Estate 2011
Al ritorno dalle vacanze o da altre esperienze sui volti delle persone a noi care possiamo ritrovare la nostra dimensione più vera, quella quotidianità che, a volte, giudichiamo monotona, ma che in fondo ci manca quando, per piacere o per forza, dobbiamo trascorrere alcuni giorni lontano da casa.
Nei tratti, nell’espressione, negli occhi di un volto possiamo scorgere la profondità di una storia, l’intensità di un’amicizia, l’attesa per qualcosa di grande. Il volto di un amico spesso lascia trasparire il suo stato interiore, se in quel momento è triste, è contento, ha qualche preoccupazione od è sereno.
Con le tecnologie digitale e i programmi di fotoritocco, magari, è possibile provare a trasformare una faccia arrabbiata in una gioviale, è possibile eliminare imperfezioni e ciò che non piace; ma a tali artifici per il momento preferiamo le foto increspate e ingiallite dei nostri nonni: le rughe disegnate dal tempo sul loro viso parlano di vissuti autentici, riescono a trasmettere emozioni, ricordi, desideri.
La famiglia, la comunità in fondo non sono che un insieme di volti che si guardano a volte con benevolenza, a volte purtroppo con diffidenza, invidia, gelosia, deturpando l’immagine della convivenza e sperimentando quanto sia difficile camminare insieme e vivere quella comunione che dovrebbe farci apparire ed essere un solo corpo.
Queste deturpazioni non sono eliminabili con un semplice colpo di mouse, ma se confidiamo nella grazia di Dio, unita al nostro impegno di amare i volti che vediamo e servire i fratelli che incontriamo, siamo già sulla buona strada.
È la strada già percorsa da chi ci sorride dall’alto, ricordandoci che possiamo provare ad essere famiglie e comunità autentiche, nelle quali anche le rughe divengono segni di impegno intenso, solo se continuiamo a spalancare le nostre porte a Gesù Cristo. Solo il Suo volto, infatti, può illuminare e riempire le nostre esistenze, facendoci sentire davvero a casa.
La redazione
Nel fine settimana del 9 e 10 luglio la nostra comunità ha vissuto la Commemorazione della visita di Papa Giovanni Paolo II a Borno avvenuta ormai 13 anni fa, il 19 luglio 1998, ma per noi, che abbiamo avuto la gioia di essere presenti, sembra trascorso pochissimo tempo e quella giornata rimarrà sempre indelebile nei nostri cuori. L’iniziativa, realizzata grazie alla collaborazione fra parrocchia e amministrazione comunale, aveva anche l’intenzione di festeggiare la Beatificazione del Santo Padre, avvenuta il 1° maggio scorso in piazza San Pietro davanti ad una folla oceanica.
Il sabato sera, alle ore 21.00, abbiamo vissuto la prima tappa. Appena entrato in chiesa mi sono emozionato, trovandomi di fronte una bellissima immagine del Pontefice che spiccava su un manto rosso. Subito dentro di me ho capito quanto Karol Wojtila sia stato una persona veramente insostituibile nella mia vita.
La serata proponeva un incontro di riflessione tenuto da Monsignor Domenico Sigalini, Vescovo di Palestrina e Assistente Ecclesiastico Generale dell’Azione Cattolica. Era presente il nostro Cardinale Giovanni Battista Re; grazie a lui, infatti, abbiamo avuto il privilegio di avere il Santo Padre in mezzo a noi. Don Francesco, il nostro Parroco, ha raccontato come il lungo pontificato di Giovanni Paolo II abbia avuto una valenza fondamentale nel suo cammino, prima da laico e poi da sacerdote: ho letto nelle sue parole una viva e sentita riconoscenza.
Il giornalista Martinazzoli ha introdotto l’incontro leggendo un articolo pubblicato su un giornale locale il 20 luglio 1998, che subito mi ha fatto tornare alla memoria tutto ciò che è successo in quella memorabile giornata. Poi è stata proposta la visione di un filmato che ripercorreva le tappe della visita del Papa qui a Borno: rivedendo le immagini e riascoltando le sue parole mi è venuta la pelle d’oca! Mons. Sigalini ha trattato un argomento a me molto caro: il rapporto speciale che legava Giovanni Paolo II ai giovani, dato che don Domenico ha collaborato attivamente per la realizzazione delle Giornate Mondiali della Gioventù e ha sempre lavorato a stretto contatto con il mondo giovanile.
Non è questo il giusto contesto per ripercorrere nei dettagli il suo edificante intervento, ma permettetemi di citare brevissimamente tre aspetti che mi hanno particolarmente colpito. Prima del pontificato di Wojtyla, i giovani erano considerati dalla Chiesa principalmente un problema che non si sapeva come affrontare. Il Papa, da subito dopo l’elezione, voleva che in ogni sua visita pastorale nazionale o internazionale fosse riservato un momento per incontrare i giovani, che dopo l’incontro con lui desideravano continuare a trovarsi insieme per pregare e crescere nella fede. Col passare del tempo è nata nella Chiesa una valida Pastorale giovanile. Giovanni Paolo II nella Lettera Apostolica “Delecti Amici”, in occasione dell’anno internazionale della gioventù proclamato dall’ONU, considera l’età giovanile la parte più importante dell’esistenza umana per aprirsi al progetto d’eternità di Dio.
Un secondo aspetto che mi ha arricchito tantissimo è stata una citazione: il Papa ai Giovani Kazaki, il 23 settembre 2001, risponde a un interrogativo: “Chi sono io secondo te ,Papa Giovanni Paolo II”?, si immagina che gli chiedano. E lui risponde: “Tu sei un pensiero di Dio, tu sei un palpito del cuore di Dio…”. Io mi sento ancora giovane: beh, sentirmi definire “un palpito del cuore di Dio” mi riempie il cuore. Qui collego velocemente a un terzo aspetto: Mons. Domenico Sigalini ha detto che esiste una “generazione di Wojtyla”; io sento di farne parte perchè lui è stato per più di vent’anni, specialmente durante la mia adolescenza e giovinezza, un mio primo punto di riferimento nella fede anche se non lo conoscevo di persona. Ringrazio il Signore per questo immenso privilegio.
Domenica alle ore 10.00, presso la “Dassa”, luogo in cui atterrò l’elicottero con a bordo il Santo Padre, è stata benedetta una targa commemorava della Beatificazione di Giovanni Paolo II, poi il corteo ha raggiunto in processione la chiesa, accompagnato dalla banda, dove alle 10.30 ha avuto inizio la solenne celebrazione eucaristica presieduta dal Cardinale Giovanni Battista Re e concelebrata con Monsignor Foresti, (vescovo di Brescia durante la visita del Papa) e Monsignor Morandini. Era presente anche don Giuseppe e non dimenticherò mai il suo grande impegno per preparare al meglio un così grande evento. Alla Santa Messa hanno preso parte anche le autorità civili e le associazioni.
Al termine dell’omelia il Cardinale ha raccomandato a ciascuno di noi di tenere vivo il ricordo della visita e di essere testimoni del messaggio che il Beato Giovanni Paolo II ci ha lasciato, di cui ha citato una parte veramente bella: “Cari bornesi, avete voluto accogliermi davanti alla vostra chiesa parrocchiale, che domina sulle vostre case e che è significativo punto di riferimento della vostra fede e della vostra storia. Da questo luogo a voi caro vorrei dire a tutti: amate la vostra fede, testimoniatela con gioia, rendetela operosa mediante l’amore fraterno, il perdono generoso, l’aiuto reciproco e solidale. A quanti sono lontani dalla Chiesa o non credenti vorrei rivolgere quest’invito: non abbiate paura di cercare Dio, perché Egli vi sta cercando e vi ama”.
Alle ore 17.00 si è svolta l’ultima tappa di queste due giornate: il concerto del coro “Amici del canto” con la lettura di alcuni brani tratti dalle opere del Papa. Come sempre la qualità del coro è stata altissima; ogni volta che li sento cantare è un susseguirsi di emozioni ed i testi scelti fra una canzone e l’altra sono stati per me un grande aiuto per riflettere e pregare. Questa iniziativa mi ha dato ancora una volta una conferma importante: Giovanni Paolo II non c’è più fisicamente, ma rimarrà sempre mia guida e sostegno nella preghiera. Ora la Chiesa l’ha riconosciuto Beato, ma io l’ho sempre considerato un Santo, per ciò che mi ha dato e continua a darmi ancora oggi.
Luca Dalla Palma
Una delle celebrazioni religiose più attese di questo 2011 sarà la beatificazione di Giovanni Paolo II. Negli ultimi dieci secoli nessun Papa ha innalzato agli onori degli altari il suo immediato predecessore.
La celerità con cui, per Giovanni Paolo II, è stata portata a termine la complessa procedura è stata possibile perché Benedetto XVI aveva dispensato dalla norma che impediva di iniziare l’iter prima che fossero passati cinque anni dalla morte. Certamente poi ha facilitato le cose l’esemplarità della vita e la vasta fama di santità che Karol Wojtyla godeva.
Come data per la cerimonia di beatificazione è stata scelta domenica 1 maggio, ottava di Pasqua, perché è la festa della Divina Misericordia, celebrazione liturgica istituita proprio da Giovanni Paolo II. Karol Wojtyla è rimasto nel cuore della gente. La luce dei suoi insegnamenti e della sua testimonianza personale non si è spenta con la morte, ma continua ad illuminare il cammino dell’umanità.
Giovanni Paolo II è un papa che non muore, soprattutto nel cuore dei bresciani, grazie anche alle cinque volte che è stato in terra bresciana. Nel 1982 e nel 1998 a Brescia, due volte in Adamello (una a sciare e una per celebrare la Messa per gli alpini) e una a Borno. Giovanni Paolo II appartiene ai giganti della storia. Suo grande merito è di avere risvegliato nel mondo il senso religioso. Ha fatto capire che non si possono limitare gli orizzonti dell’uomo a questa terra. Ha insegnato che la coscienza “in cui l’uomo si trova solo con Dio e scopre una legge scritta nel cuore” (Gaudium et spes, 16) conferisce un’altissima dignità all’uomo e alla donna, che nessuno può strappare o sopprimere, e che ognuno è obbligato a seguire.
Ha avuto fiducia nella forza delle istanze spirituali e morali ed ha sempre messo al centro la persona umana, con la sua intangibile dignità e libertà. E questa centralità della persona umana ha saputo non solo difenderla col vigore che ha caratterizzato il suo ministero apostolico, ma l’ha testimoniata con l’esempio eloquente della sua profonda umanità, che aveva il fascino di una personalità completa. Egli, inoltre, ha saputo congiungere un profondo e penetrante realismo storico con uno sguardo illuminato dalla fede. Perciò ha saputo scorgere l’azione di Dio nella trama degli avvenimenti ed ha saputo influire da protagonista sul corso degli eventi, incidendo nella storia, come ha affermato lo stesso Gorbaciov; ma la prima e fondamentale caratteristica del suo pontificato è stata religiosa.
