di don Lino Ertani
Il presupposto fondamentale per comprendere bene ciò che andremo dicendo è la fede cattolica nell'esistenza del Purgatorio.
Il CONCILIO DI TRENTO (1545-1582) afferma categoricamente che:
"Oltre ad un Paradiso per i giusti ed un inferno eterno per i dannati, esiste anche il Purgatorio dove vanno le anime dei giusti non ancora del tutto giustificate che sono purificate da pene e possono essere aiutate dalle preghiere di suffragio, soprattutto col sacrificio della Messa...". (Sess. XXV)
Anche il CONCILIO VATICANO II richiama ciò che fu definito come verità di fede nei precedenti concili di Lione, di Firenze e di Trento ed afferma che:
"... c'è un vitale consorzio con i fratelli che sono nella gloria celeste o che ancora, dopo la morte, stanno purificandosi..." (cf. Lumen gentium 424)
Il dogma di fede nell'esistenza del Purgatorio viene fondato dal Magistero cattolico soprattutto su argomenti tolti dalle Sacre Scritture:
Anche la Tradizione è fondamentale per la fede cattolica. Nei primi quattro secoli del Cristianesimo troviamo l'affermazione che i credenti fanno preghiere e offerte per i morti; antichissime liturgie fanno luogo alla prece per i morti; nelle catacombe c'è chiara testimonianza di offerte per il "refrigerium" dei defunti.
I Padri della Chiesa parlano di un certo fuoco del Purgatorio nel quale si espiano i peccati veniali, fuoco che non sarà eterno come quello dell'Inferno, ma che è purificatore ed intenso. Si leggano alcuni testi di San Gregorio Magno, di S. Cesario, di S. Ambrogio e di S. Agostino. Essi affermano anche che per molti fedeli defunti è necessario offrire messe ed opere di carità.
LA RAGIONE - È argomento che piace a molti perché fondato sulla logica esperienziale. Le persone che passano da questa vita alla vita eterna di solito non sono così cattive da meritare la maledizione di Dio, cioè l'Inferno eterno; d'altronde non sono neppure così buone e perfette da essere subito ammesse alla partecipazione della gloria e dell'amore di Dio, che è somma perfezione, cioè nel Paradiso. È retaggio dell'uomo una certa mediocrità. Ecco allora che nasce dalla ragione l'esigenza di pensare ad uno stato intermedio, tra la pena e la felicità, dove le anime si purificano per meritare la felicità eterna.
La storia, la liturgia, le espressioni dell'arte e della letteratura provano questa fede antichissima.
È testimoniato fin dalla preistoria, dalle incisioni rupestri camune e da reperti di sepolture del periodo celtico e romano. Ma è col cristianesimo che la venerazione dei morti divenne un fatto di costume. Attorno ai primi edifici del culto si seppellivano i morti, possibilmente con la testa rivolta ad oriente.
Fino all'epoca napoleonica le tre chiese: purgante, militante e trionfante, erano anche sensibilmente unite. Chi si recava alla chiesa doveva passare sulle tombe dei morti sepolti nell'anti-chiesa, detta ancor oggi "sacrato", e rivolgeva lo sguardo lì, dove il Cristo misticamente muore e risorge.
Per limitarmi soltanto ad alcune usanze che sono forse di origine medievale, dirò del suono della campana che segnalava ai fedeli "le agonie", la prossima fine di un membro della comunità parrocchiale. Appena l'agonizzante era spirato la campana dava ancora un segnale: "I suna i Pàter e Ai Marie" (suonano i Padre Nostro e le Ave Marie), diceva la gente. All'imbrunire c'era la veglia sul cadavere ben composto nel suo letto o nella stanza principale della casa. Si recitava il Rosario, la preghiera cattolica più popolare.
In molti luoghi, a chi partecipava al Rosario nell'abitazione del defunto mentre era "sùer téra" (sopra terra), cioè insepolto, si dava una moneta da parte dei familiari. Altrove si distribuiva il sale, alimento prezioso e di difficile acquisto a quei tempi. In qualche rarissima casa, almeno fino a pochi anni fa, i parenti del defunto si addossavano la spesa della distribuzione di una certa quantità di sale per ogni anima della parrocchia.
Così la povera gente che pure aveva nello "scrign" (scrigno-deposito) un po' di farina da polenta, aspettava, come una grazia, di ricevere "'l grà de la sàl" (i grani di sale) e pregava riconoscente per l'anima dell'estinto. Nessuno in paese avrebbe osato alzar la voce o gridare, né tanto meno cantare, fosse pure all'osteria, quando c'era un morto "suèr tèra".
