro dolori.

Sanno parlare e ridere.

Quindi abbiamo il dovere “evangelico” di accoglienza, di disponibilità, di tutela di chi è debole, indifeso, malato.

Anche lo scorso anno siamo riuscite a portare avanti delle iniziative in modo positivo, grazie all’aiuto e all’impegno di Fiorella, la nostra cara, infaticabile e sempre disponibile animatrice.

Ultimamente siamo state impossibilitate a salire in casa albergo per i problemi che tutta Italia sta vivendo. Speriamo di riprendere al più presto a far visita ai nostri cari nonni. Auguriamo a voi e a loro i nostri auguri di buona Pasqua!

Le volontarie



DALLE COMUNITÀ - Borno

CHIESETTA DI SANT’ANNA A PALINE
“E tetto sia!”

chiesa paline

Tutto è iniziato così con questa frase, quando, una sera di ormai qualche anno fa, la nostra associazione “Gente di Paline” si è trovata a decidere l’obiettivo sul quale investire i guadagni ottenuti grazie alla nostra Festa di Sant’Anna.

Decisione presa alla luce delle cattive condizioni in cui il tetto della piccola chiesetta di Sant’Anna riversava. Sistemato nei primi anni novanta, erano ormai numerosi i coppi e le assi da cambiare e le crepe e le infiltrazioni presenti. La solita manutenzione annuale non bastava più.

Così, con l’arrivo di Don Paolo, siamo partiti subito all’attacco con la nostra proposta, già presa in considerazione da Don Francesco che, però, non ha avuto il tempo materiale per avviarla.

Da qui è partito un lavoro di squadra fondamentale che ha visto coinvolti la nostra associazione, la parrocchia di Borno, nella figura di Don Paolo, l’ingegnere Castelnovi e la ditta che si sarebbe occupata dei lavori. Vi posso assicurare non un qualcosa di semplice e dalle tempistiche brevi, anzi un anno di telefonate, scambi di messaggi, incontri, valutazioni, rilievi, bandi, approvazioni, mail attese, cambi di progetto, pareri, discussioni… Immagino vi siate già persi!!

Alla fine, però, ce l’abbiamo fatta e veder partire i lavori, penso, sia stato per tutta la comunità di Paline motivo di grande orgoglio.

gente di paline

Il desiderio di sostenere e aiutare la Parrocchia nel mantenimento di questa chiesetta, simbolo della nostra piccola comunità, ci ha portati, in questi quindici anni, a unirci e a dare il via ad un evento ormai da molti atteso. Sono, infatti, numerose le persone che ci raggiungono a fine estate e partecipano con entusiasmo alla nostra sagra. Un ringraziamento va fatto anche a loro. Il nostro progetto si sta realizzando anche grazie al loro contributo. Sembra banale dirlo, ma l’unione, la condivisione, il confronto e la determinazione sono state fondamentali.

In un periodo in cui le relazioni sono messe a rischio o stanno mutando in una direzione da noi un po’ più grandi poco compresa, ci deve far pensare come invece i rapporti personali basati sulla condivisione e sull’unione siano vincenti per il raggiungimento di un obiettivo. La coesione è indispensabile e penso sia il cuore pulsante di una comunità in crescita e in cammino nella direzione giusta.

Quindi il lavoro di squadra ha avuto ancora una volta la meglio e a breve potremo dire tetto…FATTO!

Fabio Fedrighi



DALLE COMUNITÀ - Ossimo Inf.

SCUOLA MATERNA DI OSSIMO INFERIORE 1919-2020 cent’anni d’attività

Nazzarena Maggiori
Madre Nazzarena Maggiori

Era venerdi 19 marzo 1920 quando, a furor di popolo, la gente di Ossimo Inferiore accoglieva le prime tre suore Dorotee di Cemmo chiamate dall’allora curato della contrada, don Raffaele Giudici (Clusone 1878 - Malegno 1962) , a reggere ed insegnare nel nascente asilo del paese.