Il movente di tutto il pontificato, il motivo ispiratore di tutte le iniziative intraprese fu religioso: tutti gli sforzi del Papa miravano a fare rientrare Dio da protagonista in questo mondo. Il motivo per cui Giovanni Paolo II era contro il comunismo era un motivo non politico, ma religioso: egli operò con coraggio contro un sistema che professava l’ateismo e perseguitava la Chiesa, e in pari tempo opprimeva l’uomo, negandogli piena libertà. Era religioso il motivo che ispirava il Papa e faceva seguito alle parole vibranti da lui pronunciate nella prima celebrazione in piazza San Pietro: “Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo!”.
La Divina Provvidenza mi ha concesso la gioia e il privilegio di essere vicino al papa Giovanni Paolo II dall’inizio del suo pontificato fino alla fine. Vivendo vicino a lui, molte erano le cose che colpivano, su tutte, però, l’intensità della sua preghiera. Una preghiera profonda e intimamente personale, e in pari tempo legata alle tradizioni e alla pietà della Chiesa. Attirava l’attenzione il modo in cui egli si abbandonava alla preghiera: si notava in lui un trasporto che gli era connaturale e che lo assorbiva come se non avesse impegni urgenti che lo chiamassero alla vita attiva. Il suo atteggiamento nella preghiera era raccolto e, in pari tempo, naturale e sciolto: testimonianza, questa, di una comunione con Dio intensamente radicata nel suo animo; espressione di una preghiera convinta, gustata, vissuta.
Commuoveva la facilità, la spontaneità, la prontezza con le quali egli passava dal contatto umano con le folle al raccoglimento del colloquio intimo con Dio. Quando era raccolto in preghiera, ciò che succedeva attorno a lui sembrava non toccarlo e non riguardarlo, tanto si immergeva nell’abbandono in Dio. Egli si preparava ai vari incontri, che avrebbe avuto in giornata o nella settimana, pregando.
Prima di ogni decisione importante Giovanni Paolo II vi pregava sopra a lungo. Più importante era la decisione, più prolungata era la preghiera. Nella sua vita vi era un’ammirevole sintesi fra preghiera ed azione. Giovanni Paolo II è stato un grande uomo, un grande Papa e un grande santo. Grande come uomo: aveva una straordinaria ricchezza di umanità. Aveva profondità di pensiero, con un impianto filosofico e, in pari tempo, era un mistico che aveva dentro di sé una forte tensione spirituale.
Era poi molto attento alle vicende e alle inquietudini degli uomini ed aveva una grande capacità di apprezzare e godere le bellezze della natura, dell’arte, della letteratura, del calore delle amicizie, delle conquiste umane. Un grande Papa: è stato il primo pontefice a compiere il giro del mondo, proponendosi ovunque come seminatore di speranza. È il primo Papa a entrare in sinagoga; il primo a visitare una moschea e a parlare a una folla di musulmani (in Marocco). Un Papa che ha saputo compiere il suo ministero di confermare i fratelli nella fede, visitando e incoraggiando le comunità cristiane sparse nei cinque continenti. Un comunicatore nato, che ha realizzato una infinità di cose ed ha aperto vasti orizzonti davanti al cammino della Chiesa.
Gian Franco Svidercoschi, con espressione audace, ha scritto che Giovanni Paolo II “ha accorciato la distanza fra il cielo e la terra”, nel senso che ha fatto molto per aiutare gli uomini ad incontrarsi con Dio.
Un grande santo: fu un uomo tutto di Dio. Sì, il grido nato tra la folla ai suoi funerali: “santo subito”, manifestò la convinzione che c’è nel cuore di molte persone. In lui vi era una perfetta coerenza fra ciò che diceva, ciò che pensava, ciò che faceva e ciò che era. Giovanni Paolo II ha indicato a tutti la via della verità e dei valori morali e spirituali, come unica strada che può assicurare un futuro più umano, più giusto e più pacifico.
Card. Giovanni Battista Re
Il pellegrino o il turista che giunge in piazza San Pietro vede dominare dall’alto della facciata del braccio avanzato del Palazzo Apostolico, nel lato verso la basilica Vaticana, il mosaico della Madonna recante il titolo di Mater Ecclesiae. Alla base del mosaico, che raffigura la Vergine Maria col bambino Gesù, è inserito lo stemma di Giovanni Paolo II con il motto “Totus tuus”. L’immagine, di oltre due metri e mezzo di altezza, è stata collocata lì tra novembre e dicembre del 1981, e ha una storia che merita di essere ricordata per lo stretto e significativo legame col Pontefice beatificato lo scorso 1° maggio.
Quando, infatti, dopo l’attentato del 13 maggio 1981, Karol Wojtyla ritornò in Vaticano dopo il primo ricovero al policlinico Gemelli, i responsabili del Governatorato stavano valutando la possibilità di collocare un segno visibile sul selciato di piazza San Pietro, nella zona in cui il Papa era stato colpito, per ricordare una pagina dolorosa della storia della Chiesa ma anche per testimoniare il segno di una protezione celeste. L’intenzione di Giovanni Paolo II fu espressa immediatamente: il suo desiderio era che, a ricordo dell’attentato, nella piazza fosse collocata, ben visibile, un’immagine della Madonna. Egli infatti era convinto che fosse stata la Vergine Maria a proteggerlo. E dunque non c’era modo migliore per fare memoria di quel 13 maggio.
Papa Wojtyla rivelò anche che, già nell’anno precedente, qualcuno gli aveva fatto notare una singolare “mancanza” in piazza San Pietro: alla statua di Cristo, che spicca sulla facciata della basilica, facevano corona quelle degli apostoli e di numerosi santi, disseminati in tutto l’emiciclo del colonnato, ma non c’era un’effige della Madonna. In realtà, una bella immagine della Vergine è dipinta nella lunetta sopra il portone di Bronzo, ma è visibile soltanto a chi entra sotto il colonnato e si porta ai piedi della grande scala di accesso.
Il Papa aggiunse che bisognava studiare con cura una soluzione intonata a una piazza ricca di arte e quanto mai suggestiva e maestosa. Si procedette pertanto in tale direzione. L’arcivescovo Eduardo Martínez Somalo, sostituto della Segreteria di Stato, incaricò me, allora assessore, di prendere direttamente contatto con il vescovo Giovanni Fallani, presidente della Commissione permanente per la tutela dei monumenti storici e artistici della Santa Sede, e col professor Carlo Pietrangeli, direttore dei Musei Vaticani, chiedendo loro di studiare un progetto degno di piazza San Pietro e poi di fare proposte, consultando eventualmente in merito anche qualche artista. Quando gli illustrai il desiderio del Pontefice, Pietrangeli si mostrò piuttosto scettico. E pur promettendo che avrebbe riflettuto e consultato qualche collega, espresse la convinzione che si trattasse di un’impresa - per quanto suggestiva - quasi impossibile da realizzare.
Monsignor Fallani riferì che qualche mese prima gli era stato chiesto un parere sulla proposta di un mosaico mariano in una finestra affacciata su piazza San Pietro. E assicurò che si sarebbe subito recato sul posto per studiare il problema. Due ore dopo mi telefonò, dando appuntamento in piazza San Pietro a me e a Pietrangeli. Quando arrivammo egli, indicando col dito la finestra del Palazzo Apostolico dove ora è il mosaico, disse: “Per me, una soluzione che si inserisce bene nello scenario di piazza San Pietro è quella di un mosaico collocato dentro la cornice in travertino di quella finestra lassù in alto”.
Fallani mi domandò che cosa c’era dietro la finestra. Risposi che si trattava della stanza dove lavoravano due suore dattilografe della Segreteria di Stato e che, per di più, quell’ampio locale aveva già un’altra finestra laterale. Pietrangeli giudicò valida la proposta, sorpreso che fosse stata individuata così presto una soluzione adatta per un complesso architettonico che molti avrebbero giudicato intoccabile. Ma soprattutto il progetto piacque al Papa, che ci esortò ad andare avanti.
Trattandosi di un mosaico, si pensò di interessare subito l’arcivescovo Lino Zanini, presidente dello Studio del mosaico della Fabbrica di San Pietro, il quale fece presente che bisognava innanzitutto decidere quale raffigurazione mariana scegliere per il mosaico. Interpellato in proposito, Giovanni Paolo II fece sapere che gli sarebbe piaciuta una raffigurazione della Madonna come Madre della Chiesa, perché - spiegò - “la Madre di Dio è sempre stata unita alla Chiesa ed è stata sentita sempre come particolarmente vicina nei momenti difficili della sua storia”. Aggiunse peraltro che egli era personalmente convinto che il 13 maggio la Vergine Maria fosse presente in piazza San Pietro per salvare la vita del Papa.
Monsignor Zanini informò al riguardo che, all’interno della Basilica Vaticana - precisamente sul primo altare a sinistra per chi entra dalla porta laterale detta “della preghiera” - vi era una Madonna col Bambino, la quale, durante il pontificato di Paolo VI, era stata ben restaurata e poi denominata Mater Ecclesiae, a ricordo della storica data del 21 novembre 1964, quando Papa Montini, durante il concilio Vaticano II, aveva proclamato la Vergine Maria “Madre della Chiesa”. È un’effige ricca di significato e di storia, essendo un affresco dipinto in capite columnarum e posto nell’atrio dell’antica basilica costantiniana. Si tratta, tra l’altro, di una delle poche cose belle che fu possibile salvare e trasferire poi nella nuova basilica, dopo che fu terminata la cupola michelangiolesca. Il suo trasferimento avvenne nel 1607 e il Capitolo vaticano la incoronò nel 1645. Dato che proveniva da una colonna dell’atrio della precedente basilica, si soleva designarla genericamente come “Madonna della colonna”.
La proposta di monsignor Zanini di riprodurre in mosaico per piazza San Pietro questo storico affresco, intitolato alla Mater Ecclesiae, fu condivisa da monsignor Fallani e dalla Commissione da lui presieduta. Il progetto fu quindi sottoposto al Papa, che diede la sua approvazione. Il professor Virgilio Cassio, con la collaborazione di un paio di esperti artisti, con lodevole impegno interpretò per il mosaico l’antico affresco, rispettandone le caratteristiche, ma con un lieve ritocco per quanto riguarda la raffigurazione del bambino Gesù, e intensificando il vigore cromatico dell’intera immagine, affinché fosse meglio visibile a grande distanza. Nella parte inferiore del mosaico furono collocati lo stemma di Giovanni Paolo II e il motto “Totus tuus”. Sotto il basamento fu posta la scritta in caratteri bronzei: MATER ECCLESIAE.