I funerali in genere non erano solennissimi. Semplici casse di legno costruite dal falegname del paese venivano ricoperte da uno strato nero, ricamato a fregi d'argento con teschi, tibie e orifiamme. Bisogna riconoscere che, allora, la Chiesa faceva qualche differenza di solennità nel rito funebre. Forse per costringere i cosiddetti "siori" (signori) ad essere generosi con le opere di religione e di carità, si celebravano i funerali cosiddetti "di prima classe" che davano diritto alla partecipazione di più sacerdoti, allo strato di velluto nero, con fregi d'oro, a molte candele, al suono dell'organo ed alla partecipazione della rappresentanza di tutte le congregazioni col loro vessillo.
La Messa, naturalmente, era sempre la stessa anche se al funerale dei poveri non era cantata. I parenti del morto benestante usavano anche di questa occasione per far sfoggio di vanità... e il popolino un po' brontolava.
Si era soliti distribuire ad un funerale di prima classe una candela ai partecipanti, soprattutto ai sacerdoti, ai portatori della bara, alle congregazioni... Questa candela di cera pesava tante once di più, quanto aumentava la dignità di chi accompagnava il morto... e non era offerta da poco se si pensa a quando non c'era l'illuminazione elettrica e la candela guadagnata al funerale serviva ad illuminare la casa o la baita di montagna o veniva accesa su una tomba o dinanzi al simulacro di un Santo, anche da parte di chi non poteva spendere nulla.
Nella officiatura funebre del vecchio rito in uso fino al Concilio Vaticano II, erano famose le lezioni del primo notturno tolte dal Libro di Giobbe, dette "parce mihi", cantate dal popolo guidato da un solista, sul modulo di antiche melodie di compianto, forse medioevali, che erano davvero impressionanti. Ho trovato in qualche paese ancora vigente l'usanza di recarsi al cimitero privatamente, a gruppi familiari, negli ultimi tre giorni di carnevale e di celebrare, negli stessi giorni, il Sacro Triduo per i morti.
È certamente il ricordo di ciò che si faceva nei secoli andati, sin dai tempi della riforma cattolica post-tridentina. Quasi per una legge di contrappeso, alla gioia sfrenata del carnevale, si opponeva la tristezza di suoni lugubri di campane a morto, di canti e liturgie terrificanti, in una singolare gara tra Eros e Zànatos, il piacere e la morte. Nel Seicento e nel Settecento si ricostruivano addirittura scene di morenti assistiti da un angelo o trascinati via da un demonio, di scheletri ambulanti, di cortei di flagellanti col capo ricoperto da un cappuccio nel quale c'erano solo due buchi per gli occhi. In chiesa si urlava: "Dies irae, dies illa! - Libera me Domine de morte aeterna in die illa tremenda!". Il parroco invitava alla meditazione sul quando, sul come e sul dove avverrà la morte e il popolo ripeteva una triste cantilena che iniziava così: "Vita breve, morte certa, del morire l'ora è incerta... un'anima sola che si ha, se si perde che sarà?".
All'alba del Mercoledì delle Ceneri veniva posto sul capo un pizzico di cenere, che tutti andavano a ricevere, anche i più giovani, con superstiziosa devozione: "Memento homo... pulvis es, et in pulverem reverteris...!" (Ricordati uomo, sei polvere e in polvere ritornerai).
Poi c'erano le santelle sparse per la campagna sulle quali molte volte era dipinta la morte con la sua falce in mano, uno scheletro che ghignava beffardo sui passanti: "Io fui come sei tu, tu sarai come sono io!". Le cancellate dei cimiteri e degli ossari erano di ferro battuto e decorate di teschi, scheletri, falci e tibie... così i cassoni sui quali veniva deposta la bara in chiesa. Predominava nella preghiera sempre il tema del giudizio di Dio e dell'espiazione del peccato, la paura di una condanna eterna da parte di un giudice imparziale... "Rex tremendae maiestatis!".
I morti mettevano paura. Nessuno avrebbe osato, di notte, recarsi al cimitero, né passarvi vicino. Lavorare nel giorno dei Morti, il 2 novembre, non portava fortuna; non partecipare alla sera del giorno dei Santi alla processione al cimitero o all'officiatura "ante lucem" del giorno dei morti era un segno di miscredenza e di maledizione. "I moòrcc i vegnerà a tiràt le gambe... I morti verranno a tirarti le gambe se rimarrai a letto la mattina del giorno dei Morti", dicevano le mamme ai bambini. Alla sera del giorno dei Santi in qualche paese si lasciava acceso sul focolare un ceppo e si metteva sul tavolo un pugno di castagne cotte e una ciotola di latte o un po' d'acqua fresca.
