Pasqua 2009
“I soldi non bastano mai!” Quante volte abbiamo sentito, pronunciato o anche solo pensato una frase simile. Specialmente in questi mesi in cui, purtroppo, sembra che la crisi economica non sia più uno spauracchio dell'alta finanza con cui riempire di notizie, più o meno virtuali, giornali e TG, ma inizi a farsi realtà nei bilanci famigliari, ci viene confermato che per poter vivere dignitosamente ogni persona ha bisogno di beni materiali.
Augurandoci che tale crisi possa trasformarsi in occasione per maturare nuovi rapporti anche a livello economico, maggiormente improntati alla giustizia (per quanto umanamente possibile) e alla solidarietà, l'espressione sopra ricordata può suggerirci, però, che i soldi non bastano mai soprattutto per colmare i bisogni e le aspirazioni del nostro cuore.
L'autentica amicizia, l'amore che si fa servizio in famiglia, la tenace vocazione di un missionario, la forza della vita nella sofferenza, lo stupore di un cielo stellato possono venire quotati solo al mercato della gratuità, mediante le cifre del dono, della perdita, del sacrificio.
Ed è sufficiente il suono di quest'ultimo vocabolo per ricordarci ciò che stiamo celebrando in questi giorni, ciò che, se lo vogliamo, può nutrire e illuminare la nostra vita... per sempre.
A tutti... Buona Pasqua!
La redazione
ripensandoci
“Il duplice carattere della quaresima - il quale, soprattutto mediante il ricordo o la preparazione al battesimo e mediante la penitenza, invita i fedeli all'ascolto più frequente della parola di Dio e alla preghiera e li dispone così a celebrare il mistero pasquale - sia posto in maggior evidenza tanto nella liturgia quanto nella catechesi liturgica”. (SC 109)
Tra i doni più preziosi che il Concilio Vaticano II ci ha lasciati, c'è la costituzione “Sacrosanctum Concilium”. Fu la prima ad essere promulgata dal Concilio ormai più di quarantacinque anni fa.
Questo documento ci ricorda e sottolinea quali sono gli “strumenti” che aiutano il cammino quaresimale perché possa essere un percorso di liberazione interiore ed esteriore:
Tutto questo per poter realizzare la nostra personale conversione.
Le parole che il primo giorno di Quaresima (Mercoledì delle Ceneri) abbiamo sentito - “Convertitevi e credete al Vangelo” - non possono e non devono rimanere semplici parole, ma devono prendere vita nella nostra quotidianità. Per noi cristiani è sempre tempo di conversione perché, nonostante la nostra vita di fede e la stessa nostra vita sacramentale, gli idoli del nostro tempo ci allontanano da Dio, ci portano a dimenticarci del Vangelo e nei fatti concreti ci spingono quasi a contraddire la stessa volontà di Dio.
Peccato e desiderio di conversione coesistono in noi; siamo sempre cristiani peccatori, bisognosi di conversione, di ritornare a Dio. S. Paolo nella sua lettera ai Romani, ci ammonisce con parole molto chiare: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto”.
Senza che ce ne accorgiamo, magari involontariamente, ci stiamo conformando alla mentalità del tempo presente. Gli stili di vita e i modi di pensare attuali propongono anche alcuni aspetti positivi, tante possibilità se usate bene soprattutto a livello tecnologico, ma portano con sé molti rischi e pericoli.
Benedetto XVI nel suo messaggio per la Quaresima di quest'anno, presentando i vari impegni che caratterizzano un tempo che lui stesso definisce “di più intenso allenamento spirituale”, ha messo in risalto il digiuno. Hanno digiunato molti protagonisti dell'Antico Testamento (come, ad esempio, gli abitanti di Ninive dopo la predicazione di Giona); ha digiunato Giovanni Battista e lo stesso Gesù Cristo che ha vissuto per quaranta giorni nel deserto. Tanti santi hanno dato importanza al digiuno.
Tale pratica, afferma il Santo Padre, può darci la forza, la capacità di tenere a freno il peccato, di reprimere le bramosie del “vecchio Adamo”, di far sorgere nel nostro cuore la fame di realtà più profonde e il desiderio di riprendere la strada verso Dio.
Il digiuno rappresenta sempre un'esperienza importante per lottare contro ogni nostro egoismo, contro ogni attaccamento disordinato. È un invito ad una vita più sobria in cui usare con maggior equilibrio non solo cibi e bevande, ma anche parole, giochi, comportamenti per essere più vigilanti e attenti ai bisogni degli altri. La Quaresima, dice sempre il Papa, sia valorizzata in ogni famiglia e in ogni comunità cristiana per allontanare tutto ciò che distrae lo spirito e per intensificare ciò che nutre l'anima, aprendola all'amore di Dio e del prossimo.
Leggevo su una rivista che la Quaresima è uno spazio per far rivivere il primato di Dio. Un buon numero di persone della nostra comunità ha voluto dare questo primato a Dio partecipando alla S. Messa quotidiana; tanti bambini e genitori hanno partecipato alla preghiera del mattino prima della scuola; diverse persone hanno ascoltato la Parola di Dio nei Centri di ascolto e nella settimana degli Esercizi Spirituali serali.
Digiunare, pregare, compiere qualche gesto di carità verso il prossimo sicuramente costano sacrificio, ma ci aiutano a vivere bene questo tempo, preparandoci a celebrare una vera, cristiana e santa Pasqua.
Quando leggerete queste righe la Quaresima sarà terminata, ma i suoi impegni dovrebbero contraddistinguere ogni giorno la nostra vita: questa, infatti, non è altro che una più o meno lunga Quaresima che ci prepara alla Pasqua definitiva, la Pasqua del cielo.
Don Giuseppe
ripensandoci
“In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gn 1,1) - È il “c'era una volta” di questa storia con cui il Protagonista inizia a sprigionare il suo desiderio e la sua fantasia, chiamando all'esistenza l'universo, le piante, gli animali e collocando al vertice, in un giardino, l'uomo e la donna creati... a Sua immagine.
“Per questo gli Egiziani fecero lavorare i figli d'Israele trattandoli duramente” (Es. 1,13) - Purtroppo gli uomini chiamati a partecipare ad un grande progetto d'amore, mostrarono subito la loro impazienza e il loro egoismo, guastando i rapporti con il proprio coniuge, con il proprio fratello (Caino e Abele), con lo stesso Creatore che volevano raggiungere (e forse superare) solo mediante le proprie forze e la propria superbia (torre di Babele). Così i figli del patriarca Israele divennero schiavi di un altro popolo.
“Ora và! Io ti mando dal faraone. Fà uscire dall'Egitto il mio popolo, gli Israeliti!” (Es. 4,10) - Spesso le storie hanno dei punti focali, sui quali si regge l'economia dell'intero racconto. Una delle colonne portanti di questa storia è che Dio si prende cura del suo popolo, lo libera dalla schiavitù e, attraverso Mosè, gli propone un'alleanza e lo guida verso una terra promessa.
“Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Lv 19,18) - È esperienza quotidiana che per vivere su questa terra senza farci troppo male gli uni con gli altri, sono necessarie delle leggi che valgano per tutti. Il racconto, infatti, prosegue presentandoci una moltitudine, spesso intricata e non certo di piacevole ascolto, di norme, divieti, imposizioni, alcune delle quali sono e saranno sempre a fondamento della convivenza umana: non uccidere, non rubare, non dire falsa testimonianza. In mezzo a questo groviglio, però, risuona già uno strano comandamento: amare.
“Ora stabilisci per noi un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli” (1Sam 8,5) - Ad un certo punto della vicenda al popolo d'Israele non sembra più bastare il patto proposto da Dio (“Voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio”); esso reclama un'esperienza più concreta: un re in carne ed ossa (Saul, Davide, Salomone ecc.), un regno e un territorio ben definiti.
“Quando sentirai dalla mia bocca una parola, tu dovrai avvertirli da parte mia” (Ez. 3,17) - Fra resoconti di lotte per il potere, guerre, esili e ritorni, spunti di sapienza universale e raccolte di canti molto belli (tanto che ancor oggi li preghiamo nelle lodi e nei vespri), questa lunga storia viene animata dai profeti. Questi non erano specificatamente dei veggenti, e tanto meno dei patetici ciarlatani di oroscopi. I profeti ricordavano al popolo una Parola che non era la loro: non si stancavano di invitare la gente a ritornare al Signore, infondevano speranza quando tutto sembrava perduto, richiamavano alla realtà quando l'euforia del successo momentaneo appannava la verità degli eventi. Fra di loro c'erano persone colte e raffinate (Isaia), personaggi refrattari (Giona), o pastori alquanto rudi (Amos), che non risparmiavano termini ed espressioni infuocate. Singolare, poi, è la vicenda del profeta Osea a cui tocca in sposa una prostituta, proprio per sottolineare come l'alleanza proposta dal Signore poteva essere paragonata al più intimo rapporto che possa esistere tra un uomo e una donna, e come questo patto nuziale venisse spesso rovinato dagli uomini che, con facilità, si vendevano al primo idolo incontrato.
“E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi” (Gv. 1,14) - Dicevamo che i racconti spesso convergono in punti focali. Certamente tutta questa lunga storia trova il suo culmine nel fatto che il suo Protagonista, che aveva già parlato molte volte e in diversi modi, decide di rivelarsi pienamente agli uomini facendosi Egli stesso uomo, in uno spazio e in un tempo ben precisi, percorrendo strade, incontrando persone, stringendo amicizie, guarendo ammalati e chiamando gli uomini non più servi ma amici. Il Dio fatto uomo ha annunciato la salvezza, non con bei discorsi filosofici, ma amando i suoi sino alla fine, fino a lasciarsi inchiodare su una croce, morire e risorgere perché tutti avessero la vita e l'avessero in abbondanza.
“Vieni, Signore Gesù” (Ap. 22,20) - Dopo aver toccato il suo vertice e raccontato la vita delle prime comunità che, mediante la testimonianza e la guida degli amici più stretti di Gesù (gli apostoli), hanno potuto iniziare a vivere nella luce del Risorto e sorrette dalla forza del suo Spirito, questa storia non si conclude con il consueto “... e vissero tutti felici e contenti”. Le sue pagine finali, anzi, appaiono notevolmente inquietanti, tanto che ancora oggi quando nel mondo accade qualcosa di veramente brutto lo si definisce con lo stesso nome di quelle pagine. Ma forse queste ci dicono che, nonostante le grandi tragedie, le violenze o i piccoli egoismi quotidiani, non dobbiamo mai perdere la speranza di essere in cammino verso un giardino ancora più bello di quello iniziale, una città celeste, perché questa lunga storia continua ancora oggi: Lui continua a venire, continua a bussare alla porta della nostra vita, delle nostre case, delle nostre comunità.