A mediare presso l’allora Madre Generale delle Suore Dorotee di Cemmo, fu l’ossimese Suor Nazzarena Maggiori al secolo Domenica (Ossimo Inferiore 25 agosto 1870 – Artogne 6 marzo 1938). Era nata in una famiglia contadina, quarta figlia di Francesco detto Cader e Franzoni Bortolomea.

“… Entrata maestra nell’Istituto, spiegò quasi tutta la sua attività nel paese di Artogne, ma fu anche per il triennio 1929 –1932 Superiora dell’Istituto. Temperamento timido, preghiera quasi continua, buon cuore per tutte e spirito di sacrificio, furono le sue qualità distinte. Visse con dinnanzi a sé, quasi continuo, il pensiero della morte che avvenne in una sola mezz’ora di agonia, per sincope cardiaca…” (Annali Casa Madre).

Grazie dunque alla sua preziosa intercessione, Suor Eustocchia Gregorini, Suor Caterina Cattane e Suor Valentina Zigliana, furono le prime religiose che si insediarono in Ossimo Inferiore per dedicarsi completamente alla scuola materna e alla scuola elementare.

Le religiose fecero il loro ingresso a piedi dall’antica strada del Panden che collega il comune di Ossimo a quello di Borno.

In un primo tempo la loro provvisoria residenza fu presso una dimora privata in Vicolo Rosaga, mentre l’asilo si teneva nelle stanze della canonica, ora adibite all’oratorio.

Il desiderio d’avere anche in Ossimo Inferiore un asilo era già nei pensieri di don Pietro Stefano Giacomelli (Breno 1846 – Ossimo Inferiore 1905). L’idea fu però accantonata dal sacerdote per far confluire le risorse della comunità in progetti più urgenti: la nuova casa parrocchiale presso la piazza S. Damiano (verso la fine del 1800) e i lavori di sistemazione degli altari e il rifacimento del pavimento della chiesa dedicata ai Ss. Cosma e Damiano (a partire dal 1905), giudicata dal sacerdote troppo piccola vista l’affluenza e la devozione del paese.

Don Giacomelli non ebbe però la gioia di veder terminato il lavoro iniziato, perché nel giugno 1905 morì.

don Raffaele Giudici
Don Raffaele Giudici

A lui seguì il rev. don Raffaele, che nel 1908 ebbe invece la gioia di veder terminati i lavori della chiesa.

L’idea di un edificio dedicato all’istruzione e alla cura dei piccoli del paese non venne però mai meno.

Solo finita la Prima Guerra Mondiale il sacerdote giunse ad organizzare presso la chiesa, il 19 marzo 1919 dopo la Solenne Celebrazione liturgica in onore di S. Giuseppe, una riunione ove presero parte i capi famiglia della contrada per discutere dell'asilo. A loro fu chiesto l’appoggio oltre che morale anche finanziario per realizzare il tanto desiderato asilo. 88 capi famiglia firmarono e depositarono un fondo per iniziare i lavori. Il prato ove la scuola materna avrebbe dovuto nascere fu donato da Basilico Ludovico (Malegno 1866 - Ossimo Inferiore 1922) e da Pietro Isonni (Ossimo Inferiore 1853-1926).

Il 2 ottobre 1922 avvenne la benedizione e la posa della prima pietra di quella che poi sarebbe diventata la Scuola Materna.

san giuseppe ossimo inf
Volto di S. Giuseppe opera dello scultore Vincenzo Vinatzer (1887 - 1966) dalla Val Gardena. eseguita nel 1923 ed offerta dalla Signora Maggiori Maria Ved.va Franzoni Antonio Sisto. Costata Lire 650.

Negli scritti di don Raffaele si legge l’emozione e l’orgoglio d’una contrada, oltre che l’impegno che ognuno si prese per poter portare a termine nel miglior modo questa opera.

Tutti si impegnarono. Gli uomini si alternarono con buoi, mucche e cavalli per il trasporto del legname, delle pietre, della calce e della sabbia che veniva estratta sulle rive del fiume Trobiolo.