La messa per i morti veniva fatta sempre celebrare anche per chi era molto povero o non aveva nessuno che si ricordasse di lui. C'era sempre qualche buona persona che raccoglieva le uova da portare al prete perché dicesse la messa anche per chi era di nessuno. Molti ricordavano anche le anime più abbandonate del Purgatorio e, soprattutto le donne più anziane, non omettevano di recitare sempre i "cento requiem" in suffragio di tutti i defunti.
I "pòer mòrcc" (I poveri morti) erano invocati come intercessori e per loro si aveva un ricordo ogni sera, prima di coricarsi, quando la campana dei morti suonava il "De profundis", l'ultimo rintocco della giornata. Alcune preghiere, pur nella loro semplicità popolare, esprimevano una fede profonda nella sopravvivenza dei defunti e nel legame di comunione con loro. Ecco un saggio di preghiere popolari raccolte dalla voce di gente ormai trapassata.
Anime sante, anime purgante,
me ve fo miga 'l nom perché sif tante.
Otre sief come noter,
e nu 'n deentara come otre...
Prighe 'l Signur per noter,
che nu 'n pregara per votre...
Otre che ades del Signur sef issé amis,
disiga che 'l me toe po a noter sò en paradis.
Anime sante, anime purganti,
non vi faccio il nome perché siete tante.
Voi eravate come noi,
e noi diventeremo come voi.
Pregate il Signore per noi,
che noi pregheremo per voi.
Voi che adesso del Signore siete così amiche,
ditegli che ci accolga anche noi su in paradiso.
Dai pochi documenti che abbiamo avuto sott'occhio risulta che nella chiesa parrocchiale di Borno esisteva già nel 1656 un altare dedicato alla Madonna del suffragio. Per questo altare Donato Fantoni da Rovetta eseguì un'ancona scolpita in legno d'orato (oggi purtroppo perduta). D'altronde il culto dei morti era già vivo in Borno nel 1580, quando negli atti della visita di S. Carlo Borromeo si annota la consuetudine di uscire dalla chiesa dopo la messa e benedire le tombe sul sagrato.
Nel 1716 sempre la bottega del Fantoni eseguì un "Deposito", cioè la statua di Cristo deposto dalla croce con un'arca di legno, che qualcuno vuol ravvisare nel paliotto che ora racchiude la suddetta statua del Cristo morto. Ma forse indebitamente, perchè il bellissimo paliotto in parola viene comunemente attribuito a Giuseppe Piccini della Nona in Val di Scalve e fino a non molti anni fa era all'altare dell'oratorio della "disciplina" (cf. Canevali: Elenco dei monumenti ed opere d'arte della V.C. 1912)
Per quanto riguarda più esattamente il "Triduo" la menzione più antica finora trovata risale al 2 novembre del 1755, quando la generale congregazione dei confratelli del Sacro Triduo delibera con voti affermativi 38, negativi nessuno, di "far fare un apparato nuovo per il Triduo medesimo, unitamente alla comunità (parrocchiale) che se ne serve per le Quaranta Ore e con la condizione che sarà deliberata dalla comunità".
Il verbale della riunione parla del Triduo come di un fatto ormai tradizionale. la cui celebrazione viene stabilita ogni anno dall'Assemblea dei confratelli iscritti all'Opera, i quali si adeguano ad un costume già in atto da parecchio tempo.
Molto probabilmente la celebrazione del Triduo aveva già nel 1755 una tradizione almeno centenaria. Era forse nata ai tempi dell'erezione di un altare alla Madonna del Suffragio (1656) e di quel tempo doveva essere anche l'apparato (la machina) se nel 1755 già si sentiva l'esigenza di far fare... "un nuovo apparato".
Dal 1773 al 1780 circa la chiesa parrocchiale di Borno viene ingrandita e quasi completamente rifatta. Tuttavia le delibere dei confratelli del Triduo sono sempre propense alla celebrazione dello stesso... "in quella miglior forma che sarà possibile...".
Dell'anno 1792 è la delibera di fare... "la solita fonzione del Triduo negli ultimi tre giuorni di carnevale con la più divota magnificenza possibile...>" (4 marzo).
Il 21 marzo 1802 si stabilisce che il parroco Cochetti è "il direttore del Triduo" e si specifica bene che l'opera del Triduo deve eleggere, come si fa da sempre, due sindici, un massaro, un cancelliere e un elemosiniere... "per la divota fonzione del Triduo con tutti i possibili vantaggi all'anime dei vivi e dei defunti...".