In molte occasioni (S. Messa, incontri di preghiera, centri di ascolto, lectio divina) siamo invitati ad ascoltare e a riflettere su singoli brani della Sacra Scrittura, non sempre però veniamo sollecitati a prendere in mano la Bibbia per leggerla con calma, dalla Genesi all'Apocalisse.
Eppure se ci prendessimo l'impegno di leggerne anche solo due capitoli al giorno, in due anni avremmo la possibilità di cogliere che, seppur composta da libri molto diversi fra loro per stile e intensità, la Bibbia è davvero un'unica e grande lettera d'amore, come ci ricordava mons. Tino Clementi durante il Triduo dei Morti, una viva narrazione delle più profonde aspirazioni umane, del desiderio di incontro e di comunione tra Dio e l'uomo nella sua esistenza concreta.
Se, almeno a grandi linee, riuscissimo ad avere una certa amicizia con questa lunga storia d'amore, durante la S. Messa - esperienza in cui, ci ricorda il nostro Vescovo Luciano, la Sacra Scrittura raggiunge la sua massima attuazione ed efficacia in quanto, insieme all'Eucaristia, essa si fa presenza reale di Gesù Cristo - sicuramente ci sentiremmo ancor più a casa nostra perché in ascolto, insieme ad altri fratelli, di una parola che ci è cara, che ci è famigliare: la Parola di Colui che ci è Padre.
Franco
ripensandoci
In occasioni della Festa dei Santi Patroni di Brescia Faustino e Giovita, il nostro vescovo nella sua omelia ha parlato della necessità di trovare nella nostra vita il giusto equilibrio tra lavoro e preghiera.
Lo ha fatto partendo dal motto di San Benedetto, “Ora et Labora”. Citando la sua regola afferma che “Essa richiede che l'esistenza umana sia equilibrata nei suoi ritmi in modo che un'esigenza (quella del lavoro o quella della preghiera) non cancelli l'altra e non produca uno stile di vita unilaterale, parziale”.
Mons. Monari affronta una questione interessante: nella nostra società e in particolare in questo difficile periodo di crisi economica, la preghiera è vista come una perdita di tempo perché non porta denaro, ma il vescovo Luciano usa un'espressione che mi ha molto colpito: nella vita bisogna essere disposti anche a perdere tempo. Spiega: “Ci sono nella vita dell'uomo delle esperienze che non si possono fare senza impegnare tempo: l'amicizia, ad esempio, la custodia dei sentimenti, la vita di coppia, tutto ciò che ha a che fare con le relazioni umane. Per costruirle bisogna essere disposti a spendere tempo ed energie per ascoltare, capire, rispondere, sintonizzarsi...”.
Lo stesso atteggiamento è necessario averlo anche con Dio. Non ha senso, dice Monari, parlare di Dio, ma è necessario prima di tutto riuscire a parlare a Dio ed ascoltarlo, solo in questo modo si crea un rapporto serio con Lui. In altre parole mi permetto di dire che è fondamentale instaurare un autentico rapporto di amicizia con il Signore.
Solo se è capace di fare questo, l'uomo ritorna dall'incontro con Dio veramente arricchito: “Se davvero nella preghiera entriamo nel dialogo con Dio, dalla preghiera usciamo con il volto luminoso, cioè più liberi, più gioiosi, più ricchi di speranza, più capaci di discernere il bene e di combattere il male”.
Il vescovo vede la bellezza e l'armonia del mondo, ma, nello stesso tempo, non può chiudere gli occhi alle ingiustizie, alle sofferenze che mortificano l'esistenza di tanti uomini. Davanti a questo mondo opaco che non lascia passare l'amore di Dio, Monari come figlio fa un meraviglioso appello al Signore: “chiedo allora a Dio, nostro Padre, di intervenire e di toccare questo mondo con la forza della sua compassione, di instaurare il suo regno di verità e di vita, di santità e di grazia, di giustizia, di amore e di pace” ...
Continua il vescovo: “Dio operi dolcemente, attraverso le sue creature, in modo da orientare il corso del mondo verso la bellezza e il bene. E nel momento in cui chiedo questo offro a Dio, con libertà e con gioia, me stesso come strumento della sua azione: gli offro il mio cuore perché Dio ami, le mie mani perché Dio operi, i miei desideri perché Dio li plasmi secondo i suoi desideri”.
“La gloria di Dio è l'uomo vivente”, dice Sant'Ireneo. Ovunque l'uomo è servito, accolto, onorato, rispettato, aiutato, lì la gloria di Dio si manifesta.
Per superare i momenti di difficoltà che si possono presentare durante il servizio al nostro prossimo, dobbiamo contemplare il volto di Gesù crocifisso, perché, dice Mons. Monari, solo se questo volto sarà stampato nel nostro cuore potremo superare ogni ostacolo.
Infine il nostro vescovo dice che non è proibito essere ricchi, ma le persone che lo sono, hanno una grande responsabilità: quella di usare il denaro tenendo presente la sua funzione sociale, di procurare il bene di tutti. Inventare posti di lavoro, favorire l'educazione e la formazione e l'ingresso nel mondo del lavoro delle nuove generazioni, garantire l'assistenza sanitaria anche ai più poveri sono solo alcuni degli innumerevoli modi in cui la ricchezza può essere trasformata in solidarietà e diventare strumento di santificazione del nome di Dio. Ma questa trasformazione è difficile se non si dedica tempo alla preghiera: è quella preghiera che smaschera le promesse illusorie della ricchezza, che fa crescere nel cuore il desiderio e la forza del bene”.
Mons. Luciano Monari ha la capacità di entrare veramente nel cuore dei fedeli, per questo motivo ho deciso di utilizzare spesso le sue parole per questo articolo. Se posso darvi un consiglio: se avete la possibilità, leggete i Discorsi del nostro vescovo, per me rappresentano una ricchezza straordinaria.
Luca Dalla Palma
ripensandoci
Nelle scorse settimane la nostra Chiesa che è in Brescia ha salutato uno dei suoi figli che, chiamato dapprima al sacerdozio e in esso all'ordine episcopale, per incarico del Santo Padre il Papa Benedetto XVI ha assunto la guida di una sua porzione di Chiesa; “sua” non perché egli ne diventi il proprietario, bensì il custode e la guida.
Stiamo parlando di mons. Francesco Beschi che per qualche anno è stato Vescovo ausiliare di Brescia e che ora è Vescovo ordinario della diocesi di Bergamo: una Diocesi di tutto rispetto, a noi confinante, ricca di tanta storia e tradizione, di fede e con un numero ancora molto significativo di sacerdoti e religiosi.
Come sopra detto, egli è figlio della nostra terra, della nostra terra bresciana, e figlio della sua fede sebbene, nascendo il 6 agosto 1951, gli anni della sua formazione sacerdotale lo hanno visto attraversare quel periodo così drammatico della nostra storia italiana come è stato il '68, con le sue derive ideologiche, con i suoi abbandoni nel campo della fede, con le sue utopie. Per chi lo ha vissuto nella salda fede cattolica, questo periodo della storia costituisce una vera e propria scuola che rafforza nella convinzione che solo i saldi principi, e non l'anarchia, costruiscono la buona e salda società umana.
Così Francesco diventava sacerdote il 7 giugno del 1975 in una Chiesa allora guidata dall'amato ed eccellente Vescovo Luigi Morstabilini, distinguendosi subito per le sue doti umane e sacerdotali che, nel tempo, lo hanno portato ad assumere svariati incarichi di responsabilità: direttore dell'ufficio famiglia prima e del Centro pastorale Paolo VI, pro vicario Generale, fino all'elezione nel 2003 a Vescovo ed oggi, dal 15 marzo scorso, alla guida della Chiesa di Bergamo.
Forse è utile spiegare brevemente cosa vuol dire Vescovo, anche perché, se un tempo forse era messo più in evidenza il prestigio che la persona aveva ricoprendo tale incarico, oggi, in questi tempi non facili, va più compreso il difficile compito che il Vescovo ha nella guida di una Diocesi.
Vescovo è il modo con il quale nella nostra lingua italiana si traduce la parola greca “episcopos” cioè custode, più propriamente uno che guarda dall'alto “uno che guarda con il cuore” (Benedetto XVI), colui che è “pastore e guardiano delle anime” a imitazione del grande pastore che è Gesù stesso (cfr.1Pt. 2,25).
Così, unito al Papa, appartenente al Collegio apostolico, il Vescovo è chiamato a governare una Chiesa locale (diocesi) che, sebbene particolare, è rappresentativa della Chiesa universale.
Il Vescovo è successore degli Apostoli di Cristo e ha nella chiesa diritti e compiti originali, intrasferibili e di diritto divino. Si fa dunque chiaro che essere chiamati a questa vocazione (soprattutto oggi) è, più che un onore, un consistente compito e una immensa incombenza. Se un onore c'è nel Vescovo è quello che trionfi la fede in Cristo e che i suoi Cristiani siano diffusori dell'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. “Mediante la successione apostolica è Cristo che ci raggiunge: (…) è Lui a parlarci; mediante le loro mani è Lui che agisce nei sacramenti; nel loro sguardo è il suo sguardo che ci avvolge e ci fa sentire amati, accolti nel cuore di Dio”. (Benedetto XVI 10 maggio 2006).
Certo, il Vescovo da solo non può arrivare ovunque ed ecco allora che si avvale dell'aiuto dei suoi sacerdoti. Qui si apre una dolorosa e problematica ferita oggi nella chiesa che è quella del venir meno in tanti giovani della stima del sacerdozio. Ciò anche a causa di genitori che, probabilmente anche cristiani di lunga tradizione, vedono l'entrata in Seminario di un figlio o comunque la scelta di consacrarsi al Signore, come una sventura e non come un dono. Pensiamoci, famiglie che ci diciamo cristiane, perché anche nostra, davanti a Dio, è la responsabilità del venir meno delle vocazioni.
Nel saluto che il nostro Vescovo Luciano Monari ha rivolto a Francesco Beschi che si accingeva a lasciare Brescia per la sua nuova destinazione, alla fine per ben quattro volte è risuonata la parola “pazienza”. Veramente il Vescovo deve essere un uomo paziente, parola che nel suo significato etimologico indica sofferenza e amore, paziente così, come Gesù, perché tanti e tanti sono i problemi che spesso è chiamato ad affrontare, tante e tante le persone che deve ascoltare e soprattutto tanta la fede che deve infondere, perché da essa nasca la speranza e cresca la carità.
Le parole del Vescovo i cristiani devono ascoltarle, leggerle e meditarle...
Con il nostro affetto e la nostra preghiera ora accompagniamo il nuovo Vescovo di Bergamo nel suo ministero chiedendo a Maria, Regina degli Apostoli, di mantenere tutti i Vescovi del mondo nella sapienza e nella verità e soprattutto uniti al Papa, e chiediamo senza paura, senza vergogna o senso di inferiorità ai nostri giovani di pensare quantomeno la possibilità di abbracciare il sacerdozio... I doni del Signore sono grandi e, chissà, forse Borno un giorno avrà un altro Vescovo...