La direzione degli Uffici tecnici del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano preparò la cornice metallica da applicare all’immagine musiva e si procedette all’installazione. L’8 dicembre 1981 Giovanni Paolo II, prima di recitare l’Angelus, benedisse l’immagine mariana, segno di celeste protezione sul Pontefice, sulla Chiesa e su chi giunge in Piazza San Pietro. Successivamente, sul selciato della piazza, fu collocata una piastrella in marmo recante lo stemma di Papa Wojtyla per indicare il punto preciso in cui fu colpito.
di GIOVANNI BATTISTA RE
Cardinale prefetto emerito della Congregazione per i Vescovi
L’Osservatore Romano 18 maggio 2011
Ogni anno nelle ferie di agosto, come sollievo spirituale alla calura estiva, viene la festa piena di freschezza della Madonna Assunta. Si tratta di una festa antica, che ha il suo fondamento ultimo nella Sacra Scrittura: questa infatti presenta la Vergine Maria strettamente unita al suo Figlio divino e sempre a Lui solidale. Madre e Figlio appaiono strettamente associati nella lotta contro il nemico infernale fino alla piena vittoria su di lui.
Questa vittoria si esprime, in particolare, nel superamento del peccato e della morte, nel superamento cioè di quei nemici che san Paolo presenta sempre congiunti. Perciò, come la risurrezione gloriosa di Cristo fu il segno definitivo di questa vittoria, così la glorificazione di Maria anche nel suo vero corpo, costituisce la conferma finale della sua piena solidarietà col Figlio tanto nella lotta quanto nella vittoria. Ma ciò che ora vive la vergine Maria ha un senso ed un valore anche per noi.
La Madonna non si è allontanata da noi, ma ci resta sempre accanto ed ancor più vicina. Dal cielo la sua luce si proietta sulla nostra vita e sulla storia dell’intera umanità. Attratti dal celeste splendore della Madre del Redentore, ricorriamo con fiducia a Colei che dall’alto ci guarda e ci protegge.
Abbiamo tutti bisogno dell’aiuto e del conforto di qualcuno per affrontare le prove e le sfide di ogni giorno; abbiamo bisogno di sentire che qualcuno ci comprende e ci vuol bene come una mamma o sorella nelle concrete situazioni della nostra esistenza.
La Vergine Maria è per noi conforto e consolazione, amore e attenzione che supera anche quello di un fratello, una sorella, una madre. Lei inoltre, prima di noi gode del Paradiso, per questa intima unione con il Figlio. Ma questo destino è aperto anche a noi, nella fede e nella perseveranza di discepoli del Signore, come fu anche lei. E per poter condividere un giorno anche noi per sempre il suo medesimo destino, imitiamo la Vergine Assunta nel seguire docilmente Gesù Cristo suo Figlio e nel servire con generosità i nostri fratelli. È questo l’unico modo per pregustare, già nel pellegrinaggio terreno della vita, la gioia e la pace che vive in pienezza chi giunge alla meta immortale del Paradiso.
J.R.
In preparazione alla festa del nostro patrono San Giovanni Battista, anche quest'anno don Francesco ci ha proposto quattro processioni serali. Abbiamo iniziato lunedì 20 giugno ritrovandoci presso il giardino della casa posta sulla prima curva di Rivadossa. Pregando il Rosario nelle varie tappe segnate dalle croci posizionate nel pomeriggio, ci siamo diretti verso Calagno, per poi scendere in Via Don Moreschi e terminare la preghiera mariana presso i giardinetti in fondo a Borno.
Il Castello nella parte alta del paese è stato punto di riferimento per la seconda serata, in cui abbiamo pregato mediante la Via Crucis che si è snodata per alcune strade che non capita spesso di percorrere a chi non abita in quei paraggi. Dopo l'ultima stazione di nuovo davanti al tradizionale e suggestivo portale del Castello, don Francesco si è giustamente complimentato con gli abitanti della zona per gli addobbi (fiori, daze, tovaglie, lumini, ecc.) con cui avevano abbellito questa porzione di paese, raramente coinvolta in manifestazioni religiose e non.
Per mercoledì sera l’appuntamento era in Viale Pineta dove, percorrendo le varie traverse di Pciandass, abbiamo vissuto e pregato la Via Matris: come riportato nel libretto ogni tappa di questa preghiera prevedeva la lettura di un breve brano biblico e di alcuni paragrafi del Catechismo della Chiesa Cattolica riguardanti Maria la Madre di Gesù, seguiti da tre invocazioni e una preghiera finale. La preghiera si è conclusa presso la santella dedicata all’apparizione della Madonna ad Ardesio, all’imbocco della strada vecchia delle Ogne.
Tornando a casa martedì sera con Pierina e Giacomina che, insieme a Franca, mi hanno accompagnato con amicizia e disponibilità, da solito criticone mi ero un po’ lamentato del fatto che “almeno quando non è Quaresima”, dicevo a loro, “sarebbe bello concludere la Via Crucis con la stazione dedicata alla Risurrezione”. La mia frettolosa lamentela è stata soddisfatta nella processione di giovedì sera. Partendo dalla Casa delle suore, percorrendo via Piana per poi risalire via Milano e giungere all’albergo delle Suore Orsoline di Piacenza, abbiamo celebrato la Via Lucis che, sullo stile della Via Matris, è dedicata interamente proprio alla Risurrezione di Gesù.
Venerdì 24 giugno, ovviamente, abbiamo vissuto la festa del nostro patrono con una Messa solenne alle ore 10,00, presieduta da mons. Giuglio Sanguineti, penultimo vescovo della nostra diocesi, e un’altra alle 20,00, seguita dall’ultima processione con la statua di san Giovanni Battista dalla piazza alla chiesetta della Dassa.
Le celebrazioni in onore del patrono hanno avuto un’appendice il successivo sabato sera con un bel concerto in chiesa proposto dal coro “Amici del canto” di Borno e dall’altrettanto bravo, anche se meno numeroso, coro “Fragmenta”, un gruppo di voci miste proveniente da Scorzé, un paese in provincia di Venezia.
Sinceramente non sono un grande appassionato di processioni e altri orpelli devozionali. Quest’anno vi ho partecipato, su invito dell’amica Pierina, soprattutto per trascorrere qualche sera pregando e camminando: due azioni che non fanno mai male, pur richiedendo qualche fatica. Però alcuni spunti offerti da don Francesco mi hanno fatto riflettere.
Fin dalla prima sera ci ha ricordato che, come qualsiasi momento di preghiera, anche la settimana dedicata al patrono, magari sostenuta dall’intercessione di Maria e dello stesso san Giovanni Battista, doveva avere sempre al centro il vivo fondamento della nostra fede: Gesù Cristo.
Durante le processioni è capitato più di una volta di aver creato qualche disagio a persone che, giungendo con la loro auto nel tratto di strada da noi occupato, si vedevano costrette a fermarsi, tornare indietro oppure deviare per un’altra via. In quel momento, magari, gli automobilisti ci avranno bonariamente mandato a quel paese. Don Francesco, tuttavia, ci faceva notare come anche questi piccoli disagi possono divenire segno della nostra testimonianza, suscitando in chi era costretto ad incontrare o subire la nostra presenza la possibile domanda sul perché un gruppo di persone decida di trascorrere qualche bella serata di giugno pregando e cantando lungo le strade del proprio paese.
In fondo anche Giovanni Battista attirava l’attenzione per alcuni suoi comportamenti non proprio usuali: viveva nel deserto, si cibava di locuste e miele selvatico, si copriva di peli di cammello e definiva i ben pensanti “razza di vipere”.
Grazie alla grande pazienza e al lavoro di diverse persone che anche quest’anno hanno colorato e rallegrato la piazza e la sua bella fontana con i fiori e le tradizionali “daze” (sia vere che finte), senza dimenticare le molte persone che nelle varie zone del paese hanno accolto le processioni con vari arredi lungo le strade e ai davanzali delle finestre, possiamo affermare di aver letteralmente preparato le vie per far festa al nostro patrono.
Tali manifestazioni esteriori, le processioni e la stessa festa patronale, però, hanno senso ed evitano di scadere appunto in meri orpelli devozionali o folkloristici, solo se ci impegniamo a vivere realmente fuori, sulle strade e nei crocicchi della quotidianità ciò in cui crediamo, ciò che riceviamo e celebriamo dentro la chiesa e nell’intimo della nostra preghiera, trovando anche il coraggio, con amore e nel massimo rispetto degli altri, di andare controcorrente quando è necessario, di essere segno e pietra di inciampo sui percorsi della consuetudine.
Solo così potremo testimoniare il nostro desiderio di preparare la via del Signore, accogliendo e facendo nostro anche l’altro invito che San Giovanni Battista ci rivolge: abbassare i monti dell’egoismo e i colli della diffidenza che si accumulano nel cuore di ogni uomo e che, non di rado, impediscono di sentirci davvero comunità.
Franco
Il nome dice chi è l’uomo. Così è per Giovanni figlio di Zaccaria ed Elisabetta, a cui è imposto un nome che non ha posto nella tradizione famigliare dei genitori. Giovanni significa “Dio è propizio”. Questo nome esprime già la missione di quel piccolo bambino ed anche il contenuto della sua predicazione. Imporre quel nome non è dunque una volontà esclusiva dei genitori. Piuttosto la concordanza tra il volere di Dio ed il desiderio del padre e della madre di Giovanni. C’è una collaborazione dei genitori alla realizzazione della missione del figlio, che dovrà annunciare la “benevolenza di Dio”, un dono che giungerà agli uomini nel battesimo nello Spirito Santo, passando per il battesimo di conversione di Giovanni, il Battista.
Il nome imposto a Giovanni è già dunque un annuncio della buona notizia, è già un Vangelo. Fa riflettere invece l’uso di oggi di imporre nomi ai figli che nulla hanno a che fare con il loro destino e men che meno esprimono una scintilla di fede: Alano, Vikinga, Asia, Luna, Oceano, Channel, Lido ed altri nomi di persona ancora più imbarazzanti per chi li porterà. È vero che ognuno costruisce il suo futuro con le proprie qualità, con l’educazione e la volontà, ma grande è anche la responsabilità di genitori che sviliscono la stima e le possibilità di un figlio imponendogli un nome che gratifica solo il desiderio momentaneo di chi lo sceglie per una moda o una passione propria.
Non è tramontato tuttavia l’uso cristiano di dare ai bambini il nome di un santo, un nome nobile, che ha un significato etimologico antico ed un significato che viene dall’esempio di vita di chi lo ha portato con onore. Il nome è dunque una via in parte già tracciata, che tuttavia può e deve diventare “personale” mediante lo sviluppo originale dello stile, delle qualità, dei principi contenuti nel nome battesimale. Un nome cristiano darà poi la sicurezza a chi lo ha ricevuto nel giorno del battesimo, che in ogni evenienza mai sarà abbandonato da Colui che lo ha segnato per sempre con il primo sacramento.
È questa la garanzia migliore che il patrimonio buono posseduto da ogni piccolo bambino al momento del battesimo sarà esaltato dalla Grazia del Padre, che l’ha eletto con quel segno indelebile, “suo figlio”. Così con l’aiuto dei genitori, crescendo, quel bambino prenderà pian piano coscienza della sua identità di uomo con un nome che gli indica già la via possibile da seguire e di “figlio di Dio” che ha un destino grande ed un posto unico nel cuore del Padre del cielo.