Il 25 ottobre 1925 l’asilo fu inaugurato.

Don Raffaele Giudici scrive: “Ad Memoriam – In questo S. Mese del Santo Patriarca S. Giuseppe si aprirà la Scuola dell’Asilo che viene affidata alle Rev. Suore Dorotee di Cemmo. Finalmente dopo sei anni di continuo lavoro coll’aiuto del Cielo si ottenne un felicissimo risultato. Anche il popolo fece molto, sebbene non tutti furono concordi e sebbene il sottoscritto ricevette molte e amare delusioni.”

I primi bambini che entrarono in questa scuola furono quelli nati nel 1920-1921-1922.

L’asilo era diretto da due suore addette alla cura dei bambini. Una suora invece era addetta alle cucine, all’orto e agli animali, mentre una inserviente curava la stufa, il focolare, le pulizie e tutti i lavori dell’ampio edificio.

Nel 1975/1976 il parroco don Giovan Maria Spiranti (Edolo 1915 – Ossimo 2001) successore nel 1946 di don Giudici, notò che la Scuola Materna “S. Giuseppe” iniziava ad avere un po’ di problemi. Riunito l’intero paese, come nel 1919, il reverendo espresse il desiderio di rinnovare gli ambienti della scuola.

Con l’appoggio dell’intero paese iniziarono i lavori che durarono 10 anni. In questo periodo le lezioni dell’asilo furono svolte al primo piano dell’asilo “Santa Barbara”: un opera voluta da don Spiranti e eseguita dalla Scuola Muratori negli anni 50.

Anche nel 2004 si intervenne dovendo metter a norma i locali e la sicurezza dell’intera Scuola Materna.

Purtroppo sempre nel 2004, la Madre Generale delle suore Dorotee di Cemmo ritirò dalla Scuola Materna le suore dopo 84 anni d’impegno.

Pur mancando la figura delle suore, la nostra Scuola Materna continua ad operare sotto l'egida religiosa, così come fu impostata dai nostri avi il 19 marzo 1919.

Le suore che hanno operato in Ossimo Inferiore sono state 48.

L’asilo oggi accoglie 25 bambini, che vanno dai circa 3 anni ai 6 e sono seguiti da 3 maestre che, con molta dedizione ed impegno, li accompagnano nel cammino educativo. È presente anche una dipendente che, con i suoi pranzetti, delizia i piccoli palati dei giovani ospiti. Molte sono le attività che ogni giorno e durante l’anno scolastico vengono svolte: dal canto, alla musica, ai corsi d’inglese, ai momenti intensi del gioco Yoga, al teatro e all’informatica per preparare ad un futuro i nostri piccoli bimbi.

Il progetto di quest’anno è “Natural…mente”: un programma che porta i piccoli ospiti a conoscere e vivere al meglio la natura che ci circonda, imparando a rispettare e amare la nostra terra e il paese dove vivono. Questo è un bellissimo progetto, ma soprattutto per noi è una gioia vedere con quanta attenzione e cura i nostri bimbi seguono e si impegnano in questo programma.

Ossimo Inferiore dovrebbe esser orgoglioso anche oggi della sua Scuola per l’Infanzia.

Omar Zani



DALLE COMUNITÀ - Ossimo Sup.

FESTA DI SANT’ANTONIO ABATE
Una bella tradizione che unisce e dà frutti

S. Antonio ossimo

Oggi mi ha chiamata don Paolo chiedendomi di scrivere un articolo per Cüntòmela relativamente alla festa di Sant’Antonio Abate tenutasi a Ossimo il 19 gennaio scorso.