Don Alberto
ripensandoci
Il corrente anno è stato proclamato dalle Nazioni Unite l'Anno dell'Astronomia, in ricordo dei 400 anni dell'invenzione del cannocchiale da parte di Galileo Galilei e delle prime scoperte da lui fatte nei cieli, puntando verso le stelle quel nuovo strumento.
È pertanto l'anno del ricordo della nascita ufficiale dell'astronomia in senso moderno. Anche nei secoli prima di Galileo vi erano state qualificate e non poche osservazioni del cielo (basti pensare alla trigonometria tolemaica o, più tardi, allo studio delle comete e della fluidità dei cieli), ma il telescopio permise di andare ben oltre, di vedere realtà sconfinate non visibili a occhio nudo e di andare più in profondità negli spazi siderali. Cosi Galileo scopri che le stelle sono enormemente più numerose di quelle che si vedono a occhio nudo; scoprì inoltre i satelliti di Giove, le montagne della Luna, le macchie solari...
Obiettivo di questo evento culturale - che coinvolge circa 140 Nazioni - è incoraggiare una rinnovata consapevolezza del posto occupato dall'uomo nell'universo e invitare tutti a sperimentare la meraviglia e lo stupore che nascono dall'osservazione del cielo.
Tra i Paesi promotori dell'iniziativa dell'Anno Astronomico c'è l'Italia, che l'ha lanciata attraverso l'Unione Astronomica Internazionale. Anche la Santa Sede partecipa mediante la Specola Vaticana e il Pontificio Consiglio della Cultura, che considera quest'anno un'occasione privilegiata per approfondire il dialogo tra scienza e fede.
Questa ricorrenza è un invito a guardare il nostro cielo di Lombardia che - come scrive Manzoni - “è cosi bello quand'è bello, cosi splendido, cosi in pace!”. Un invito a puntare gli occhi verso il cielo stellato, in una notte fonda, senza avere la pretesa di numerare tutte le stelle.
Il cielo stellato ha sempre rappresentato per l'uomo, fin dagli albori della civiltà, uno spettacolo affascinante che suscita emozioni profonde e induce a pensare.
I cantori del cielo delle diverse epoche hanno sempre trovato attraente la volta stellata, ma anche sorgente di emozioni trascendenti ed orizzonte in cui si rispecchia il mistero del divino e dell'umano.
Per il salmista, “i cieli narrano la gloria di Dio” (Salmo 19). La contemplazione del firmamento ha fatto esclamare a San Francesco: “Laudato sii, mi Signore, per sora lune e le stelle, in cielu l'hai formate clarite et pretiose et belle" (Cantico delle creature, versi 10-11).
Accanto al Santo di Assisi, la voce più alta e quella di Dante che, nella Divina Commedia, nomina il cielo ben 172 volte e termina tutte e tre le parti del suo poema con la parola “stelle”. Infatti chiude la Cantica dell'Inferno con “e quindi uscimmo a riveder le stelle”, e la seconda Cantica, quella del Purgatorio, con l'espressione: “salire alle stelle”; l'ultima riga del Paradiso è: “l'Amore che muove il sol e l'altre stelle”.
Nel nostro tempo si contempla poco il cielo stellato, anche se nel linguaggio quotidiano citiamo spesso il cielo: “Apriti cielo!... Santo cielo!... Non sta né in cielo né in terra!... Per amor del cielo!... Che il ciel m'aiuti!... Toccare il cielo con un dito... Volesse il cielo!...” eccetera. A forza di guardare continuamente a destra o a sinistra, si dimentica di guardare in alto e, quello che è peggio, si corre il rischio di smarrire la strada per il cielo.
Il filosofo e pensatore Immanuel Kant, nella sua opera “Critica della ragion pratica” ha scritto: “Due cose riempiono l'animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e a lungo il pensiero vi si sofferma: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me”.
Se l'Anno dell'Astronomia ci porterà a soffermarci pensosi qualche sera a contare nel cielo le stelle ed a ammirare gli infiniti spazi del firmamento, l'iniziativa avrà raggiunto il suo vero successo.
Card. Giovanni Battista Re
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All'interno della Settimana della Vita, anche la nostra comunità Domenica 1 Febbraio ha celebrato la Giornata per la Vita con la S. Messa delle ore 9,30 in cui sono stati ricordati in particolare i bambini battezzati nell'anno precedente; con la preghiera dell'Angelus sul sagrato e il lancio dei palloncini a cui erano stati appesi i messaggi per la vita scritti da bambini e ragazzi; con una tombolata proposta dagli adolescenti agli anziani ospiti di “Casa Albergo”.
La vita è fatta per la serenità e la gioia. Purtroppo può accadere, e di fatto accade, che sia segnata dalla sofferenza. Ciò può avvenire per tante cause. Si può soffrire per una malattia che colpisce il corpo o l’anima; per il distacco dalle persone che si amano; per la difficoltà a vivere in pace e con gioia in relazione con gli altri e con se stessi.
La sofferenza appartiene al mistero dell’uomo e resta in parte imperscrutabile: solo «per Cristo e in Cristo si illumina l’enigma del dolore e della morte» (GS 22).
Se la sofferenza può essere alleviata, va senz’altro alleviata. In particolare, a chi è malato allo stadio terminale o è affetto da patologie particolarmente dolorose, vanno applicate con umanità e sapienza tutte le cure oggi possibili.
Chi soffre, poi, non va mai lasciato solo. L’amicizia, la compagnia, l’affetto sincero e solidale possono fare molto per rendere più sopportabile una condizione di sofferenza. Il nostro appello si rivolge in particolare ai parenti e agli amici dei sofferenti, a quanti si dedicano al volontariato, a chi in passato è stato egli stesso sofferente e sa che cosa significhi avere accanto qualcuno che fa compagnia, incoraggia e dà fiducia.
A soffrire, oggi, sono spesso molti anziani, dei quali i parenti più prossimi, per motivi di lavoro e di distanza o perché non possono assumere l’onere di un’assistenza continua, non sono in grado di prendersi adeguatamente cura. Accanto a loro, con competenza e dedizione, vi sono spesso persone giunte dall’estero. In molti casi il loro impegno è encomiabile e va oltre il semplice dovere professionale: a loro e a tutti quanti si spendono in questo servizio, vanno la nostra stima e il nostro apprezzamento.
Talune donne, spesso provate da un’esistenza infelice, vedono in una gravidanza inattesa esiti di insopportabile sofferenza. Quando la risposta è l’aborto, viene generata ulteriore sofferenza, che non solo distrugge la creatura che custodiscono in seno, ma provoca anche in loro un trauma, destinato a lasciare una ferita perenne. In realtà, al dolore non si risponde con altro dolore: anche in questo caso esistono soluzioni positive e aperte alla vita, come dimostra la lunga, generosa e lodevole esperienza promossa dall’associazionismo cattolico.
C’è, poi, chi vorrebbe rispondere a stati permanenti di sofferenza, reali o asseriti, reclamando forme più o meno esplicite di eutanasia. Vogliamo ribadire con serenità, ma anche con chiarezza, che si tratta di risposte false: la vita umana è un bene inviolabile e indisponibile, e non può mai essere legittimato e favorito l’abbandono delle cure, come pure ovviamente l’accanimento terapeutico, quando vengono meno ragionevoli prospettive di guarigione. La strada da percorrere è quella della ricerca, che ci spinge a moltiplicare gli sforzi per combattere e vincere le patologie – anche le più difficili – e a non abbandonare mai la speranza.
La via della sofferenza si fa meno impervia se diventiamo consapevoli che è Cristo, il solo giusto, a portare la sofferenza con noi. È un cammino impegnativo, che si fa praticabile se è sorretto e illuminato dalla fede: ciascuno di noi, quando è nella prova, può dire con San Paolo «sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne» (Col 1,24).
Quando il peso della vita ci appare intollerabile, viene in nostro soccorso la virtù della fortezza. È la virtù di chi non si abbandona allo sconforto: confida negli amici; dà alla propria vita un obiettivo e lo persegue con tenacia. È sorretta e consolidata da Gesù Cristo, sofferente sulla croce, a tu per tu con il mistero del dolore e della morte. Il suo trionfo il terzo giorno, nella risurrezione, ci dimostra che nessuna sofferenza, per quanto grave, può prevalere sulla forza dell’amore e della vita.
Il Consiglio permanente
della Conferenza Episcopale Italiana
Roma, 7 ottobre 2008 - Memoria della Beata Vergine del Rosario
ripensandoci
Faccio parte di un gruppo di amici di don Giuseppe e riporto qui una bella esperienza che ho vissuto con loro a Borno il 22 febbraio, la sera dell'apertura del Triduo. Il gruppo si è formato nel corso di parecchi anni attraverso una serie di incontri che la vita ci ha riservato nei suoi sviluppi insospettati. Ecco che da Brescia, Roncadelle, Rovato, lseo, Milano, Garzone, arrivano a Borno, su invito di don Giuseppe, una ventina di persone perché lui, proprio lui, è un punto di riferimento per tutti noi.
L'abbiamo conosciuto un po' alla volta mentre ci accompagnava sui suoi monti o nell'AIta Valcamonica, e
negli incontri conviviali che una o due volte all'anno si organizzano perché è bello stare insieme. Che cosa ci sorprende sempre di lui? È semplice, sa ascoltare, ha un sorriso disarmante, accenna ai lutti della sua gente, ma è subito aperto alla vita e al nuovo, ti fa dono dei prodotti della montagna che prepara con le sue mani, conosce le malghe, gli spinaci selvatici, (le sue cicorie o i funghi sott'olio sono squisiti) e, quando col passo svelto e sicuro apre la via sui sentieri, senti che la natura l'ha impastato. E poi sullo scaffale dei libri ho notato che ci sono i testi della Vanni Rovighi che in Cattolica a Milano era un pilastro della filosofia: dentro di lui c'è la quotidianità filtrata quindi dal sapere teologico della tradizione millenaria del Cristianesimo.
È orgoglioso della sua parrocchia e ti mostra con compiacimento i filmati con suoi fedeli che sfilano davanti a Giovanni Paolo II.
Arriviamo poco prima delle 19: l'aria è tersa e gelida; Venere, bellissima, brilla sopra la macchia nera della montagna. Galileo 400 anni fa puntava sull'astro il cannocchiale e rivoluzionava l'astronomia.
Entriamo nella chiesa affollata. La S. Messa si apre col canto fermo e solenne di don Giuseppe, segue l'omelia erudita del predicatore esterno che narra, con le citazioni bibliche, tutta la storia della Salvezza, e poi una serie interminabile di canti, litanie, preghiere.