Don Francesco
La festività del Corpus Domini ha un'origine più recente di quanto sembri. La solennità cattolica del Corpus Domini (Corpo del Signore) chiude il ciclo delle feste del dopo Pasqua, vuole celebrare il mistero dell’Eucaristia ed è stata istituita grazie ad una suora che nel 1246, per prima, volle celebrare il mistero dell’Eucaristia in una festa slegata dal clima di mestizia e lutto della Settimana Santa.
Il suo vescovo approvò l’idea e la celebrazione dell’Eucaristia divenne una festa per tutto il compartimento di Liegi, dove il convento della suora si trovava. In realtà la festa posa le sue radici nell’ambiente fervoroso della Gallia belgica - che San Francesco chiamava “amica Corporis Domini” - e in particolare grazie alle rivelazioni della Beata Giuliana di Retìne. Nel 1208 la beata Giuliana, priora nel Monastero di Monte Cornelio presso Liegi, vide durante un’estasi il disco lunare risplendente di luce candida, deformato però da un lato da una linea rimasta in ombra; da Dio intese che quella visione significava la Chiesa del suo tempo che ancora mancava di una solennità in onore del SS. Sacramento.
Il direttore spirituale della beata, il Canonico di Liegi Giovanni di Lausanne, ottenuto il giudizio favorevole di parecchi teologi in merito alla suddetta visione, presentò al vescovo la richiesta di introdurre nella diocesi una festa in onore del Corpus Domini. La richiesta fu accolta nel 1246 e venne fissata la data del giovedì dopo l’ottava della Trinità. Più tardi, nel 1262, salì al soglio pontificio, col nome di Urbano IV, l’antico arcidiacono di Liegi e confidente della beata Giuliana, Giacomo Pantaleone.
Ed è a Bolsena, proprio nel Viterbese, la terra dove è stata aperta la causa suddetta che in giugno, per tradizione, si tiene la festa del Corpus Domini a ricordo di un particolare miracolo eucaristico avvenuto nel 1263, che conosciamo sin dai primi anni della nostra formazione cristiana. Infatti, ci è raccontato che un prete boemo, in pellegrinaggio verso Roma, si fermò a dir messa a Bolsena ed al momento dell’Eucarestia, nello spezzare l’ostia consacrata, fu pervaso dal dubbio che essa contenesse veramente il corpo di Cristo. A fugare i suoi dubbi, dall’ostia uscirono allora alcune gocce di sangue che macchiarono il bianco corporale di lino liturgico (attualmente conservato nel Duomo di Orvieto) e alcune pietre dell’altare tuttora custodite in preziose teche presso la basilica di Santa Cristina.
Venuto a conoscenza dell’accaduto, Papa Urbano IV istituì ufficialmente la festa del Corpus Domini estendendola dalla circoscrizione di Liegi a tutta la cristianità. La data della sua celebrazione fu fissata nel giovedì seguente la prima domenica dopo la Pentecoste (60 giorni dopo Pasqua). Così, l’11 Agosto 1264 il Papa promulgò la Bolla “Transiturus” che istituiva per tutta la cristianità la Festa del Corpus Domini dalla città che fino allora era stata infestata dai Patarini, neganti il Sacramerito dell’Eucaristia. Già qualche settimana prima di promulgare questo importante atto - il 19 Giugno - lo stesso Pontefice aveva preso parte, assieme a numerosissimi Cardinali e prelati venuti da ogni luogo e ad una moltitudine di fedeli, ad una solenne processione con la quale il sacro lino macchiato del sangue di Cristo era stato recato per le vie della città.
Da allora, ogni anno in Orvieto, la domenica successiva alla festività del Corpus Domini, il Corporale del Miracolo di Bolsena, racchiuso in un prezioso reliquiario, viene portato processionalmente per le strade cittadine, seguendo il percorso che tocca tutti i quartieri e tutti i luoghi più significativi della città. In seguito la popolarità della festa crebbe grazie al Concilio di Trento, si diffusero le processioni eucaristiche e il culto del Santissimo Sacramento al di fuori della Messa.
Se nella Solennità del Giovedì Santo la Chiesa guarda all’Istituzione dell’Eucaristia, scrutando il mistero di Cristo che ci amò sino alla fine donando se stesso in cibo e sigillando il nuovo Patto nel suo Sangue, nel giorno del Corpus Domini l’attenzione si sposta sull’intima relazione esistente fra Eucaristia e Chiesa, fra il Corpo del Signore e il suo Corpo Mistico. Le processioni e le adorazioni prolungate, celebrate in questa solennità, manifestano pubblicamente la fede del popolo cristiano in questo Sacramento. In esso la Chiesa trova la sorgente del suo esistere e della sua comunione con Cristo, presente nell’Eucaristia in Corpo, Sangue, anima e Divinità.
Oggi, in Italia e in altri Paesi, si celebra il Corpus Domini, la festa dell’Eucaristia, il Sacramento del Corpo e Sangue del Signore, che Egli ha istituito nell’Ultima Cena e che costituisce il tesoro più prezioso della Chiesa. L’Eucaristia è come il cuore pulsante che dà vita a tutto il corpo mistico della Chiesa: un organismo sociale tutto basato sul legame spirituale ma concreto con Cristo. Come afferma l’apostolo Paolo: “Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane” (1Cor 10,17). Senza l’Eucaristia la Chiesa semplicemente non esisterebbe.
È l’Eucaristia, infatti, che fa di una comunità umana un mistero di comunione, capace di portare Dio al mondo e il mondo a Dio. Lo Spirito Santo, che trasforma il pane e il vino nel Corpo e Sangue di Cristo, trasforma anche quanti lo ricevono con fede in membra del corpo di Cristo, così che la Chiesa è realmente sacramento di unità degli uomini con Dio e tra di loro. In una cultura sempre più individualistica, quale è quella in cui siamo immersi nelle società occidentali, e che tende a diffondersi in tutto il mondo, l’Eucaristia costituisce una sorta di “antidoto”, che opera nelle menti e nei cuori dei credenti e continuamente semina in essi la logica della comunione, del servizio, della condivisione, insomma, la logica del Vangelo.
I primi cristiani, a Gerusalemme, erano un segno evidente di questo nuovo stile di vita, perché vivevano in fraternità e mettevano in comune i loro beni, affinché nessuno fosse indigente (cfr At 2,42-47). Da che cosa derivava tutto questo? Dall’Eucaristia, cioè da Cristo risorto, realmente presente in mezzo ai suoi discepoli e operante con la forza dello Spirito Santo. E anche nelle generazioni seguenti, attraverso i secoli, la Chiesa, malgrado i limiti e gli errori umani, ha continuato ad essere nel mondo una forza di comunione. Pensiamo specialmente ai periodi più difficili, di prova: che cosa ha significato, ad esempio, per i Paesi sottoposti a regimi totalitari, la possibilità di ritrovarsi alla Messa domenicale! Come dicevano gli antichi martiri di Abitene: “Sine Dominico non possumus” – senza il “Dominicum”, cioè senza l’Eucaristia domenicale non possiamo vivere. Ma il vuoto prodotto dalla falsa libertà può essere altrettanto pericoloso, e allora la comunione con il Corpo di Cristo è farmaco dell’intelligenza e della volontà, per ritrovare il gusto della verità e del bene comune.
La Vergine Maria, “Donna eucaristica” ci illumini e ci guidi. Alla sua scuola, anche la nostra vita diventi pienamente “eucaristica”, aperta a Dio e agli altri, capace di trasformare il male in bene con la forza dell’amore, protesa a favorire l’unità, la comunione, la fraternità.
Papa Benedetto XVI
Il tempo vola, sono passati dodici mesi ed eccoci qui, ancora all’oratorio di Ardesio, a scrivere ai nostri cari che siamo arrivati al santuario. Sono le ore 6,40 e la chiesa è chiusa. Anche quest’anno la Madonna di Ardesio ci ha protetto ed aiutato lungo il viaggio. Anzi il gruppo che parte alle ore 21,00 dalla chiesetta della Dassa è più numeroso.
Non siamo più le “tre dell’Ave Maria” (Giulia, Mara e Patrizia) ma si sono aggiunti due baldi giovanotti ed un’altra ragazza che come noi condivide la devozione alla Madonna. Dopo aver ricevuto la benedizione dal nostro parroco partiamo con zaino, ombrello, giacca a vento e poco fiduciosi nel tempo.
A Paline decidiamo di fare una piccola sosta perchè una ragazza non sta bene. Beviamo una camomilla calda e ripartiamo dopo aver salutato le numerose persone presenti nella trattoria. Il viaggio è lungo 48 Km e ne abbiamo fatto solo sette.
Il gruppo è affiatato ed anzi, la presenza di altri giovani ha reso l’esperienza più divertente e meno impegnativa. Abbiamo cantato canzoni di vari repertori, abbiamo parlato dei nostri ricordi di scuola e di quando vi era il cinema parrocchiale. Abbiamo pregato per le nostre famiglie che a casa ci pensano e per la comunità, soprattutto per le persone bisognose che non riescono a sostenere la fatica di un viaggio così lungo.
Mentre risaliamo la Presolana ci soffermiamo a guardare il cielo stellato: meraviglioso. Siamo fortunati: questa notte non pioverà. Durante il cammino abbiamo alcuni problemi. Non piove, ma fa freddo ed abbiamo le mani intirizzite. Patrizia è pallida e deve fermarsi più volte. A Clusone alla stanchezza si aggiungono i dolori alle gambe e ai piedi, ma nonostante ciò sulla nostra bocca resta il sorriso e la voglia di arrivare alla meta. I nuovi membri iniziano a chiedere dove si trova il santuario e più o meno quanti chilometri mancano.
Ormai i cartelli indicano Ardesio a 4 Km. Ed ecco l’ultima salita che, grazie all’errore del nostro condottiero Cristian, diventa un calvario. Prima di congedarci vogliamo ringraziare due signore, (la signora Bassani e sua nuora) che ci hanno aspettato nelle varie fermate ed assistito lungo il cammino. Sono state i nostri due angeli custodi. Vi aspettiamo numerosi l’anno prossimo.
Giulia, Mara e Patrizia
Anche quest’anno un gruppetto di fedeli bornesi si è recato in pellegrinaggio alla Madonna di Colere. Chi a piedi scendendo da Paline, chi in macchina, trovandosi al Dezzo alle ore 21,00, pur se non in grande numero; anche noi ci siamo incontrati con un fiume di pellegrini che scendevano da Colere e con loro abbiamo proseguito fino al santuario, già gremito di gente.
La veglia intercalava la preghiera con i canti della Corale Interparrocchiale della Val di Scalve, fino a quando parroco e sindaco di Azzone hanno compiuto il gesto dell’offerta dell’olio della lampada, che arde davanti all’effige della Madonna al santuario, segno che unisce la comunità civile e quella religiosa nell’unica devozione alla Vergine Maria.