Mi sembra siano passati molto più di due mesi da questa bella festa. Forse perché in questi giorni tutto sembra surreale, tutto si è fermato e si sta chiusi in casa con l’ansia da coronavirus, si aspetta il “bollettino di guerra” delle 18.00, sperando di sentire che i contagi siano in calo e ti viene da piangere invece a sentire il contrario. Poi, guardi fuori dalla finestra e, anche se in strada non c’è nessuno, pensi che le nostre montagne e i nostri paesi sono lì, immutati, e nel cuore nasce la speranza di poter ritornare nelle nostre chiese, di potersi ritrovare di nuovo per far festa e quindi, mi son detta, si può anche riuscire a raccontare della nostra Festa di Sant’Antonio. Del resto mai come quando non hai la possibilità di farle, le piccole cose diventano le più importanti e vitali!

S. Antonio ossimo
foto anni '90

La festa di Sant’Antonio Abate è molto cara agli Ossimesi ed è sempre gradita e partecipata da tutte le altre parrocchie del nostro altopiano. Sant’Antonio Abate è invocato quale protettore degli animali e quindi dei contadini e allevatori.

Come ormai da molti anni, è stata celebrata la Santa Messa con l’esposizione della reliquia del Santo. Al termine il parroco ha benedetto gli animali presenti sul sagrato e il sale da portare a casa che un tempo veniva benedetto principalmente per poi darlo al bestiame.

Tornando con la mente indietro negli anni, ricordo che era usanza passare in processione per le vie del paese portando la reliquia di Sant’Antonio. Una processione piuttosto particolare, dove alle preghiere, ai canti religiosi e alla musica della banda si univa l’abbaiare dei cani, il muggire delle numerose mucche, il belare delle pecore ed un mix di versi di tanti altri animali. C’erano anche i cavalli con i loro cavalieri e, passando, il parroco benediva anche le stalle del paese. Nei miei ricordi di bambina, dopo il Natale e la Pasqua è sicuramente una delle feste che più mi rendeva felice.

Ora la festa termina all’oratorio e al Centro Anziani con una buona merenda, con la assai partecipata tombola e con l'estrazione dei premi della sottoscrizione di beneficenza, volte a sostenere con il loro ricavato le necessità della parrocchia.

È doveroso ringraziare tutti, perché questo gioioso incontro delle nostre comunità si riesce a realizzare solo quando tutti danno una mano, sia aiutando per le cose pratiche, sia comprando i biglietti della sottoscrizione di beneficenza.

Quindi, cari parrocchiani dell’Unità Pastorale, forza e coraggio che le nostre chiese, i nostri oratori e i nostri paesi torneranno ad essere animati da tutti noi, più uniti e sorridenti come il Signore sicuramente ci vuole.

Bottichio Roberta



DALLE COMUNITÀ - Ossimo Sup.

UN PARCO... DA DOVE RICOMINCIARE

parco ossimo sup

Mai come in questi giorni ognuno di noi sente il desiderio e la necessità di incontrarsi, parlarsi a tu per tu, avere la possibilità di spendere del tempo insieme. I nostri bambini questo lo sanno da sempre e il loro continuo richiederci luoghi per giocare ne è la prima vera consapevolezza.

Certi che un luogo è prima di tutto abitato dalle persone che lo popolano e certi che più il luogo è bello e accogliente, più le persone vi possono trascorrere del tempo in serenità, la parrocchia ha cercato di rispondere all’esigenza avanzata dalle famiglie e dai bambini rispetto al ripristino e alla riqualificazione del nostro parco giochi.

La macchina “parco giochi” si è messa in moto mesi fa. Abbiamo vagliato proposte e sogni, poi, messo i piedi per terra, abbiamo sfogliato i cataloghi dei giochi e, con una certa titubanza, abbiamo deciso di rimodernare al meglio questo spazio, regalando nuovi giochi a grandi e piccini.

Abbiamo pensato a dei giochi in sostituzione di quelli attuali e previsto giochi mai visti sull’altopiano! Siete curiosi eh?

Per sostenere le grosse spese previste si sono messe in campo molte associazioni del territorio: la pro-loco, gli alpini, la contrada de Osem con lo spiedo, l’oratorio, privati cittadini e l’asilo. Tutti hanno contribuito a raccogliere parte dei soldi necessari per la realizzazione di un progetto che è partito dalla voglia di regalare alla comunità e alle famiglie un luogo sicuro, bello e accogliente dove trascorrere ore spensierate.