Si accendono all'improvviso le luci della machina del Triduo: è tale la cascata di suoni e di luce che l'animo è preso da una suggestione in cui si mescolano riflessioni, emozioni e ricordi di tempi lontani. In questa specie di confusa meraviglia, cerco un filo cui aggrapparmi per non essere travolto dalla spettacolarità e dalla comunione psicologica che si è creata.
Durante il canto del Pange lingua, lo stupendo inno medioevale che celebra l'Eucarestia, trovo due versi che mi colpiscono: “Praestet fides supplementum/ sensuum defectui” (La fede dia un aiuto alla insufficienza dei sensi); frase che nel contesto si riferisce al tentativo di accostarsi e capire, per quanto possibile, il mistero dell'Eucarestia: con i sensi vediamo e gustiamo il pane e il vino, con la fede vediamo le cose che non appaiono e cioè in questo caso il Corpo e il Sangue di Cristo.
Crediamo in ciò che non vediamo, in ciò che non si può vedere, proprio perché il mistero nel suo contenuto profondo è impenetrabile. Ecco il punto cruciale: la fede. E mi si affollano le frammentarie conoscenze e ricordi sul tema: anzitutto Dante che per continuare il suo viaggio nei cieli del Paradiso (canto XXlV) deve, come uno scolaretto, subire l'interrogazione di S. Pietro e rispondere alla domanda: “Che cos'è la fede?”.
Naturalmente Dante non è uno sprovveduto e risponde con la definizione di S. Paolo “Fides est argumentum non apparentium” (La fede è la prova di cose che non appaiono). inoltre ricordo le definizioni di S. Agostino e quelle di S. Tommaso nel quale ultimo quell'argumentum viene interpretato non come una prova logica in senso filosofico o scientifico, ma dal punto di vista etimologico, ossia come stimolo del pensiero (arguens intellectum) verso l'eternità, come desiderio profondo e come aspirazione ultima dell'uomo.
Ma non mi è possibile concentrarmi sui pensieri e mi abbandono al canto unanime dei fedeli, partecipando alle preghiere ascoltate e apprese fin da piccolo. L'una mi ricorda la mia chiesa immensa con i pulpiti delle dispute, l'altra quel lessico latino incomprensibile, ma incantevole, e poi le formule del catechismo memorizzate e in fondo la forza persistente del Cristianesimo. Alla fine tutto si acquieta: le voci tacciono, le luci principali si spengono e mi chiedo il senso di tutto il tripudio che sto vivendo: è una metafora, è un simbolo in cui lo sfoggio della sensorialità non è fine a se stesso, ma rinvia a un'altra realtà, quella divina.
L'illuminazione fisica rappresenta e indica la luce metafisica. Con la fede si oltrepassa il mondo fisico e ci si apre al mondo divino, in cui trova spiegazione tutta la storia dell'universo e dell'uomo.
Un ultimo itinerario sulle scalette della machina del Triduo, di cui apprezzo il sapiente lavoro antico dei costruttori, e poi all'aperto ritrovo l'aria pungente e il cielo stellato. Segue il momento conviviale con la conversazione che si dipana in molte direzioni e don Giuseppe al centro, come in una Cena evangelica.
Infine i saluti e lo scambio dei doni. Venere non c'è più, è tramontata dietro la montagna nera e segue, come tutti gli esseri, il corso degli spazi e del tempo.
Durante il ritorno con le mogli, tra una chiacchiera e l'altra, mentre la luce dei fari buca il buio della notte, all'improvviso l'amico che guida esce con la domanda: “Che cos'è l'eternità? Non mi piacerebbe fosse immobilità”. Non so rispondergli e non voglio cimentarmi a rintracciare in S. Agostino le riflessioni sul tempo e sull'eternità. Certamente anche lui è colpito dalla cerimonia perché confessa che è molto felice di avere amici che lo fanno partecipe di esperienze cosi belle ed intense.
Dino Visini
ripensandoci
Nei Centri di Ascolto si è affrontato anche il brano del Vangelo dove i discepoli chiedono a Gesù di insegnar loro a pregare e il Signore dona loro la prima e più grande preghiera cristiana. Il gruppo di Paline, dopo aver meditato il Padre Nostro, ha provato a riesprimerlo con proprie parole.
Padre Caro,
Padre di tutti quanti noi esseri umani,
Padre Nostro
Tu che sei nei cieli
e nei nostri cuori
e al nostro fianco
e ovunque noi si volga lo sguardo,
che sei nei cieli
sia reso grande il Tuo nome,
da tutti gli uomini in ogni tempo,
così che tutti possano sempre riconoscere
che Tu sei Dio.
sia santificato il tuo nome
Qui ed ora venga il Tuo regno
e la nostra casa sia la Tua casa in ogni momento;
abita con noi Padre, continuamente,
affinché l’umanità sia sempre più di Cristo
venga il tuo Regno
e tutte le cose vengano fatte secondo il Tuo Amore
e il Tuo Amore sia il primo desiderio di noi tuoi figli
e come è lì, nei cieli, dove Tu sei ora,
così sia qui, sulla terra, dove Tu sei con noi.
sia fatta la Tua volontà
come in cielo
così in terra.
Dacci oggi, o Padre, il Pane di cui abbiamo bisogno:
pane per lo Spirito e pane per il corpo.
Dacci oggi il nostro Pane quotidiano
Perdonaci per la nostra poca fede
che è così piccola
che troppo spesso dimentichiamo
che Tu sei Nostro Padre.
e rimetti a noi i nostri debiti
Perdonaci così che anche noi impariamo a perdonare
a tutti quelli che si dimenticano che siamo fratelli.
come noi li rimettiamo ai nostri debitori
Aiutaci a non cadere mai nel momento
in cui le tentazioni del mondo ci provano
e non indurci in tentazione
e allontana da noi il male in ogni sua forma
ma liberaci dal male.
Amen
Amen
I tuoi figli di Paline
ripensandoci
Una pala della nostra Chiesa Parrocchiale, quella dopo il Battistero, riporta dipinto tra gli altri San Sebastiano, che è raffigurato nudo, legato e trafitto da frecce. Questo Santo è il patrono della Polizia Municipale. Da due anni, insieme a molti colleghi dei Comuni e della Provincia, partecipo in Duomo Vecchio a Brescia alla messa officiata in genere dal Vescovo titolare o ausiliare, in occasione della festa patronale che cade il 20 gennaio.
Quest’anno è stata celebrata da Mons. Francesco Beschi, da poco nominato Vescovo di Bergamo. Una annotazione: nell’omelia Mons. Beschi ha esortato noi e quanti fanno questo lavoro a superare la cultura della diffidenza con quella della fiducia; parole valide anche per chi non fa il vigile.
Durante la celebrazione è stato letto un riassunto della storia di questo martire dei primi tempi della Chiesa. La specifica comune a tutti i martiri è quella di dare la vita per la fede in Cristo e anche la storia di Sebastiano testimonia questo. Facendo una ricerca in internet ho trovato delle notizie maggiori rispetto al riassunto sentito alla messa, che possono, senza ulteriori e superflui commenti, aiutare la riflessione in questi tempi forti.
Le notizie storiche su s. Sebastiano sono davvero poche (il più antico calendario della Chiesa di Roma, la “epositio martyrum” risalente al 354, lo ricorda al 20 gennaio e il “Commento al salmo 118” di s. Ambrogio), ma la diffusione del suo culto ha resistito ai millenni ed è tuttora molto vivo. Ben tre Comuni in Italia portano il suo nome e tanti altri lo venerano come santo patrono.
Pala dell'altare laterale della nostra chiesa parrocchiale
Maggiori informazioni sono riportate dalla “Passio”, una leggenda scritta probabilmente nel V secolo dal monaco Arnobio il Giovane. Sebastiano, che secondo s. Ambrogio era nato e cresciuto a Milano, da padre di Narbona (Francia meridionale) e da madre milanese, fu educato nella fede cristiana, si trasferì a Roma nel 270 e intraprese la carriera militare intorno al 283, fino a diventare tribuno della prima coorte della guardia imperiale a Roma, stimato per la sua lealtà e intelligenza dagli imperatori Massimiano e Diocleziano, che non sospettavano fosse cristiano.
Grazie alla sua funzione poteva aiutare con discrezione i cristiani incarcerati, curare la sepoltura dei martiri e riuscire a convertire militari e nobili della corte, dove era stato introdotto da Castulo, domestico della famiglia imperiale, che poi morì martire.
La leggenda racconta che un giorno furono arrestati due giovani cristiani, Marco e Marcelliano, figli di un certo Tranquillino. Nel tetro carcere i due fratelli stavano per cedere alla paura, quando intervenne il tribuno Sebastiano riuscendo a convincerli a perseverare nella fede; mentre nel buio della cella egli parlava ai giovani, i presenti lo videro circondato di luce. Tra loro c’era anche Zoe, moglie del capo della cancelleria imperiale, diventata muta da sei anni. La donna si inginocchiò davanti a Sebastiano il quale, dopo aver implorato la grazia divina, fece un segno di croce sulle sue labbra restituendole la voce.
Sebastiano per la sua opera di assistenza ai cristiani, oltre che per aver suscitato molte conversioni, fu proclamato da papa s. Caio “difensore della Chiesa”. Secondo la tradizione, dopo aver seppellito i santi martiri Claudio, Castorio, Sinforiano, Nicostrato, detti i Quattro Coronati sulla via Labicana, fu arrestato e portato da Massimiano e Diocleziano, il quale, già infuriato per la vociferata presenza dei cristiani persino nel palazzo imperiale, lo apostrofò così: “Io ti ho sempre tenuto fra i maggiorenti del mio palazzo e tu hai operato nell’ombra contro di me, ingiuriando gli dei”.
Sebastiano fu condannato ad essere trafitto dalle frecce; legato ad un palo in una zona del colle Palatino chiamato “campus”, fu colpito seminudo da tante frecce da sembrare un riccio. Creduto morto dai soldati fu lasciato lì in pasto agli animali selvatici, ma la nobile Irene, vedova del già citato s. Castulo, andò a recuperarne il corpo per dargli sepoltura, secondo la pia usanza dei cristiani che sfidavano il pericolo e il rischio di venire arrestati pur di seppellire i loro defunti.
Accortasi che non era morto, Irene lo trasportò nella sua casa sul Palatino e lo curò dalle numerose lesioni. Miracolosamente Sebastiano riuscì a guarire e, nonostante il consiglio degli amici di fuggire da Roma, egli decise di proclamare la sua fede davanti agli stessi Diocleziano e Massimiano, proprio mentre gli imperatori si recavano per le funzioni al tempio eretto da Elagabolo in onore del Sole Invitto e poi dedicato ad Ercole. Superata la sorpresa e dopo aver ascoltato i rimproveri di Sebastiano per la persecuzione contro i cristiani, Diocleziano ordinò che questa volta fosse flagellato a morte.