Una bella immaginetta trovata al santuario riportava una semplicissima ed eppur densa preghiera: “O Madonna delle fontane, o Madonnina che vi degnaste di toccare la fronte del povero Burat e guarirlo miracolosamente dicendogli “confida, o caro figlio, sei guarito” liberate anche me, vi prego, dai mali dell’anima e del corpo e ripetete anche a me quelle consolanti e miracolose parole”.
Noi siamo andati al santuario, ma anche nelle nostre case possiamo invocare la Madonna per domandarle grazie, che non lei concede, ma che ottiene dal Figlio suo Gesù, nostro unico e potente Signore. Madonnina bella di Colere, che hai prediletto un figlio di Borno apparendo a lui e segnandolo con un tocco miracoloso, ascolta anche oggi la preghiera nostra, per tutti i bornesi, soprattutto quelli malati che sembrano avere perso ogni speranza, per loro e per i loro famigliari che sono nel momento della prova. Anche noi confidiamo in te.
Un anno fa il Papa Benedetto XVI annunciava alla Chiesa intera l’intenzione di creare un nuovo Pontificio Consiglio che avesse il compito di promuovere una rinnovata evangelizzazione proprio nei paesi dove già era risuonato il primo annuncio.
Questa intenzione del Papa parte dalla constatazione che il nostro vecchio mondo è tanto moderno in campi come la medicina, la scienza, la tecnologia, la comunicazione, ma sembra contemporaneamente aver perso il senso di tutto ciò che è l’anima cristiana, che ne ha favorito nei secoli lo sviluppo ed il progresso fino ai nostri giorni. Il nuovo dicastero pontificio è stato affidato ad uno dei più acuti collaboratori del Papa: Mons. Rino Fisichella. Egli sta costituendo la base strutturale di questo nuovo Consiglio, frutto maturo del Concilio Vaticano II°, che prende vita adesso, ma ha negli auspici di Papa Giovanni XXIII la radice e nell’azione pastorale di Papa Giovanni Paolo II la preparazione remota.
Il Papa bergamasco, già negli anni del suo pontificato, evidenziava la necessità da parte della Chiesa di “riprendere ad annunciare il Vangelo con miglior forza, facendosi capire dall’uomo contemporaneo”. L’Evangeli Nuntiandi di Papa Paolo VI fissò con parole indelebili questo invito pressante di Giovanni XXIII, che trovarono nel conio dell’espressione “nuova evangelizzazione” l’impulso ad una nuova missionarietà “ad intra” oltre che “ad extra” da sempre attuata dallo stesso Giovanni Paolo II ed ora ripresa da Benedetto XVI con l’istituzione del nuovo Pontificio Consiglio. Ma se la struttura si va completando per divenire operativa – dice Mons. Rino Fisichella – sono necessari “nuovi evangelizzatori”.
L’intenzione allora è anche quella di formare nuovi evangelizzatori, attingendo all’esperienza di tante realtà ecclesiali, che in questi decenni si sono rimboccate le maniche ed hanno realmente messo in atto metodologie di nuova evangelizzazione con grandi risultati. Anche le parrocchie sono invitate a non restare inerti a guardare, ma a porsi anzitutto il problema di come rispondere ad una lenta, ma inesorabile erosione delle dimensioni della comunità ecclesiale.
Giovani, genitori con figli piccoli, fidanzati e giovani coppie sono coloro che sembrano più bisognosi di un nuovo annuncio della fede. Anche noi, dunque, dobbiamo porci la domanda se sia necessario oppure no annunciare ancora la fede a Borno e se la risposta è sì, come fare, con quali strumenti, con quali persone mettere in atto la “nuova evangelizzazione”.
Alla ripresa delle attività pastorali, con il nuovo Consiglio pastorale Parrocchiale ci porremo al lavoro anche noi e chissà che il nuovo Pontificio Consiglio non ci possa dare qualche idea per la Nuova Evangelizzazione nella parrocchia di Borno.
Don Francesco
Nei prossimi giorni un evento straordinario verrà vissuto da più di un milione di giovani in Spagna: la XXVI Giornata Mondiale della Gioventù. È un evento a cui ho partecipato anch’io, anche se solo due volte: alla memorabile GMG di Roma 2000 e alla GMG di Colonia 2005, con il Papa Benedetto appena eletto. Due milioni di giovani hanno invaso Roma nel 2000 ed il Papa, nella veglia del sabato sera, ha fatto sorridere tutti a Tor Vergata quando disse “Roma mai non sentì tanto chiasso e mai lo dimenticherà”.
Non era il chiasso urlante di tanta gioventù attuale. Era la gioia e l’allegria di quei giovani che, dopo un cammino di vari chilometri a piedi, si ritrovavano con il nostro amato Papa Giovanni Paolo II, ora beato, che ci parlava di Gesù Cristo Salvatore del mondo.
Nate dall’intuizione di Giovanni Paolo II, che amava i giovani in modo viscerale e confidava nella forza della loro giovinezza per portare Gesù alla parte della Chiesa che sembrava meno disposta ad accoglierlo, le GMG sono cresciute costantemente nel tempo, grazie anche alla loro celebrazione alternata tra la città del Papa e le città del mondo. Così, oltre a Roma, esse sono state celebrate a Buenos Aires, a Santiago di Compostela, a Czestohowa, a Denver, a Manila, a Parigi, a Toronto, a Sidney, a Colonia ed ora a Madrid.
Ogni GMG ha portato qualcosa di nuovo. Non solo un incontro di giovani come tanti ce ne sono nel mondo, ma anche catechesi, veglia di preghiera, via Crucis, pellegrinaggio, confessioni, festival dei giovani, adorazione eucaristica, appello alla risposta vocazionale, S. Messa conclusiva con il mandato missionario ai giovani.
Anche la GMG di Madrid si presenta particolarmente significativa. Oltre agli iscritti ufficiali che per ora sono 400.000, di cui tantissimi italiani, un gran numero giungerà negli ultimi giorni da tutto il mondo per formare un multicolore arcobaleno di nazioni, razze, culture, popoli e lingue, come del resto è la Chiesa Universale. Già hanno assicurato la loro presenza 14.000 sacerdoti, 744 vescovi un terzo dei quali proporrà, in 250 luoghi della città di Madrid, le catechesi in 30 lingue. Saranno 68 le diocesi spagnole che ospiteranno i giovani nei giorni precedenti la GMG in un gemellaggio di conoscenza e fraternità, e molte saranno le nazioni lontane che seguiranno l’evento con collegamenti in mondovisione oppure attraverso internet.
La presenza del Papa è il fattore fondamentale di ogni GMG, non tanto perché sia la sua persona al centro dell’evento, quanto perché i gesti e i segni che compirà e le parole che pronuncerà rendono presente il Signore Gesù amico, maestro e salvatore dei giovani. Quest’anno la celebrazione di apertura sarà all’insegna del ricordo del Papa inventore delle GMG, il beato Giovanni Paolo II, di cui il Papa Benedetto XVI è stato fedele discepolo ed oggi altrettanto grande testimone di Gesù, luce del mondo.
Io ho partecipato tardi alla GMG, perché a 42 anni ho accompagnato da curato, una prima volta, un gruppetto di giovani di Carpenedolo alla GMG di Roma 2000, e poi nel 2005 a Colonia alcuni ragazzi di Capo di Ponte. L’atmosfera di Roma, la città invasa da quella massa festante di giovani, i giorni vissuti in modo un po’ spartano, gli incontri con gente nuova, italiani e stranieri, con i quali si dialogava con le quattro parole di inglese o anche a gesti, mi ha lasciato un indelebile ricordo ed una nostalgia che, pensandoci ancora oggi, mi emoziona e ringiovanisce i miei 53 anni.
Nessuno di Borno, che io sappia, andrà a Madrid: un'occasione perduta per respirare l’aria frizzante e leggera della fede universale della Chiesa attraverso gli occhi, le parole ed i volti dei giovani del mondo. Quest’anno è andata così, ma la GMG non termina qui e se è vero ciò che si va dicendo, tra due anni la prossima GMG sarà in America Latina. Allora ciao Madrid ed arrivederci a Rio de Janeiro per la GMG 2013.
Don Francesco
Ci sono coloro che non sanno resistere davanti ad una torta farcita o ad un vassoio colmo di bignè e cannoncini, e altri che a tali ghiottoneria preferiscono un gustoso panino col salame, accompagnato magari da un buon bicchiere di vino, o un bel piatto di ravioli al burro fuso.
Anche scorrendo le pagine della Bibbia incontriamo sapori e profumi. La promessa che Dio fece al popolo d’Israele guidato da Mosè, era di condurlo in una terra dove scorre latte e miele. Questo cammino iniziò in una notte in cui gli israeliti si cibarono di agnello arrosto ed erbe amare, simbolo della schiavitù in Egitto, e continuò nel deserto dove Dio donava ogni giorno la manna. Tale cibo leggero e dolciastro a quanto pare non soddisfaceva molto il palato degli stessi israeliti: lo definivano nauseabondo e faceva loro rimpiangere le cipolle bollite della prigionia.
Ecco allora che il buon Dio, proprio come un papà o una mamma che alla fine cercano sempre di accontentare il proprio bambino, oltre alla manna con la rugiada del mattino, faceva trovare al suo popolo le quaglie al calar della sera.
Mentre nel libro dei Proverbi troviamo che l'amarezza è nel cuore di chi trama il male, alcuni Salmi ci invitano a gustare la dolcezza e la bontà del Signore. Ma è nel Cantico dei Cantici - un libro di cui molti studiosi si chiedono ancor oggi come mai sia finito nel canone biblico - che respiriamo il profumo della primavera, la fragranza del bosco che si risveglia, il sapore anche piccante della ricerca di qualcuno da amare.
Passando ai profeti, Isaia ci ricorda che per tutti i popoli sul monte il Signore preparerà un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Nel libro di Geremia il Signore paragona i deportati di Giuda ai fichi buoni e dona a loro un cuore capace di riconoscerlo; mentre i capi che si ostinano a voler rimanere a Gerusalemme vengono trattati come fichi avariati, talmente cattivi da risultare non commestibili. Ezechiele, invece, viene invitato a mangiare il rotolo della Parola di Dio, che alla sua bocca si rivelò dolce come il miele.
A parte il prodotto delle api, alcuni frutti e l'uva - il cui vino può rallegrare il cuore, ma anche rappresentare l'ira amara riservata agli empi - la Bibbia sembra preferire il salato. Se Giovanni Battista si cibava di locuste e miele selvatico, anche il resto del Nuovo Testamento sembra tendere ai sapori decisi. Per far festa al figlio ritornato a casa, il Padre buono fa preparare ai servi il vitello grasso; lo stesso Gesù insieme al pane moltiplica i pesci. Il loro profumo non sempre gradevole e il loro sapore, sempre tendente al salato, accompagnano diverse scene dei Vangeli. Pure da risorto Gesù non disdegna di mangiare insieme ai suoi discepoli del buon pesce arrostito al fuoco sulla spiaggia.