Tra gli eletti figurano i cognomi di famiglie tuttora esistenti in Borno: Gheza, Baisotti, Fiora, Re, Rivadossi, Venturelli, Avanzini, Franzoni...
Per tutto l'800 si fa regolare registrazione delle entrate e delle uscite per le spese del Sacro Triduo. Tra le entrate, oltre alla tassa che pagano i confratelli, viene annotata la questua del fieno, del latte, della paglia, del letame... "bène (=carri) 115" di letame si raccoglieranno nel 1886...
Ma il più eloquente documento sui Tridui di Borno ce lo ha lasciato il Parroco don Antonio Moyer che nel 1884 inizia a scrivere gli "Annali o cronache della Parrocchia di Borno ad uso proprio e dei successori". Credo utile riportare la relazione riguardante il Triduo celebrato nei giorni 15-16-17 Febbraio del 1886.
"Sebbene nei giorni del Triduo non si avessero a lamentare gravi disordini, però, nonostante le ripetute raccomandazioni del Parroco, non mancarono i soliti ballarotti (dell'ultima sera di carnevale). In casa... per opera del Sindaco, in casa... si ballò fino all'alba del primo giorno di Quaresima; anche dal..."
E annota sconfortato:
"Riguardo al Triduo in generale, dalle impressioni avute, io credo che sarebbe meglio non farlo. Il popolo ama assai questa funzione ed ha per essa molto offerto in paglia, in concime, in latte, in denaro. Ma gli abusi di molti lasciano nel clero molto malcontento...".
Poi il buon Parroco si riconforta per gli effetti pastorali positivi:
"Vi fu grande concorso di popolo. Differenza notevole ai sacramenti specialmente da parte degli uomini, totale 850 comunioni (nell'anno precedente erano 700)..."
Ma ecco la descrizione della cerimonia:
"La musica venne da Montichiari, diretta dal maestro Lorenzo Zamboni (l'anno precedente era venuto da Clusone col maestro Brighenti) e costò lire 30 di mantenimento. Facevano parte della "Musica" almeno tre cantori e tre suonatori di strumenti: piffero, flauto, contrabbasso".
Ma ritorna la dolente nota:
"In generale del Triduo si può dire che, invece di opere in suffragio ai defunti, molti lo fecero servire per divertimento ed un pretesto a gozzoviglie e ballarotti. Vi fu uno screzio tra il Parroco e l'organista che ad ogni costo voleva che i suonatori alla sera si recassero in casa privata a suonare. Ma non vi riuscì tuttavia, perchè il Parroco parlò chiaro ai suonatori..."
Il primo giorno si cantò il Kirie, Credo, Sanctus ed Agnus Dei. Cantò la messa il R. Curato Molinari e vi assisteva il cappellano di Ossimo Baiguini. Alla sera predicò P. Eusebio cappuccino e fece anche la funzione, assistito dal P. Innocenzo... Il secondo giorno cantò la messa il cappellano Baisotti, assistito dal padre Eugenio e dal padre Innocenzo da Berzo ... (oggi beato). Il terzo giorno cantò la messa l'arciprete locale e si fece da morto. Predicatore fu il padre Carlo cappuccino, nulla di straordinario nella musica ..."
Sempre riguardo "alla musica" troviamo che lungo gli anni condecorarono il Triduo di Borno le più belle "scholae" dell''800 e dei primi anni del '900: parteciparono i cantori di Darfo, di Breno, di Lovere e sedettero all'organo maestri come il Macario e il don Piero Laini.
Non si sa quando la pia devozione del Triduo ebbe inizio, ma quasi sicuramente iniziò nel '600 (dopo la famosa peste del '30) con cerimonie particolari di suffragio che duravano tre giorni, forse in ricordo dei tre giorni di Gesù nel sepolcro.
Il Triduo veniva celebrato con particolari riti solenni: si erigeva, quasi a metà chiesa, il famoso "catafalco" che era un tavolaccio di legno con sovrapposto un cassone che richiamava la bara dei defunti. Il tutto veniva ricoperto con strati neri, ricamati con i simboli della morte: il teschio, le tibie, la clessidra. Il catafalco era affiancato su due lati da enormi candelabri che portavano grosse torce di cera. All'inizio il cosiddetto "apparato" del Triduo doveva essere pressapoco così.