L’esecuzione avvenne nel 304 nell’ippodromo del Palatino e il corpo fu gettato nella Cloaca Massima, affinché i cristiani non potessero recuperarlo e anche come segno pagano del proprio trionfo su Dio: impedire la sepoltura di un corpo per impedirne anche la resurrezione.
La tradizione dice che il martire apparve in sogno alla matrona Lucina, indicandole il luogo dov’era approdato il cadavere e ordinandole di seppellirlo nel cimitero “ad Catacumbas” della Via Appia.
Le catacombe, oggi dette di San Sebastiano, erano chiamate allora “Memoria Apostolorum” perché, dopo la proibizione dell’imperatore Valeriano del 257 di radunarsi e svolgere celebrazioni nei cosiddetti cimiteri cristiani, i fedeli raccolsero le reliquie degli Apostoli Pietro e Paolo dalle tombe del Vaticano e dell’Ostiense, trasferendoli sulla via Appia, in un cimitero considerato pagano. Costantino nel secolo successivo fece riportare nei luoghi del martirio i loro corpi, dove poi vennero costruite le celebri basiliche, mentre Via Appia si costruì la “Basilica Apostolorum” in memoria dei due apostoli.
Fino a tutto il VI secolo, i pellegrini che vi si recavano attirati dalla “memoria” dei ss. Pietro e Paolo, visitavano in quel cimitero anche la tomba di s. Sebastiano, la cui figura era per questo diventata molto popolare e quando nel 680 si attribuì alla sua intercessione la fine di una grave pestilenza a Roma, il martire venne eletto taumaturgo contro le epidemie e la chiesa cominciò ad essere chiamata “Basilica Sancti Sebastiani”. Il santo venerato il 20 gennaio, è considerato il terzo patrono di Roma, dopo i due apostoli Pietro e Paolo.
Le sue reliquie, sistemate in una cripta sotto la basilica, furono divise durante il pontificato di papa Eugenio II (824-827) il quale ne mandò una parte alla chiesa di S. Medardo di Soissons il 13 ottobre 826; mentre il suo successore Gregorio IV (827-844) fece traslare il resto del corpo nell’oratorio di San Gregorio sul colle Vaticano, inserendo il capo in un prezioso reliquiario, che papa Leone IV (847-855) trasferì poi nella Basilica dei Santi Quattro Coronati, dove tuttora è venerato.
Gli altri resti di s. Sebastiano rimasero nella Basilica Vaticana fino al 1218, quando papa Onorio III concesse ai monaci cistercensi, custodi della Basilica di s. Sebastiano, il ritorno delle reliquie risistemate nell’antica cripta; nel XVII secolo l’urna venne posta in una cappella della nuova chiesa, sotto la mensa dell’altare, dove si trovano tuttora.
Nell’arte antica s. Sebastiano fu variamente raffigurato come anziano, uomo maturo con o senza barba, vestito da soldato romano o con lunghe vesti proprie di un uomo del Medioevo.
Dal Rinascimento in poi diventò nell’arte l’equivalente degli dei ed eroi greci, celebrati per la loro bellezza come Adone o Apollo. Ispirandosi poi ad una leggenda del VIII secolo, secondo la quale il martire sarebbe apparso in sogno al vescovo di Laon, nelle sembianze di un efebo, pittori e scultori (fra i quali anche Michelangelo nel “Giudizio Universale”) cominciarono a raffigurarlo come un bellissimo giovane nudo, legato ad un albero o colonna e trafitto dalle frecce del primo martirio (non tenendo conto che fosse poi morto con il flagello).
Gabriele
ripensando alla famiglia
Vita di coppia
A voi è stato dato un dono grande insieme ad una responsabilità piena di speranza: mostrare nella Chiesa e nel mondo l’amore di Dio che si fa piena comunione, fedeltà operosa e fecondità generosa.
Sono cosciente delle sfide di questo tempo e dei continui attacchi culturali alla relazione coniugale, alla vita e alla famiglia; non di meno, però, sono anche certo che la grazia del Signore, a voi donata in maniera sovrabbondante, è efficace e che Colui che ha iniziato in voi l’opera buona della santità la porterà a compimento, anche nelle personali debolezze e fragilità.
Questo è solo l’inizio di una lunga e bella “Lettera agli sposi” scritta dal nostro vescovo Luciano. In queste poche righe c’è tutta la storia di chi decide di vivere in coppia con la benedizione di Dio. Quanto è difficile oggi mettere su famiglia! Tanti sono i problemi e le difficoltà materiali, tante sono anche le fragilità psicologiche, tante le tentazioni e le false illusioni della visione di un mondo fatto solo di benessere, del tutto dovuto e subito, alla ricerca della felicità.
È tanto difficile oggi restare uniti “finché morte non ci separi”. Mi si affolla un fiume di domande, di idee, di pensieri, di frasi dette dai nostri saggi nonni; mi sento stordita, confusa.
La vita non è tutta rose e fiori...
La vita è una rosa con le spine...
Pane e cipolla e cuore contento...
Cos’è che manca alla base di una sana e santa vita di coppia?
Per me, il film “La vita è bella “ di Benigni è un insegnamento a saper vivere, a saper affrontare i problemi che si presentano nella vita e a saperne trarre il lato positivo, persino nei momenti più tristi e terribili.
Perché non impariamo a guardare chi sta peggio di noi ma che, nonostante tutto, sa sorridere anche nella disgrazia e che ringrazia Iddio per la dura prova ricevuta, perché ha imparato a riconoscere il senso dell’amore e del sacrificio? Queste sono persone sublimi che certamente sono supportate da una grande fede, ma anche da un amore immenso.
Ecco la vera parola chiave della vita. Il legame di vero amore non conosce nubi e anzi raggiunge maturità attraverso le tribolazioni. Amore vuol dire solo dare, dare, dare senza mai stancarsi e senza mai pensare di dare per ricevere, cosa che purtroppo è insita nella nostra vita.
In ogni unione, anche in quelle più riuscite, si trovano diversità di carattere, imperfezioni, debolezze che potrebbero essere una minaccia incessante alla tanto desiderata felicità che per me personalmente non esiste, ma esiste la serenità, quella interiore, che ti dà la forza di saper affrontare ogni giorno che il Signore ci dà da vivere.
Nella coppia, quindi, deve esistere l'amore (non infatuazione o passione momentanea) che ha bisogno anche di essere supportato da tanta pazienza (di cui parlano tanto i nostri cari nonni), dal rispetto e dalla fiducia reciproci, dalla lealtà e sincerità e, non ultimo, dal dialogo; se volete anche dalle discussioni e dalle liti che comunque servono per crescere insieme, per comprendersi sempre più perché come coppia si è compagni l’un dell’altro e sostegno l’un dell’altro e quindi bisognosi entrambi di aiuto per smussare i propri caratteri e i propri difetti, per imparare anche a cedere. Saper cedere è un’arte e se non la si usa la vita di coppia diventa un inferno. Questo avverrà lentamente perché non si finisce mai di conoscersi, in quanto le situazioni nella vita sono sempre diverse e inaspettate.
Potrebbe essere questa la ricetta di una vita all’insegna dello stare bene con se stessi, con gli altri e non ultimo con Dio? È poi così difficile?
Una volta raggiunta la serenità, quale grande responsabilità si assume la coppia verso la società, verso i figli che vivono guardando alla famiglia, ai veri valori che essa riesce a trasmettere e a inculcare: la fede, l’onestà, il senso del dovere, l’intesa e l’armonia familiare.
Non me ne vogliano le donne se concludo con una poesia sulla donna:
Donna, necessaria all’uomo smarrito
dietro le sue vuote farneticazioni!
Donna, amoroso palpito di vita,
che conosci il mistero,
conducimi per mano nel cammino
e fa’ che la tua immagine
mi persuada a cercar le cose belle.
Donna, nell’ora del comune errore,
salva l’amore, salva il focolare
dove per tanti millenni
s’è conservata accesa e si è trasmessa
la fiaccola della civiltà umana.
Donna, vicina a Dio, forte e fidente,
all’uomo d’oggi,
orgogliosamente irretito nei labirinti ciechi
della ragione senza una speranza,
mostra gli spazi aperti all’infinito.
Donna, donna è questa la tua missione:
o tu la compi generosamente
o tutti insieme a te ci perdiamo.
Perché non pensiamo di ritrovarci come coppie a confrontarci e a scambiarci idee e esperienze, per poterci aiutare nella nostra crescita di convivenza e di responsabilità di vita, in un momento in cui tutto sembra non aver un significato?
Francesca Paradies
ripensando alla famiglia
“Siamo la coppia più bella del mondo e ci dispiace per gli altri
che sono tristi e sono tristi perché non sanno più cos'è l'amor!
Il vero amore per sempre unito dal cielo, nessuno in terra,
anche se vuole, può separarlo mai. L'ha detto Lui!”
Nei sette sabato sera che ci hanno visti impegnati, assieme ad altre nove coppie, nel corso in preparazione al matrimonio, molti sono stati gli spunti di riflessione proposti da don Giuseppe.
Di certo con il ritornello della celebre canzone di Adriano Celentano e Claudia Mori non si può pretendere di riassumerli tutti. Esso però può rappresentare a pieno titolo una delle più belle definizioni del matrimonio cristiano così come se ne è parlato in questi incontri.
Ogni coppia di coniugi, infatti, non può non considerarsi “bella”, in quanto parte di un progetto divino per il quale due persone sono state generate per essere “fatte l'una per l'altra”.
Solo se l'uomo e la donna sono consapevoli che la loro unione è il frutto di un gesto d'amore più grande di cui sono resi testimoni, potranno evitare quella “tristezza” di fondo che caratterizza molte delle nostre famiglie.
In una realtà in cui la parola “separazione” è ormai all'ordine del giorno, questo “vero amore per sempre unito dal cielo” sembra sempre più raro, e perciò forse più necessario.
Per questo il nostro ringraziamento va a don Giuseppe che, con i suoi racconti, le sue battute, le letture, le riflessioni ed i molti consigli, ha reso a noi più chiara la via che ci condurrà al matrimonio ed alla vita insieme.
Grazie soprattutto perché ci ha saputo ricordare che questo “vero amore” sarà tale solo se realmente rappresenterà quel che “ha detto Lui”.
Antonella e Valerio
ripensando alla famiglia
L'esperienza dell'apprendimento tocca da vicino ogni genitore, e, di rimando, ogni figlio, divenendo a volte un punto cruciale nella relazione di entrambi.