Concludendo questa rapida e molto lacunosa carrellata sui profumi e sapori della Bibbia, possiamo ricordare l'immagine della cena nell'Apocalisse, mediante la quale il Signore desidera intrattenersi ed unirsi a chiunque gli apra la porta del proprio cuore. Un'immagine che ovviamente richiama la stessa ultima cena in cui il Figlio dell'uomo ha inaugurato una nuova Pasqua che non ha più il sapore di erbe amare - anche se Gesù la porterà a compimento con la sua terribile morte e la successiva resurrezione - bensì il profumo della piena comunione nella bontà del pane e nella gioia del vino.
Il cibo e il modo di accostarsi ad esso, nella tradizione del popolo d'Israele, erano diventati oggetto di leggi e norme. È probabile che alcune di queste, come la proibizione assoluta di cibarsi di carni di maiale condivisa con altri popoli del medio oriente, rispondessero ad esigenze igieniche. Ma anche dei cibi puri ed impuri i soliti dottori della legge ne avevano fatto una questione capitale, tanto che Gesù ricorda a loro che non è ciò che entra nella bocca, passa nel ventre e va a finire nella fogna che rende impuro-cattivo l'uomo, bensì ciò che esce dalla bocca e proviene dal suo cuore.
Proprio Pietro, infatti, nel sogno della tovaglia calata dal cielo narrato negli Atti degli Apostoli, riceve l'ordine di mangiare i cibi profani dei pagani, segno che la salvezza, donata a tutti i popoli, non è più legata a rigorose quanto astruse norme su ciò è lecito o proibito mangiare. Lo stesso san Paolo, nella Lettera ai Romani, ricorda che il regno di Dio non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo. Tuttavia nei Vangeli Gesù invita chiunque vuol farsi suo discepolo ad essere sale della terra.
È esperienza comune che se è troppo salata la pastasciutta risulta immangiabile, così come l'acqua del mare che, appunto perché contiene troppo sale, è imbevibile. Per molti, forse, anche certi atteggiamenti di noi cristiani, certe insistenze della Chiesa sui divieti, sui “valori non negoziabili” possono sembrare troppo salati, sgradevoli e indigesti.
Anch'io, se posso proporre un cenno tutt'altro che dolce, a volte faccio molta fatica a digerire la difesa accanita, soprattutto da parte delle gerarchie italiane, solo di alcuni valori (riferiti perlopiù all'ambito sessuale e ad alcune tappe della vita biologica) considerati assolutamente innegoziabili, mentre altri aspetti della vita sociale - vedi arrivismo, ricchezza e potere non proprio coincidenti con il servizio auspicato dal Vangelo - vengono molto più tollerati se non, addirittura, trafficati dalle stesse gerarchie ecclesiali per ottenere scambi e favori più o meno sottobanco.
Alcuni pensatori di oggi, spacciandosi a volte per rigorosi scienziati e considerando la stessa scienza come l'unica e certa verità da adorare, insistono nel presentare le religioni, e in particolare quella cristiana, come fonte e causa dei peggiori mali del mondo. Dei dietologi, alquanto estremisti, ci informano invece che la nostra alimentazione sarebbe molto più sana eliminando totalmente l'impiego di sale e zucchero.
Magari qualche ragione potranno averla anche questi signori, ma se ogni tanto non potessimo gustare un bel piatto di penne alla carbonara o un buon tiramisù, penso che la nostra vita risulterebbe molto più piatta e monotona; così come sono convinto che di fronte all'attuale e insipida cultura dell'apparenza, dell'effimero, dinnanzi al mercato del sentimentalismo sottocosto, del basso e morboso pettegolezzo elevato a spettacolo che ogni giorno ci vengono trasmessi da TV, giornali, Internet, ci sia estremo bisogno della Chiesa che ci faccia ritrovare il gusto per ciò che è vero, buono, bello, che ci aiuti ad avvertire la nostalgia per la vera sapienza.
Questa, ci ricorda sempre la Sacra Scrittura, solo la grazia di Dio può donarcela, ma forse è proprio nelle piccole cose di ogni giorno - un saluto sincero, un piccolo aiuto offerto con generosità, una pizza in compagnia, una passeggiata in montagna - che ognuno di noi può aiutare se stesso e gli altri a rendere più gustosa e luminosa la vita, esaltando i suoi sapori e manifestando i suoi infiniti colori. Insieme al sale, infatti, Gesù invita i suoi discepoli ad essere anche luce del mondo.
Franco
Dal 24 al 30 Giugno, una trentina di ragazzi, insieme ad una quindicina di animatori della Parrocchia di Borno, sono partiti “carichissimi” per un’esperienza di sette giorni tutti insieme in montagna, esattamente ad Astrio di Breno. Per alcuni è stata la prima esperienza, altri erano già esperti, ma tutti sono riusciti a mettersi in gioco e aprirsi gli uni verso gli altri senza paura.
Quest’anno, il tema del campo era ispirato al film “Harry Potter e la Pietra Filosofale”, che ci ha permesso di vivere il campo all’insegna dell’amicizia, della fiducia, dei talenti personali e della generosità, soprattutto attraverso i giochi, le storie raccontate e i laboratori. Infatti, le varie attività sono state organizzate in due gruppi: uno per i più piccoli e uno per i bambini di 4a e di 5a elementare.
I piccoli, dopo aver letto una breve storia dal carattere moraleggiante, hanno scritto pensieri e letterine e hanno realizzato disegni riguardanti i temi trattati, mentre con i bambini più grandi abbiamo speso qualche minuto ogni giorno per “una chiacchierata divertente” sull’argomento.
Temo, purtroppo, che questi si siano talvolta annoiati, anche se loro l’hanno sempre negato, credo tuttavia che i bei pensieri e le belle parole che hanno scritto e detto in risposta alle mie provocazioni siano stati sinceri e liberi.
Inoltre, io credo che l’esperienza comunitaria del campo scuola aiuti molto anche nelle relazioni tra gli amici e con sé stessi. I momenti di divertimento sono stati innumerevoli: tra i giochi organizzati dai nostri fantastici 5 animatori di terza media, Giada, Elena, Noemi, Vittorio e Omar, e gli scherzi ingegnosi (e a volte terribili) del nostro don Simone, ci siamo divertiti e svagati.
Ovviamente non è mancato il tempo della preghiera: la messa quotidiana puntuale, la preghiera del mattino e quella della sera erano molto partecipate. Una bellissima esperienza che darà frutti durante tutto l’anno.
Alex
Tra gli Umpa Lumpa, le gomme da masticare che non perdono mai il sapore, il gelato che non si scioglie mai, castelli di cioccolato e molto altro, ha trascorso una settimana a Malonno un gruppo di ragazzi delle medie di Borno, sul tema “La Fabbrica di cioccolato ”. Gli argomenti trattati sono stati molteplici: i talenti interiori ed esteriori, la famiglia e l’amicizia.
Dopo la colazione e la ginnastica, ci trovavamo per l’attività del mattino: lettura del Vangelo e di una storia a tema, riflessione e meditazione sul tema della giornata e, prima del pranzo, la condivisione, un momento in cui ognuno ha potuto esprimere ciò che pensava riguardo all’argomento. Nel pomeriggio, poi, si organizzavano i giochi più svariati e singolari: a tema (come scoprire il gusto di diverse tavolette di cioccolato), tradizionali o innovativi, sia nel bel giardino sotto la casa canonica, dove trascorrevamo la vacanza, sia nel campo sportivo sotto la chiesa moderna di Malonno.
Abbiamo potuto celebrare tutti i giorni la Messa nella chiesa parrocchiale, riuniti sul presbiterio, intorno all’altare grazie al nostro Don, che quotidianamente celebrava per noi. Molto intensamente abbiamo pregato anche la mattina, prima delle attività, e la sera prima di andare a letto. Credo che le tematiche trattate e meditate siano state interessanti e possano essere utili a tutti per una buona crescita spirituale e umana.
Alex
È incredibile... un anno è già passato e siamo qui nuovamente ad arrovellarci il cervello per il nuovo Grest! Che neanche a dirlo è arrivato in un Battibaleno! Anno nuovo, Grest nuovo, Curato nuovo. Sì, perché quest’anno toccherà a don Simone sopportarci e guidarci nell’impresa!
Eh, sì... di impresa trattasi, signori: tanti bambini scatenati da domare, divertire, arricchire e interessare sono una vera forza della natura. Se credete che sia facile gestirli anche solo per 4 ore, ricredetevi. Quest’anno per aiutarci sfruttiamo il tema suggerito dalle diocesi Lombarde, quello del Tempo. Il Grest 2011 infatti è intitolato Battibaleno e ci ricorda che in mezzo alle nostre vite frenetiche bisogna poter trovare tempo per noi, tempo per il silenzio, tempo per pensare e anche tempo per gli altri, tempo per gli amici e per coloro che ci stanno vicini col loro affetto.
Soprattutto i giovani e i bambini devono imparare a trovare tempo per Dio. L’unico tempo che non va mai perso, perché il tempo che dedichiamo alla cura del nostro spirito e della nostra fede ci può solo arricchire. E allora, in attesa di percorrere questo nuovo cammino insieme a bambini, ragazzi e animatori, per restare in tema mi ripeto che ”c’è un tempo per ogni cosa e che a ogni cosa va il suo tempo...” e me lo ripeto perché anche dopo tanti anni è giusto dare una ripassatina all’ABC dell’animatore...non si sa mai! Buon Grest 2011 a tutti!! E un “in bocca al lupo” al nostro don Simone!
Annalisa
Carissimo Don Francesco, tra pochi giorni ti arriverà un pacchetto per posta normale, ma prima avrai ricevuto per posta elettronica, che va un po’ meglio e molto più alla svelta, la mia mail.
Ieri abbiamo fatto la processione delle Palme, è mancato solo l’asinello, che all’ultima ora si è inforcato tanto da voler strappare la corda. Ed io ho pensato che il poveretto non era mica un “Giuda” per fare una cosa del genere. Pazienza, sarà per il prossimo anno.
Ti mando alcuni gusci delle grosse lumache dell’Amazzonia. Il nome è ARUA’, sono anfibi come le rane e le tartarughe, e sono commestibili. Io le ho già mangiate con la polenta, e sono buone. E vedi come sono grossi i gusci di queste lumache. Quando sono adulte, arrivano a pesare più di mezzo chilo. Me le hanno portate sabato, ed erano 40 in tutto. Le ho già cucinate per poter spedire subito questo pacchetto. Ho già cominciato a mandare questi gusci ai ragazzi delle scuole medie e poi alle elementari, a mia sorella Antonietta, a mio fratello Giovanni, e adesso li mando a te, così sul tavolo della tua scrivania faranno sfoggio della loro bellezza naturale. Quelli di Trenzano, quando sono venuti per l’inaugurazione della cattedrale di Castanhal, li hanno portati anche loro in Italia.