Poi si accentuò anche il valore del sacrificio e della morte di Cristo, ornando l'altare maggiore sul quale venivano celebrate le messe solenni e cantate per tutti i defunti della parrocchia. Alla celebrazione della messa seguì l'usanza di esporre solennemente il santissimo Sacramento della Eucarestia per l'adorazione e benedizione solenne che concludeva il rito. Donde l'esigenza di un apparato decoroso per tale esposizione che richiamava al credente, dopo la realtà della morte e del purgatorio, la verità della risurrezione di Cristo che dava senso completo alla preghiera per i morti e alla speranza dei vivi.
Ecco allora il sorgere delle cosiddette "machine", cioè congegni ordinati a comporre, pezzo dopo pezzo, una specie di trono paradisiaco sul quale si accendevano molte candele e brillavano molti ornati floreali, simbolo di vita risorta. Ritengo che soltanto nel '700 si inizia a costruire le "machine", veri apparati monumentali, talvolta di dubbio gusto, ma sempre orientati a stimolare nel popolo il senso del divino.
La prima notizia che abbiamo circa la "machina del Triduo" di Borno è del 1755, quando il giorno dei Morti, "chiamata la general congregazione del Triduo, fu proposto alla medesima di far fare un apparato nuovo per il Triduo medesimo..."
Non sappiamo quando fu completata né quanto fu pagata. È però molto significativo che nel 1755 si parli di "apparato nuovo": ciò significa che ne esisteva uno più antico. Forse il nuovo apparato fu eseguito da artigiani locali. Soltanto il 7 febbraio del 1852, si annota sul libro dei conti della Fabbriceria che furono ... "spese in disegno e per la nuova machina del Triduo L. 27,50".
Dunque l'apparato settecentesco fu rifatto a nuovo circa cento anni dopo. Per me si tratta di quello tuttora esistente. Anche in questo caso nulla sappiamo più di chi l'ha eseguito, né di quanto venne a costare. La tradizione vuole che sia stato eseguito dall'artigiano Gherardo Inversini di Borno, che e seguì anche la "machina" del Triduo in uso per molti anni a Darfo (altro paese della Valle Camonica).
Il mio parere è che l'Inversini una volta in possesso del disegno abbia messo mano all'opera, conservando parecchi elementi preesistenti, come gli ornati floreali e mettendo di suo il tempietto retto da colonne neoclassiche sulla scorta del gusto del tempo. Un buon scultore eseguì poi il gruppo delle anime purganti con l'angelo liberatore e San Michele arcangelo. Motivo che fa credere alla paternità dell'Inversini è anche il fatto che, finchè visse, fu sempre incaricato, con suo fratello Zaccaria, di mettere in opera, ogni anno, la monumentale costruzione.
Questi apparati del Triduo erano studiati non soltanto per appagare il senso estetico o per suscitare meraviglia o, tanto meno, per affermare una volta di più il contestato trionfalismo della liturgia cattolica. Avevano soprattutto uno scopo didattico, cioè di trasmettere al popolo, che allora era in massa quasi analfabeta, delle idee teologiche un po' difficili a spiegarsi a parole, ma facilmente intuibili alla vista dei simboli. Fin dai tempi più antichi del Cristianesimo si adottò questo metodo.
Eccone alcuni:
La croce - Tutti sanno che questo simbolo significa passione e morte di Gesù, cioè espiazione del peccato e redenzione.
L'ancora - Nel cammino cristiano, immaginato anche come un'attraversata del mare, abbiamo un'ancora a cui aggrapparci: Gesù.
La bilancia e la spada infuocata - Simboli del giudizio al termine della vita.
Fiori e foglie di acanto - Sulle "machine del Triduo" ne venivano scolpiti molti per ricordare il Paradiso (in greco "paradèisos", cioè giardino) a cui tutti siamo chiamati.
La candela - È il simbolo della vita umana che si consuma con una fiammache espande luce e calore; brucia del fuoco divino comunicato all'animadel credente nel Battesimo: "Ricevi questo segno pasquale, fiammache devi sempre alimentare...". L'uso di accendere tantecandele sulla "machina" del Triduo non s'è introdottosoltanto per illuminare la chiesa o l'altare (oggi non servirebbepiù questa illuminazione a fiamma) bensì anche come simbolo dell'animache sta purificandosi in un fuoco che consuma ogni male morale e la preparaalla beatitudine.
La raggiera - È il sole brillante dell'alba della risurrezione. Al suo centroviene posta l'Eucaristia, il "segno" della Passione e della Risurrezione di Cristo, il punto focale che attrae lo sguardo e provocanell'intimo la fede e la speranza che la vita dei nostri cari defunti,e la nostra, si realizzano pienamente nell'amore infinito.
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