Per il genitore è un banco di prove: deve imparare a decodificare correttamente anche messaggi impliciti generati dall'esperienza scolastica. Pensiamo, ad esempio, alla disperazione del bambino alla porta della scuola... Non è semplicemente capriccio o sintomo di scorso impegno, ma può comunicare, anche se in modo inusuale, il suo principale bisogno del momento. Può ad esempio voler dire: “...ma io ho bisogno di essere amato... di essere rassicurato... di capire che senz'altro tu poi mi verrai a prendere...”; oppure “... ma sarò lo in grado di essere all'altezza di mio fratello? Io ho bisogno di distinguermi da lui!...”.
Viceversa, il bambino che fa della scuola il centro di tutta la sua vita e che appare come uno studente modello, dietro questa dedizione totale e assorbente nel confronti dell'impegno scolastico può, a volte, celare frustrazioni o nodi irrisolti della sua esperienza relazionale; così che il successo scolastico rappresenta per lui il riscatto da sconfitte o delusioni sperimentate in altri ambiti.
Possiamo dire che l'impatto con le scuola costituisce un momento importante nella crescita del bambino-ragazzo, e non solo per quel che riguarda i suoi processi di apprendimento e lo sviluppo delle sue capacità intellettive, ma anche per la maturazione delle sue emozioni e della sua capacità di comunicarle egli altri, in primo luogo ai genitori.
L'esperienza sul banchi - pur se fondamentale - non è certo l'unica fonte di apprendimento! La famiglia rimane la prima ed insostituibile risorsa anche in questo ambito. Non tanto per ciò che i genitori a parole dicono o raccomandano, ma per quello che con l'esempio testimoniano. Vedere un padre o una madre (o, ancor meglio, entrambi!) che ama il proprio lavoro, che è preciso e responsabile nel rispetto delle regole, che appena può si rende autonomo magari apprendendo, anche con fatica, qualcosa che prima non conosceva, che durante il tempo libero ha spesso in meno un libro o un giornale, che si informa su quanto accede nel mondo, che è attento alle esigenze dell'ambiente in cui vive, che manifesta interesse e passione per ciò che fa, questo costituisce un importantissimo insegnamento.
L'apprendimento passa attraverso le mille occasioni della più scontata vita quotidiana: il modo di guardare le tv, scegliendo un canale o subendolo; la scelte di un certo tipo dl vacanza o di un viaggio; l'organizzazione del tempo libero; la decisione per un acquisto: tutto può essere insegnamento e, a certe condizioni, divenire apprendimento!
Le condizioni chiamano in causa il mondo emotivo-affettivo del bambino. Mentre un tempo si riteneva che i processi di apprendimento dipendessero esclusivamente - o per lo meno prevalentemente - da fattori di ordine cognitivo, oggi si è convinti che essi derivino tantissimo da elementi di tipo emozionale. Pertanto se il bambino si sente accettato, rispettato, incoraggiato, valorizzato, amato, più facilmente riesce ed imparare.
L'apprendimento passa, infine, attraverso la disponibilità di un genitore (o di un educatore) nel rispondere alle domande (a volte pressanti) del figlio (o dell'alunno). E anche quando a queste domande non si riesce a dare una risposta (un adulto non è una “enciclopedia del sapere”), il processo di apprendimento si arricchisce, perché fa i conti con il senso del limite, e il riconoscimento di questa “ignoranza” educa alla virtù dell'umiltà, che - in ambito intellettuale e cognitivo - sta alla base di ogni curiosità e di ogni ricerca di senso, in una parola alla base della vera sapienza.
Notevoli sono le differenze tra bambino e bambino: di intelligenza, di ritmo di crescita, di stile cognitivo, di atteggiamento di fronte ai problemi, di tipo di interesse, di motivazione, di reazione di fronte alle difficoltà, di modo di vivere le emozioni.
Per quanto riguarda le differenze di intelligenza è utile ricordare ciò che lo psicologo Robert Stemberg afferma. Egli ci parla, in analogia con i poteri dello Stato, di “tre intelligenze” e le mette in relazione con i tre fondamentali tipi di pensiero. Ecco quindi quella “legislativa” basata sulla creatività, l'innovazione, il cambiamento, quindi “esecutiva” fondata sul rispetto di norme e convenzioni già date e, infine, la “giudiziaria” centrata sulla capacità critica e sui processi di auto/etero valutazione.
Ai genitore è richiesto di valorizzare il potenziale intellettivo che il figlio possiede, sapendo riconoscere le modalità con cui utilizza le proprie abilità cognitive e liberandole da condizionamenti e/o da incrostazioni psicologiche.
Quando si parla di intelligenza, di apprendimento e di autonomia, molti sono i problemi aperti. Perché, ad esempio, succede a volte che chi ha collezionato a scuola per anni giudizi negativi riesce poi a raggiungere nella vita traguardi considerevoli, mentre talora chi vanta una brillante carriera scolastica incontra più avanti, a livello affettivo, sociale, professionale, parecchie difficoltà? Perché non sempre c'è corrispondenza tra un buon rendimento scolastico e una altrettanto buona autonomia, intraprendenza, maturità?
E perché, a parità di dotazione intellettuale, alcuni raggiungono elevati livelli di rendimento scolastico, mentre altri soccombono, dovendosi accontentare di risultati mediocri o scarsi?
Quanto contano, in questi processi, fattori come la motivazione, la sicurezza personale, l'autostima, la capacità di assumersi dei rischi o di portare avanti delle responsabilità, o ancora l'addestramento mnemonico, l'abilità nello studio, la passione per ciò che si affronta a scuola, l'impegno, la responsabilità, certe “sane” abitudini acquisite?
A questi e ad altri interrogativi, che spesso tutti ci poniamo, cercheremo di dare spunti per una riflessione comune in un prossimo articolo.
Lucia Pelamatti
Oratorio Arcobaleno
Il magistero per i catechisti tenuto dal nostro don Alberto quest'anno tratta il tema della S. Messa. Sembrerebbe che questo argomento, per gente di chiesa, possa essere considerato da conoscersi a menadito. La sorpresa comune a tutti i partecipanti non è stata solo nel constatare l'impegno e la profusione di energie nella ricerca dimostrate dal nostro relatore, bensì quella di prendere atto che, nonostante siano passati quarant'anni dalla riforma liturgica, è probabile che le comunità ed i sacerdoti che celebrano la messa secondo il canone (le norme) siano davvero pochi.
La struttura della messa, così come è stata approvata dalla Chiesa, assegna ad ogni momento e persino ad ogni gesto del sacerdote o dell'assemblea dei significati precisi. Ogni momento col relativo significato va vissuto, o meglio, andrebbe vissuto con consapevolezza, dando ad ogni celebrazione l'importanza dei momenti speciali e unici, come quando si attende e si incontra una personalità di rilievo e poi ci si ricorda tutti e gesti e le parole accadute in quei momenti (il riferimento a Giovanni Paolo II è causale).
Personalmente mi sono sentito ignorante e anche in colpa, per tutte le occasioni avute di vivere momenti importanti e averle perse perché durante tante messe, invece di partecipare attivamente, a volte si pensa ai propri problemi, alle cose più svariate e non si ascoltano le parole del sacerdote.
Una nota: è stato approfondito il fatto di come l'assemblea debba rispettare i momenti del sacerdote senza sovrapporsi ad esso nel celebrare ed anche quando è ora di rispondere, di stare seduti, inginocchiati o in piedi. I gesti difformi vengono anche da consuetudini mai corrette: questa può essere una occasione per conoscere e correggere gli errori, ma anche quella di acquisire più consapevolezza che la messa è il dono più grande che abbiamo come comunità cristiana.
Buona Pasqua ai sacerdoti, dispensatori di questo dono, e a tutta la comunità.
Un catechista
Oratorio Arcobaleno
Era la sera del 4 dicembre 2008 quando noi adolescenti abbiamo incontrato Suor Giuliana. Suor Giuliana è una suora che ha trascorso alcuni anni anche presso la comunità di Borno prima di partire per la sua missione in Congo, presso il villaggio di Cimpunda nel Nord Kivu. Ed è proprio di questo che è venuta a parlarci: della situazione del Congo e di quello che, con la volontà, sono riuscite a compiere queste suore negli anni.
Ci siamo accorti, parlando con lei, che spessissimo le informazioni (già di per sé poche) ci vengono passate dai mass media in modo errato o comunque parziale. Sembra quasi che da quel mondo le notizie non possano arrivarci, ed è anche per questo che come gruppo adolescenti desideriamo ringraziare Suor Giuliana per averci permesso di capire che cosa realmente accade in quel Paese che ci appare così lontano.
Solo negli ultimi 15 anni in Congo ci sono state ben 3 guerre: la prima, detta anche guerra di liberazione, dal 1996 al 1997, la seconda dal 1998 al 2000 e l'ultima iniziata nel 2004 e non ancora terminata. La prima guerra era nata con lo scopo di liberare il Paese dal dittatore Mubutu e di installare la tanto desiderata democrazia. Ma i risultati non furono dei migliori: la democrazia venne installata, ma la popolazione ne uscì divisa, distrutta, con numerosissimi morti e sfollati e tutti finirono in una miseria ancora più disumana. La seconda fu invece una guerra di conquista portata avanti dal generale ruandese Nkuda che dopo aver aiutato il Congo a liberarsi dalla dittatura, avrebbe voluto per se una parte di questa terra, ponendo a Goma la sede del suo governo. Riuscito nel suo intento Nkuda, col pretesto di liberare Bukavu dagli Hutu, ha dato il via, nel 2004, ad una nuova guerra. L'azione è andata a buon fine e come ricompensa Nkuda si è ritirato con i suoi seguaci a Goma per prepararsi ad un nuovo attacco: l'attuale.
Ma chi sono i protagonisti di questa crisi? In primo luogo il governo congolese col presidente Josephe Kabila, che non ha mantenuto la promessa fatta nelle elezioni del 2006 di creare uno stato di diritto e di pace; abbiamo poi il già citato comandante Nkunda, che si rifiuta di integrarsi all'esercito congolese; e quello che nessuno di noi s'aspetterebbe: l'ONU che, invece di difendere la gente dai soprusi e far mantenere i trattati di pace, approfitta della situazione per consentire ai Paesi più ricchi ed ai ribelli di sfruttare il sottosuolo.
Suor Giuliana ha definito questa guerra ”un paravento che nasconde lo sfruttamento indiscriminato delle risorse”. E noi ci siamo a questo punto chiesti: ma che cos'ha il Congo da fare tanta gola agli altri Stati? La risposta di Suor Giuliana è stata molte chiara e sicura anche se ci ha lasciato forse un po' d'amaro in bocca: “In questa guerra non c'entrano le etnie, le religioni: è una questione di accaparramento illegale di risorse, di influenze politiche, di equilibri regionali e internazionali. In Congo sono presenti oro, diamanti, piombo, cobalto, coltan, stagno, niobo e carbone. C'è una responsabilità collettiva su quanto sta avvenendo. Il cellulare, il computer, funzionano anche con il coltan, un minerale che importiamo da quelle terre. La tecnologia avanzata di oggi, a nostro servizio, ha bisogno di cassiterite, di niobio, oltre che di rame, oro, petrolio, diamanti. Possiamo quindi definirci un po' colpevoli anche noi.” E le vittime di tutto ciò sono i congolesi che vengono uccisi, sfollati e delusi nelle loro speranze più profonde.