Il progetto, definito e disegnato nei suoi molteplici aspetti, è merito dell’architetto Irene Cominini che ha messo a disposizione tempo e conoscenze per ridisegnare gli spazi. La messa in opera, altrettanto generosa sarà guidata da Salvatore Bottichio che realizzerà e coordinerà i lavori di quanti lo vorranno aiutare.

A don Paolo il grazie delle famiglie che hanno visto realizzare i propri sogni e alla comunità un appello: Il parco giochi è per tutti, e tutti dobbiamo averne cura.



DALLE COMUNITÀ - Lozio

CANDELORA: verso la luce, la purezza, la primavera

candelora

Il 2 febbraio è la festa della Candelora, legata alle origini religiose e a molte tradizioni locali, non solo in Italia. È noto il detto “Alla Candelora dall’inverno siamo fuori, ma se piove e tira vento nell’inverno siamo dentro”: numerose sono le versioni dello stesso proverbio, per lo più in dialetto locale e con lievi variazioni da un luogo all’altro. Dopo i “giorni della merla”, i più freddi dell’anno a fine gennaio, la Candelora dovrebbe aprire il periodo con un clima meno rigido, che porta verso la primavera.

Il nome, di origine popolare, richiama la consegna delle candele e il rito del lucernario, di cui si parla per la prima volta in un testo latino del V secolo, la Peregrinatio Egeriae: «Si accendono tutte le lampade e i ceri, facendo così una luce grandissima». Legata alla luce e ai ritmi del tempo, la Candelora si ricollega anche alle fiaccolate rituali dell’antica Roma durante i Lupercali, che si svolgevano proprio nel mese di febbraio. E proprio con l’abolizione ufficiale dei Lupercali pagani si introduce la Candelora cristiana, con papa Gelasio I alla fine del V secolo. Pochi anni dopo l’imperatore Giustiniano sposta la data al 2 febbraio, mentre in precedenza si svolgeva il 14 febbraio, 40 giorni dopo l’Epifania.

La Candelora, festa liturgica della Presentazione di Gesù al tempio e giornata della purificazione, si celebra 40 giorni dopo Natale e rievoca la tradizione ebraica e poi cristiana di presentare al tempio per la prima volta il bambino dopo la nascita. Il Vangelo di Luca annota che «Quando venne il tempo della loro purificazione secondo la Legge di Mosè, portarono il bambino a Gerusalemme per offrirlo al Signore, come è scritto nella Legge del Signore: ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore; e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o di giovani colombi, come prescrive la Legge del Signore». La rievocazione, tradizionale nella Chiesa cattolica, è celebrata anche dagli ortodossi, dai luterani e dagli anglicani.

Collegata alle origini religiose è la tradizione in alcuni luoghi di benedire le gestanti. Il giorno dopo la Candelora, il 3 febbraio, in diversi luoghi si festeggia San Biagio e, con una candela benedetta il giorno prima, si benedice la gola, ricordando il miracolo del santo che salvò un bambino che stava soffocando per aver ingoiato una lisca di pesce.

A livello gastronomico la Candelora è il Giorno delle Crêpes, specialmente in Francia, dove erano un simbolo di amicizia e venivano offerte dai mezzadri ai loro padroni. Come auspicio di ricchezza e prosperità per il nuovo anno, nella tradizione francese si fa saltare la prima crêpe con la mano destra, tenendo nella mano sinistra un oggetto d’oro.

In alcuni luoghi la Candelora è chiamata Giorno dell'Orso, o Giorno della Marmotta, perché l'orso si sveglierebbe dal letargo e uscirebbe fuori per vedere se il tempo è adatto per lasciare la tana.

La Candelora è il giorno della svolta, della purificazione, del passaggio dal gelido inverno alla tiepida primavera, del ritorno della luce, quindi della speranza e del sogno di una comunità migliore!

Fortunato



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