I laghi che si formano attorno al grande fiume Amazonas sono pieni di questi animali. Gli uccelli rapaci si tuffano nell’acqua per succhiarli vivi, ma si riproducono anche con molta facilità. In una busta separata trovi una specie di galleggiante, su cui si appoggiano quando entrano nell’acqua per nuotare, ma questo galleggiante si ritira in un movimento circolatorio dell’animale stesso, per cui quando camminano per terra, mettono fuori la “lapa” come le nostre lumache in Italia e il galleggiante rimane sopra il guscio e il corpo dell’animale stesso. Sono stato lì a guardare come fanno a fare questo movimento, che è un mistero della natura creata da Dio. La loro difesa consiste in quel guscio finissimo, per cui se non si sta attenti, ti tagliano le dita delle mani.
Adesso le notizie della mia salute. Sono stato dal medico nefrologo, e lui mi ha prescritto dei medicinali appropriati al mio caso, e mi sono accorto che un po’ alla volta riesco a stare meglio. Il gonfiore ai piedi e alle gambe è scomparso, per cui cammino spedito come un giovincello, alla mia bella età di 73 anni.
I lavori di Santa Rita proseguono veloci, tra un acquazzone e l’altro. Mai vista tanta acqua. In questa settimana mettono su il tetto con i coppi. E poi hanno 4 settimane, fino al 22 maggio, festa di Santa Rita, per lavorare dentro, al riparo degli acquazzoni.
Per la festa della santa, che cade in un giorno di domenica, non sarà tutto pronto, ma l’inaugurazione la faremo lo stesso con la presenza del vescovo Pedro Conti, bresciano. Il pavimento lo faremo più avanti, un po’ alla volta, e lo voglio proprio di granito. Fare una cosa del genere in così poco tempo è sembrato una pazzia. Ma Santa Rita non è forse la santa degli impossibili?
Qualcuno mi ha detto che sono un po’ pazzerello, perché sono nato nel mese di marzo, il 2 marzo del 1938, per l’esattezza. Quel giorno era Mercoledì delle Ceneri e la mia santa mamma mi diceva che io sono nato in un giorno predestinato per fare penitenza. Forse è vero, ma io dico sempre una cosa: a un certo punto nella vita bisogna pagare i peccati della gioventù. Ma sarà poi vero? Io però lo sto sperimentando sulla mia pelle. Che disastro.
Posso dire però anche una cosa, che sto vivendo una seconda gioventù. Incredibile, ma vero. Molti giovani vogliono la mia mail per entrare in contatto con me e ricevere tanti bellissimi messaggi, che mi arrivano un po’ da tutte le parti. Io che ero così imbranato ed incapace di usare il computer, mi sono accorto che è un bellissimo mezzo di apostolato personale, perché il messaggio entra nel profondo del cuore delle persone. E adesso basta, perché hai troppo da fare. Un parroco moderno non può stare lì molto tempo a leggere baggianate.
Un caro saluto. Ci sentiamo il giorno 11 giugno per il tuo compleanno, quanti ne fai? Un caro saluto anche alla tua santa mamma. Di mamma ce n’è una sola.
Affezionatissimo Padre Defendente
Ciao Fre,
come certo ricorderai, la prima volta che ho assistito ad un concerto degli Hope Singer eravamo insieme: avevi insistito talmente tanto che in nessun modo avrei potuto dire di no; eri così entusiasta che avresti trascinato anche un sordo! E non solo perché Fabio è da anni in cima all’elenco dei tuoi migliori amici e dunque gode di tutta la tua stima, ma proprio per il genere musicale in sé. Siccome, anche in campo musicale, hai sempre avuto il palato fine, non ci ho pensato su nemmeno un minuto: ed eccoci là. Ed è stato davvero incredibile. Un concerto che mi è proprio rimasto nel cuore.
Così, quando Domi, qualche mese fa, mi ha chiesto di aiutarla ad organizzare una Santa Messa in tuo onore, subito la mia mente è tornata a quel concerto che, guarda caso, si era tenuto proprio nella nostra Parrocchiale. Domi voleva fare qualcosa di particolare, qualcosa che ti potesse piacere tantissimo e che potesse essere condiviso dai molti amici che qui conversano ancora spessissimo di te…e con te. E così è nata la serata dell’11 giugno 2011.
Alla fine, spiritualmente parlando, persino la data è risultata azzeccata! L’idea iniziale prevedeva la Santa Messa con concerto per il tuo nuovo giorno di compleanno, il 14 luglio (è così che mi piace pensare il 14 luglio: sei nata alla vita vera, tu, quel giorno, quindi per me ora è lì che va festeggiato il tuo compleanno), tuttavia, per una serie di coincidenze, siamo finiti all’11 giugno, guarda caso proprio il giorno di Pentecoste: per me una risposta alle tante domande che ci siamo fatte in tema di Spirito Santo. La serata è stata davvero superba. Fabio ha da subito pensato alla Misa Creola, una parte del loro repertorio che tu hai sempre amato tanto e che ha dato alla serata un tocco speciale. Fabio poi è stato il solito grande Fabio: poche parole emozionate hanno ridipinto in un attimo, per tutti i presenti, la nostra Frency di sempre e ti hanno resa così presente che quasi si è potuta sentire la tua risata agli aneddoti che Fabio, con l’occhio velato, ha saputo narrare con la sua solita prontezza di spirito.
Il coro ha accompagnato tutta la funzione religiosa. I canti in lingua ebraica hanno amplificato la sacralità della Santa Messa e, sono sicura, ti hanno emozionata almeno quanto noi: tutto era dedicato proprio a te! Dopo la Messa gli Hope Singer hanno dato il meglio offrendoti ancora un pezzo del loro repertorio, terminato con un canto nuovo, che ancora non avevi ascoltato: la preghiera del Padre Nostro cantata in lingua Swahili. Una vera chicca!
Cara amica mia, spero proprio tanto che questo piccolo pensiero ti abbia trasmesso tutto il nostro immutato affetto e ringrazio in particolare don Francesco: sarà che era Pentecoste e lo Spirito, si sa, in certe occasioni è più presente che mai, comunque sia, le tue parole, don, sono arrivate dritte al mio cuore! Un grazie altrettanto speciale a Domi che ha avuto questa grande idea e a tutti gli amici che, con la loro numerosissima presenza, hanno ancora una volta dato testimonianza di quanto l’Amicizia sia un valore su cui si può sempre contare.
Anna Maria
Quando frequentavo le scuole superiori, i miei compagni di banco di solito scherzavano con me del fatto che tutti i giorni scendessi da Borno con il deltaplano e quando nevicava risalissi con gli stambecchi … Un’altra cosa che ci faceva ridere era che l’unico esercizio che mi riusciva bene in educazione fisica era “fare le capriole”. Si era così diffusa la leggenda che mi allenassi d’estate inseguendo delle forme di formaggio che venivano fatte rotolare per le vie del Paesello..
A volte anche i compagni di classe indovinano! Circa sette anni fa, una domenica pomeriggio verso le 14.00 mi trovavo alla partenza della Corsa del formaggio... Con una carica di ansia e paura... Era la prima volta che si vedeva questo gioco invadere Via Vittorio Veneto. Sono passati ben sette anni e la tradizione ora si è consolidata, ci sono bimbi (ora non più tali) per i quali questo gioco è sempre esistito e giovani che ora hanno l’età giusta per poter “guidare” un formaggio. Questo è solo uno delli giuochi storici che ogni anno vede sfidarsi 6 squadre vestite con tuniche colorate e cuffie bianche in testa.
A chi assiste a tali competizioni verrà facile, infatti, riconoscere quale squadra è in vantaggio o quale arranca. Il Colore delle tuniche, seppure sbiadito da sette anni di battaglie, è ancora un segno visibile e ben evidente, è espressione di un’appartenenza. Infatti, se oggi anziché squadre dici Contrade e anziché giuochi dici corsa del formaggio, tir del borel, lancio del grop e del rascol, tira la coda al gatto, corsa dell’ubriaco... Allora da chiunque ti sentirai replicare: Palio di San Martino – Borno!
E quest’anno per la precisione: VII Palio di San Martino A. D. 2011 – “Color Tantum Discernit” – Solo il colore ci distingue. Ogni anno il Palio arriva con un nome e un cognome diverso, che quest’anno è di semplice comprensione, nonostante il latinorum. Le Contrade distinte solo dal colore delle loro tuniche, del loro stendardo, delle loro bandiere. Le Contrade uguali per spirito, per desiderio di poter stringere fra le mani il tanto agognato Palio, uguali per agonismo e sportività nella battaglia, le Contrade uguali per la voglia di fare festa e rendere belli i tre giorni di San Martino... Un motto azzeccatissimo, se pensiamo alle motivazioni che hanno fatto nascere il Palio.
Si voleva creare una manifestazione, un evento che fosse fatto dai bornesi per i Bornesi... e ci si è riusciti alla grande! Non si sono mai visti così tanti compaesani insieme, per le vie del Paesello e in Piazza, abbigliati alla medievale e riconoscersi per la tunica e non per i colori, non sentendosi diversi ma uguali. Una manifestazione che coinvolge ogni anno più persone, che riunisce e unisce Bornesi... Pensiamo alle associazioni del Paesello che collaborano: Gruppo Alpini, Gruppo di Protezione Civile, la Parrocchia e l’Oratorio, lo Ski Club, l’Associazione Operatori Economici Bornesi, la Confraternita del Cervo, l’Associazione “6 Contrade”... e a chi invece personalmente si dà da fare e mette a disposizione le sue attrezzature e macchinari, la paglia, la legna, l’arte del taglio e cucito, l’ospitalità e il buon cibo.
Il Palio di San Martino è divenuto un momento di coinvolgimento e di partecipazione, tre giorni in cui ci si sente un unico Paese, perché si appartiene a Contrade che davvero “solo il colore può distinguere”
Paolo Baisotti
LA CHIESETTA
Le prime memorie della sua esistenza le apprendiamo dalle visite pastorali della prima metà del secolo XVII e da Padre Gregorio nel 1698, che la chiama “la chiesa di S. Fermo al monte”.
Le visite pastorali e Padre Gregorio, pur trattando della stessa chiesa, fanno però necessariamente riferimento a due edifici diversi in quanto, proprio nella prima metà del 1600, forse una prima costruzione, ridotta in pessime condizioni, andò praticamente distrutta e fu pertanto ricostruita: fu sicuramente completata nel 1663, come testimonia un targa in marmo posta all’interno della chiesetta stessa, sulla parete di sinistra.
D. O. M./ECCLESIA ISTA S. FIRMI/VETUSTE. FERE IAM COLL.SA/ PIORŪ. ELEE.NIS SINDICIQ./DILIGENTIA A FUNDAM.TIS/ DE NVO RESTAURATUR/ANNO DOI. 1663
(A Dio Ottimo e Massimo. Questa chiesa di S. Fermo, per antichità quasi crollata, grazie alle elemosine delle persone pie e alla diligenza del Sindaco, fu restaurata dalle fondamenta. Anno del Signore 1663)
È necessario precisare che il sindaco in questione non era un’autorità politica, ma il sovrintendente della chiesa: noi oggi diremmo il fabbricere; secondo O. Franzoni, doveva essere un Dabeni.