Ma dopo questa spiegazione abbastanza rapida sulla situazione del Congo, mi piacerebbe parlarvi un po' di cosa sono riuscite a fare queste suore con l'amore che hanno donato al prossimo.
La missione in cui si trova Suor Giuliana è stata fondata da un gruppo di Suore Dorotee di Cemmo, che hanno deciso di restare a fianco di questa gente per dare loro la speranza che una convivenza pacifica sia possibile. Esse si sono occupate dell'istruzione, creando scuole che partono dalla scuola materna, passando per la scuola primaria e secondaria, per arrivare agli istituti professionali sia per i ragazzi che per le ragazze che vengono date in moglie a seconda degli studi che hanno seguito.
Con gli aiuti che arrivano dalle comunità come la nostra, le suore cercano di dare a questi bambini almeno un pasto al giorno e di tenerli lontani dalle strade organizzando giochi e lezioni anche il pomeriggio. Per l'educazione dei giovani le suore stanno, inoltre, cercando di formare degli insegnanti del posto che le possano supportare nell'istruzione di questi ragazzi.
Abbiamo poi scoperto, sempre grazie a questo incontro, che con i soldi che noi ragazzi di Borno spendiamo per mangiare una pizza, possiamo mantenere un anno di studi di una ragazza congolese. Ci siamo così promessi di dare una mano a queste grandi donne che, con il loro amore, hanno trovato la forza di rimboccarsi le maniche aiutando questo devastato popolo ed esprimendo il loro dissenso per questa guerra sfruttatrice che ha già tolto la vita ad oltre 4 milioni di persone innocenti.
Noi siamo persone fortunate, abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno, ed è per questo che rigiriamo l'invito a tutta la comunità di Borno: diamo il nostro aiuto alla lotta contro questa guerra (passatemi il termine) veramente stupida!
Paola
Oratorio Arcobaleno
Che spettacolo!
Anche quest’anno è arrivato, lungo le strade del paese
Rumorosamente trainato da 2 carri colorati,
Non si erano mai visti dei puffi così alti
E una famiglia “Simpson” cosi gialla!
Vale la pena aspettare ogni anno
Anche solo per vedere i “pii” bornesi
Lanciati nei più bizzarri travestimenti
E impegnati nel contendersi i trofei e le frittelle...
In ogni caso... anche se a carnevale ogni scherzo vale, un “bravi, bravissimi” a tutti coloro che ogni anno con impegno dedicano molto del loro tempo per la buona riuscita di questa festa: chi per i carri, chi per i dolci, chi per i costumi (la mitica Franca!!), chi per la musica, chi per i canti (i nostri meravigliosi bambini del piccolo coretto con l’immancabile Annalisa), chi per… bè avete capito!? Tutti quanti!
Oratorio Arcobaleno
Una ragazza e un ragazzo vestiti con artigianali tuniche e mantelli, un asino in mezzo a loro e un corteo di bambini, mamme, papà, musicanti avvolti nei mantelli hanno percorso anche quest'anno le vie del nostro paese, sostando in alcuni angoli più o meno suggestivi. La Casa delle Suore, il Parco Rizzieri, il Castello, Piazzetta Roma, il Sagrato... hanno ospitato ancora una volta alcune scene del presepio vivente. Il freddo, le luci, le musiche, lo scambio di qualche battuta con un amico trovato lungo il percorso, l'impegno di bambini, ragazzi, adolescenti e animatori nel realizzare le scene... tutto ha contribuito a creare l'atmosfera della notte di Natale.
Alcuni potrebbero dire che è solo un modo per occupare piacevolmente un paio d'ore, in attesa della S. Messa di mezzanotte, ma in fondo il Natale è proprio questo: far festa perché Gesù è entrato nel mondo per percorrere le strade della nostra vita.
dalle missioni
Padre Defendente ha cambiato parrocchia
Santana, 25-2-2009
Carissimo don Giuseppe,
da una settimana mi trovo nel nuovo campo di lavoro: tutto da rifare! Ho lasciato una bellissima casa parrocchiale e qui non c'è neppure la casa, siamo ospiti delle Suore Piccole Apostole della Carità, una congregazione fondata da don Luigi Monza.
Sono in una parrocchia di periferia, dedicata al santo frate cappuccino Padre Pio da Pietralcina. La popolazione è di circa 40.000 abitanti ed è una parrocchia muova, fondata due anni fa. Ci sono cinque grandi cappelle e la sesta è stata adibita a chiesa parrocchiale. Ci hanno lavorato i preti del PIME e il Vescovo di Macapà da 4 anni è Mons. Pier Giuseppe Conti.
Le chiese e gran parte delle abitazioni sono coperte con tegole di amianto: fa un caldo terribile, siamo a 0° sulla linea dell'equatore. Mi sono ripromesso di fare, o meglio, aiutare a fare prima la casa parrocchiale e dopo mettere a posto le chiese e i saloni parrocchiali, tutti coperti con tegole di amianto.
Ci sono molti gruppi ecclesiali, c'è un coro stupendo di adulti e bambini. Domenica 22 c'era qui il Vescovo e hanno cantato “O Piissima, o Santissima...” e anche “Barba Capucinorum”. Mi hanno fatto una accoglienza stupenda. Il frate brasiliano, non ancora trentenne, si chiama Frei Jamilson, due anni di ordinazione sacerdotale. È il mio parroco e io sono il curato. Gli anni sono molti, 7l al 2 marzo, ma la voglia di lavorare e sempre tanta.
Ieri sono state a pranzo al Noviziato dedicato al nostro Fratasì de Bers: è la sede della fraternità e bisogna andarci almeno una volta alla settimana. Ma io sono uccel di bosco e non rimanga rinchiuso in un convento, altrimenti muoio prima del tempo. I Superiori mi hanno posto qui per la mia lunga esperienza, per aiutare il giovane frate brasiliano. C'è molto da fare e contano su di me per tante cose.
In Italia non ci vengo quest'anno, ma il prossimo. Sono appena arrivato e ci sono tantissime cose da fare.
Ieri ho raccolto foglie di pianta di banane secche e abbiamo cosi preparato le ceneri: anche questo è frutto di esperienze.
Ormai Nova Timboteua è cosa del passato, anche se là ho lasciato un pezzo del mio cuore. Devo guardare avanti, rimboccare le maniche e via... Iniziamo la Quaresima e certamente non sarà come a Nova Timboteua, dove facevo la pazzia di suonare la campana ad un quarto alle cinque del mattino, per poi andare a fare la Via Crucis per le strade del paese. Vedremo cosa si potrà fare da questa parti.
Siamo nel centro del mondo e ho mandato una foto molto speciale a Marta, figlia di Aurelio, da pubblicare su Cüntómela.
Faccio tanti auguri di una Santa Quaresima e anche di Buona Pasqua. Mi ricordi al Signore.
Padre Defendente Rivadossi
Il suo nuovo indirizzo:
Padre DEFENDENTE RIVADOSSI
Frades Capuchinhos
Noviciado B. Inocêncio de Berzo
Avenida FAB 2851 - Caixa Postal 592
68906-000 Macapà - AP - BRASIL
di tutto un po'
Annalisa, devi intervistare Suor Ida!”. “Perché? Non è che se ne va via di nuovo, vero? Ci ha già fatto il brutto scherzo una volta...” “Ma no! Devi intervistarla perché si avvicina il centenario dell'arrivo delle Suore Dorotee qui a Borno.” “Ah... ecco.”
Intervistare Suor Ida... Mica una cosa da poco! In un paese ci sono delle persone che in qualche modo, e per i motivi più diversi, diventano dei punti di riferimento. Inutile dire che tra queste persone c'è la nostra Suor Ida (nostra, sì, perché anche se è nata a Ono San Pietro e ha provato ad abbandonarci per ben 2 volte, è sempre tornata “a casa”!). Lo so che Suor Ida non vuole che io scriva queste cose, perché è allergica ai complimenti, ma le Suore Dorotee mi hanno insegnato a dire la verità, quindi...
Allora, Suor Ida, che cosa ci può raccontare dell'arrivo delle Suore Dorotee qui a Borno, nel novembre del 1909? Lo so che lei ancora non era nata, ma di sicuro sa tante cose.
So quello che mi ha raccontato in dialetto una delle nostre nonne: il Parroco aveva avvisato per tempo la popolazione dell'arrivo di 5 suore a Borno. Siccome qui di suore non se n'erano mai viste, il Parroco, per far capire di chi si trattasse, le aveva paragonate a degli “Angeli in Terra”. Il Sindaco, che era un brav'uomo ma non aveva studiato, aveva chiesto aiuto al maestro del paese per poter accogliere le suore nel modo giusto. Il giorno fatidico dell'arrivo delle suore, tutti gli abitanti si erano recati all'Annunciata (con gli zoccoli ai piedi e gli asini per i bagagli) e nel vederle il Sindaco, incoraggiato dal maestro al suo fianco, le aveva accolte con una voce squillante e le seguenti parole: “Ben arrivate alle cencinelle del Signore!” Al che il maestro si era messo le mani nei capelli (lui aveva suggerito di accogliere le ANCELLE del Signore!) e i Bornesi si chiedevano un po' confusi come mai il Signore, invece che degli angeli, gli aveva mandato delle poverelle!
E da allora le “Cincinelle del Signore” non hanno mai abbandonato il paesello...
No, mai. Ora siamo solo in 2, ma per moltissimi anni ci sono state 5 suore: quattro lavoravano per la scuola materna (tre insegnavano e una faceva la cuoca) e una insegnava alle elementari. La Casa delle Suore (senza fantasmi! n.d.r.) era l'oratorio di allora, ma accoglieva solo le ragazze, mentre i ragazzi stavano col parroco. All'oratorio per le bambine più piccole venivano organizzati giochi, tante recite e la pesca. Con le più grandicelle, invece, si discuteva dei problemi quotidiani e le si preparava per il matrimonio, per la loro vita da mamme e mogli. L'estate la Casa delle Suore diventava un pensionato per le famiglie che venivano a Borno in visita; c'era la scuola di lavoro, dove le ragazze imparavano a cucinare e cucire; c'era il servizio mensa per i bisognosi e anche la possibilità per le mamme che lavoravano di lasciare i loro bimbi alle cure delle suore.
Ci può fare il nome di qualche suora un po' speciale?
C'era la superiora, Madre Scolastica, che è stata a Borno fino al 1945 e di cui io ho sentito tanto parlare. Era una persona presente e sempre pronta a dare una mano. Quando nasceva un bimbo in una famiglia, Madre Scolastica portava alla mamma una pagnotta fatta in casa, per fare il “pà còt” al nuovo arrivato... La gente era molto povera, allora. Una volta all'anno si organizzava anche la cena con le famiglie delle neo-mamme, e alla fine ricevevano pagnotte e vivande da portare a casa nascoste nei grembiuli. Poi c'era Suor Agnese, che dirigeva il coro e suonava l'organo... Si cantava sempre e le Suore avevano il cuore allegro!
E poi, un bel giorno di Settembre del 1966, a Borno arriva Suor Ida... Che cosa ricorda del suo ingresso in paese?
Mi ricordo che la gente mi ha accolto molto bene... Ai suoi tempi Don Moreschi diceva sempre: “Borno è un paese benedetto, perché avrà sempre preti e suore santi!”. Quando sono arrivata io la gente credeva ancora a queste parole e vedeva le Suore come persone superiori, che andavano riverite e io non capivo perché la gente mi tenesse in così grande considerazione... Non mi sentivo degna di una cosa del genere e allora mi impegnavo sempre di più per essere all'altezza di un'aspettativa così grande. Pregavo tanto perché il Signore mi aiutasse e per la gente di Borno. Quando sono stata via (a Roma e Brescia n.d.r.) per 10 anni, dal 1971 al 1982, ho continuato a pregare e sono sicura che anche la gente di Borno ha pregato tanto, tanto per me! Mi ha sempre voluto bene.
E ancora gliene vuole... Ci può raccontare qualcosa della sua vocazione?
È stata una lotta. Io ero la prima di 9 figli e mi sono sempre presa cura della casa e dei miei fratelli. Fin da bambina, però, avevo il pallino dell'insegnamento. Avevo una stanza dove avevo messo un bel tavolo e la sera radunavo tutti i bambini del vicinato e ripetevo quello che avevo sentito a messa la mattina o quello che m'insegnavano a scuola, come una maestra vera. Chissà che cose raccontavo! Ero una bella peperina! Poi un giorno, mentre ero a casa, ho sentito un calore e una gioia dentro e ho iniziato a pregare, tenendo stretto il crocifisso. Non avevo idea di che cosa mi stesse succedendo. Quell'anno mia mamma mi ha mandato a Cemmo per fare le scuole medie e, parlando con Suor Gerolama, Suor Giulia e Don Rizzi, ho capito cosa mi stava accadendo. Fino a 21 anni mi sono rifiutata di credere che Dio mi stava chiamando, ma poi non ho più potuto negare ciò che sentivo e sono entrata in convento a Cemmo. Era il 1956. Quest'anno, a settembre, festeggerò il 50° anniversario di professione.
Complimenti! Inutile chiederle se rifarebbe tutto ciò che ha fatto...
La vocazione alla vita religiosa ha i suoi momenti di difficoltà e, come ogni altra scelta di vita, offre sempre tante sfide, ma se la scelta è fatta con decisione e con profondo amore, allora non ci si pente mai. Nemmeno quando non è tutto semplice. In questi cinquant'anni ho vissuto tante esperienze che mi hanno arricchito e che ricordo con tanto piacere. Quando rivedo i miei “alunni”, di trent'anni più grandi, mi viene un tuffo al cuore e mi chiedo se ho fatto abbastanza per loro o se avrei potuto fare di meglio. Dico sempre una preghiera speciale per tutti loro e per le loro famiglie, che continuo a seguire.
Per concludere, che cosa augura al suo Borno?
Io auguro quello che ha augurato S.S. Giovanni Paolo II quando è venuto qui tra noi: “Conservate la vostra fede e siatene orgogliosi. Non abbandonate le vostre tradizioni!”.
Ci vuole proprio tanto bene, eh, Suor Ida?
Sì, vi voglio proprio bene...
Dopo un'ora passata a parlare con Suor Ida mi sembrava di aver letto un romanzo. E nella vita di Suor Ida di avvenimenti non ne sono mancati. Quello che leggete qui non è che un granellino di sabbia nella spiaggia. Mi ha parlato delle tante recite che ha organizzato; di quando era responsabile della Chiesetta nella casa delle Suore; di quando ha smesso di dire il rosario in chiesa perché una nonnina le ha detto che “sembrava che piangesse”; di come il paese le sembrava cambiato dopo dieci anni di assenza; dei mosconi che le giravano attorno da ragazza (eh sì!). Mi ha parlato con semplicità e sentimento, come le è solito fare. Per Borno è un punto di riferimento... Trent'anni non sono uno scherzo!
E io, beh, io ogni volta che penso a Suor Ida, penso a una mela rossa! La mela rossa che tutti gli anni, il 6 febbraio, le suore ci facevano lucidare e portare a casa per ricordare S. Dorotea. Un modo per le nostre suore di entrare nelle case dei bambini e delle loro famiglie e dirgli: “Siamo qui e preghiamo per voi...”.
Penso anche al suo modo di fare, calmo e deciso allo stesso tempo, e penso che forse tra quarant'anni mi ritroverò a parlare di Suor Ida, perché ci sono cose che non si dimenticano mai e ci sono persone che lasciano il segno.
Annalisa
di tutto un po'
Ai primi di ottobre l'AVIS di Malegno ha consegnato a Casa Albergo due nuove carrozzelle: una elettrica e una a mano. A sua volta l'AVIS le aveva ricevute in dono dall'Associazione bresciana “Avieri in pensione”.
La nostra riconoscenza va, dunque, a tutte le persone generose e di buona volontà che si ricordano di chi rimane fermo durante il giorno, in attesa di qualcuno che gli faccia fare un giro lungo i corridoi della struttura. E le volontarie, a turno, svolgono questo servizio con amore verso l'anziano, che così ha l'occasione anche di parlare e svagarsi un po'.
In febbraio, durante il periodo di Carnevale, ci sono stati alcuni momenti di preghiera e altri di svago: domenica 1, in occasione della Giornata della Vita, nel pomeriggio un gruppo di adolescenti ha proposto una tombola agli ospiti; l'11, Giornata dell'Ammalato, alle ore 16 si è celebrata una S. Messa in Casa Albergo per tutta la comunità; domenica 15 nel pomeriggio c'è stato un concerto di fisarmonica; in occasione delle solennità del Triduo, lunedì 23 c'è stata una S. Messa a suffragio dei morti e il martedì successivo è venuto un gruppo di ragazzi da Ossimo ad animare le ore pomeridiane.
La mattina del 3 marzo, festa del Beato Innocenzo da Berzo, una ventina di ospiti di Casa Albergo sono stati accompagnati nella chiesa parrocchiale dove, oltre ad un momento di preghiera, hanno potuto ammirare l'artistica “Machina del Triduo”, accesa solo per loro. Per i bornesi ha rappresentato un tuffo nel passato, mentre per gli altri il tradizionale apparato è stata una piacevole novità.
A quanti si ricordano dei nostri ospiti e vengono a trovarli un grazie riconoscente, con l'invito a ripetere le visite più spesso ed in modo continuato. Essi attendono sempre con gioia quanti dedicano a loro un po' di tempo, perché li fa sentire presenti sul territorio ma, soprattutto, li fa sentire ancora vivi.
Mariuccia
di tutto un po'
È quasi inutile ripetere che i libri di don Antonio Mazzi, finiscono per essere sempre una forte provocazione che ti coinvolge e non ti lascia più come prima. Così è per l'ultima pubblicazione, “Stop ai bulli”, che ci mette davanti “la violenza giovanile e la responsabilità dei genitori” in pagine essenziali ma incisive, che chiamano in causa tanti problemi, con descrizioni e riferimenti a fatti realmente accaduti.
Nelle pagine centrali scrive questo prete di strada: “Io, prete dei disperati e di quelli che ne combinano di tutti i colori, mi arrabbio quando, sfogliando i giornali, leggo pagine su pagine che parlano del bullismo dei nostri ragazzi, dei branchi che nascono ad ogni piè sospinto e dello sfascio delle aule scolastiche. Mi rifiuto di credere che questi siano i nostri ragazzi. Vorrei anche ribellarmi alla facilità con la quale i quotidiani indugiano e rimestano dentro le cose peggiori”.
E subito segue un momento della sua realtà non facile, ma ricca di avventure: “Da parte mia, potrei raccontare decine e decine di altre storie di ragazze e ragazzi che fin dall'adolescenza si impegnano in opere di solidarietà con costanza e grande equilibrio. Sono loro i primi a credere che aiutare gli altri fa bene a noi stessi”.
Quindi propone un preciso interrogativo: “Perché non abbiamo il coraggio di divulgare esempi di questo tipo sui quotidiani e sui settimanali che contano? Nella nostra testa bacata siamo ancora convinti che si leggano più volentieri articoli su omicidi-suicidi tra mariti, mogli e figli, che non episodi di impegno civile...”.
L'augurio che ci rivolgiamo può essere quello che le azioni positive, quelle che veramente contano e creano storie di speranza nella nostra società sempre più ingiusta e agitata, trovino maggior spazio e risalto.
L'AVIS e gli Avisini sono sempre in prima fila nel farsi promotori di una storia diversa, più ricca e capace di educare le coscienze. Con le nostre iniziative speriamo di aver invogliato e desideriamo continuare a spingere molti ad essere artefici di umanità, a non chiudersi nei piccoli problemi personali di fronte alle numerose urgenze degli altri.
Non sappiamo se abbiamo raggiunto grandi traguardi, però non è mai mancata la nostra volontà di costruire una stagione migliore, capace di abbattere le barriere dell'egoismo e dell'indifferenza. E desideriamo continuare a credere e a percorrere questa strada ad ogni costo, con “un'irresistibile voglia di impegnarsi” secondo la logica di don Mazzi.
Carlo Moretti
Matteo Venturelli
di Vittorio e Chiara Clerici
Milano 25-1-2009
Pierina Mensi
9-6-1918 + 12-12-2008
Giuseppe Gheza
30-12-1930 + 12-12-2008
Lucia Sarna
7-10-1933 + 18-12-2008
Diana Zanaglio
11-5-1952 + 28-12-2008
Amelia Franzoni
26-2-1922 + 30-12-2008
Francesco Re
27-5-1935 + 14-1-2009
Margherita Corbelli
4-11-1921 + 30-1-2009
Suor Carmine Zana
13-12-1927 + 31-1-2009
Giovanni Antonio Gheza (Tunì)
4-6-1952 + 31-1-2009
Anita Magnolini
6-7-1923 + 25-2-2009
Lorenzo Rivadossi
20-3-1928 + 2-3-2009
Antonietta Martinelli
23-1-1930 + 5-3-2009
Bortolina Avanzini
9-4-1923 + 10-3-2009
Rosa Romele
(nonna don Bruno)
9-1-1926 + 25-3-2009 (Gratacasolo)
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