L’esterno
La chiesetta è preceduta da un piccolo porticato con tre archi: quello centrale è sostenuto da due colonnine di arenaria, che poggiano su un dado di base ornato da losanghe e culminano con capitelli assai eleganti, datati all’inizio del secolo XVI: colonnine e capitelli potrebbero essere materiali della precedente costruzione, ma le colonnine potrebbero essere anche più recenti, coeve, ad esempio, di quelle del porticato di S. Antonio, la chiesetta sul sagrato.
La facciata è caratterizzata da una porta architravata in pietra simona e da due finestrelle chiuse da inferriata. Sul lato sinistro, un piccolo campaniletto a vela regge una campanella che chiama a raccolta i fedeli.
L’interno
È diviso in due campate: una per il presbiterio, sopraelevato da un gradino, e l’altra riservata all’aula; sono separate da un arco a tutto sesto. Le volte sono a botte, caratterizzata da unghiate che poggiano su lesene, con capitello appena accennato.
L’altare è in legno, con piccolo tabernacolo della stessa materia. Le decorazioni sono opera di Dante Ughetti, che ha naturalmente rivendicato l’opera apponendo la sua firma dietro il tabernacolo; ha messo mano anche alla cornice che però andrebbe ripulita.
Sopra l’altare è collocata la pala, datata al secolo XVII, che raffigura la Vergine col Bambino, attorniata da volti di angioletti e seduta su nuvole dai colori caldi. Ai loro piedi, sui due lati, due santi guerrieri romani, reggenti la palma del martirio; sicuramente uno è S. Fermo, a rigor di logica quello alla nostra sinistra (rispetto alla figura centrale della Madonna si trova alla sua destra, quindi nella posizione privilegiata); l’altro potrebbe essere Rustico, ricordato sempre insieme a Fermo.
La chiesetta doveva essere ricca di ex-voto, donati soprattutto da mandriani e pastori, dei quali rimane poco o nulla; altro ornamento erano alcuni candelabri di legno scolpiti, parzialmente argentati e quattro angeli reggicandela, sempre in legno, che erano dorati e attribuiti alla scuola fantoniana da Bertolini e Panazza.
La chiesetta precedente
Nella pala d’altare, proprio sopra il tabernacolo, è raffigurata una chiesetta: sicuramente la chiesetta di S. Fermo. La domanda che sorge spontanea è una sola: “È una invenzione estemporanea del pittore o è stata dipinta sul racconto di persone che l’avevano effettivamente vista?”
Alcuni elementi ci portano ad affermare che l’immagine è tutto altro che di fantasia: sono presenti le due elegantissime colonnine con capitello che introducono al portichetto e che ritroviamo ancora oggi (i ricordi degli anziani tramandano che esse siano state portate sul posto mediante slitte, perché non fossero danneggiate dai sobbalzi di un carro!); il timpano di coronamento, attualmente sostituito da tre archi, è ben visibile nelle vecchie fotografie.
La facciata vera e propria è già scandita dalla porticina centrale e dalle due finestrelle. È presente un campanile sulla destra di chi osserva, che oggi non esiste più, sostituito da un campaniletto a vela sopra il tetto. Sulla parete di sinistra dell’edificio è invece appoggiata quella che potrebbe essere la sacrestia.
Sono interessanti anche le annotazioni di costume: mentre il sacerdote attende i fedeli col breviario in mano, essi giungono alla spicciolata: alcuni a piedi, come la coppia che è preceduta dal cagnolino (da notare che a portare la cesta, retta sulla spalla destra da un bastone, è la donna! Il maschietto, poverino, deve appoggirsi al bastone!) Qualcuno sale anche a cavallo: sicuramente qualche nobile del luogo. È già presente anche la croce, su un dossello, ben distante dalla chiesetta!
L’attuale complesso
Oggi la chiesetta è inserita in un complesso ben illustrato dai rilievi fatti dall’arch. Mario Gheza all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, in vista di una ristrutturazione in funzione turistica di quello che chiamiamo oggi Rifugio S. Fermo, fino ad allora limitato ai locali contrassegnati dal neretto. A servizio della chiesa c’è la sacrestia, alla quale si accede da un piccolo atrio che mette in comunicazione anche con la cucina detta dei préc e il relativo ripostiglio.
Sul versante a nord c’era invece la cucina detta dei pastùr e la legnaia. Da questa e dalla sacrestia si accede direttamente alla chiesa. La ristrutturazione ha inglobato la cucina dei pastùr e la legnaia nel rifugio; anche la sagrestia, la cucina dei préc e il relativo ripostiglio sono lasciati in uso al rifugio. Tutti i locali che attorniano la chiesetta dovrebbero risalire alla seconda metà dell’Ottocento.
LA LEGGENDA DI CARLO MAGNO E S. FERMO
Per giungere alla leggenda di S. Fermo, è necessario ricordare che esiste in Valle una leggenda che racconta del passaggio di Carlo Magno, di ritorno dall’aver sottomesso i Longobardi tra il 772 e il 774. Una delle ultime versioni di questo racconto, in latino alquanto maccheronico, è custodita in S. Giovanni in Cala, sopra Lovere, di cui riportiamo due paragrafi che rendono benissimo l’idea di come sia composta.
Hoc gesto, Carolus faecit edificare unam ecclesiam ad honorem S. Ioannis et septem episcopi praedicti concesserunt quadraginta dies indulgentiae omnibus vere poenitentibus et confessis dictam ecclesiam visitantibus causa devotionis et peregrinationis.
(Compiute queste imprese, Carlo fece edificare una chiesa in onore di S. Giovanni e i sette vescovi predetti concessero quaranta giorni d’indulgenza a tutti i veramente pentiti e confessati in visita a detta chiesa per devozione e pellegrinaggio).
Et praedictus Carolus venit in Vallem Oriolam ad unum castellum quod vocabatur Isen, cuius castelli dominus erat Iudaeus qui nominabatur Hercules, quem Carolus interfecit, qui noluit se converti ad fidem, et ibi edificare fecit unam ecclesiam ad honorem SS. Trinitatis, cui ecclesiae praedicti septem episcopi concesserunt quadraginta dies indulgentiae, pro singulo, singula die et D. Pontifex concessit mille et quingentos annos omni prima Dominica mensis, et omne die mercurii.
(E il predetto Carlo arrivò in Valle Oriola (Camonica) ad un castello chiamato Esine, del quale castello era signore un Giudeo chiamato Ercole, che Carlo uccise, perché non aveva voluto convertirsi alla vera fede, e vi fece edificare una chiesa in onore della SS. Trinità, alla quale i predetti sette vescovi concessero quaranta giorni d’indulgenza ciascuno, per ogni giorno, e il Signor Pontefice concesse mille e cinquecento anni per ogni prima Domenica del mese e per ogni mercoledì).
Conquistati così paesi come Cividate, Berzo Bienno, Breno... e su su per la Valle, sottomettendo o uccidendo che gli si opponeva, fondando chiese che esistono tuttora, il Re franco arrivò allo scontro finale con tutte le forze nemiche, costituite da ariani, giudei e pagani, su quella montagna che egli stesso chiamerà Mortirolo, dal gran numero di morti cristiani; maggiore fu però il numero dei morti dei nemici, che uscirono sconfitti dalla battaglia.
Di fronte a tanto massacro, i due fratelli Glisente e Fermo, presumibilmente paladini di Carlo, chiesero e ottennero di essere esonerati dal giuramento di fedeltà al loro signore e di poter abbandonare quindi le armi, per ritirarsi a vita di penitenza sulle montagne. Si unì a loro la sorella Cristina; presero strade diverse, recandosi ciascuno nelle località che da loro prenderanno il nome: Glisente sulla montagna di Berzo, Fermo sopra Borno e Cristina a Lozio.
Segnalavano la loro sopravvivenza mediante fuochi e, siccome Fermo e Cristina non potevano comunicare direttamente, Glisente doveva accendere due fuochi; pare che l’ultimo a morire sia stato proprio Fermo.
Francesco Inversini
Di tutte le feste che si tengono durante l’anno scolastico, sicuramente una delle più attese è “La festa degli alberi”. In questa occasione vengono piantati degli alberelli, uno per ogni bambino nato nell’anno precedente.
- Ma perché è tanto attesa dagli alunni della Scuola Primaria?- si chiederanno in molti. Ve lo spiego subito. Per prima cosa segna la fine dell’anno scolastico, o quasi, (in genere si celebra verso la fine di maggio: quest’anno il 28), poi è l’occasione per esibirci in pubblico, dimostrando il nostro talento nel canto o nel suono del flauto (un bacio alla maestra Maruscha) e, infine, perché il buffet offerto dall’Amministrazione Comunale a tutti i presenti, è sempre delizioso e abbondante.
Scherzi a parte, “la festa degli alberi” è entrata di diritto nella tradizione bornese e anche quest’anno, in località Bernina, accanto all’isola ecologica in fase di allestimento, è stata celebrata con tutte le più importanti “cariche” del paese. Come ho già detto, noi della “Primaria” abbiamo intrattenuto i numerosi ospiti, cantando canzoni come “Lo scriverò nel vento” e “Né bianco né nero”.
I ragazzi delle classi quinte e della quarta A, invece, hanno suonato in maniera impeccabile, o quasi, il flauto. Successivamente il nostro Sindaco ha tenuto un discorso dai toni solenni che, oltre a dedicare attenzione al motivo della celebrazione, ha sensibilizzato i presenti sull’importanza di questa isola ecologica e sul rispetto dell’ambiente. I Bornesi a questo proposito stanno diventando proprio bravi!
Don Francesco, poi, ci ha fatto raccogliere in preghiera per i bimbi nati nel 2010, presenti con le loro famiglie. Le nostre maestre hanno avuto un’idea brillante, ovvero offrire un piccolo dono ai nuovi nati, che hanno realizzato gli alunni delle classi quinte e consegnato ad ognuno di loro. Tuttavia, ciò che mi ha più emozionato è stato ammirare il luogo in cui sono stati piantati gli alberelli per i piccini.
Anch’io so di avere un albero che mi rappresenta e ne sono fiero. Così spero per me e per tutti gli altri bambini, che, come quell’albero, avremo radici forti, in grado di aiutarci a crescere sani e rigogliosi.
Leonardo Staffieri
P.S. Ah! Dimenticavo: anche quest’anno il buffet è stato delizioso e abbondante ed è stata la conclusione felice di questa nostra festa.
Sono lieto di comunicarvi che il giorno 24 luglio alle ore 16,00 presso il piazzale adiacente il Centro Sportivo di Viale Pineta, nel contesto di una giornata dedicata alla Protezione Civile, verrà consegnato alla popolazione di Borno un nuovissimo Defibrillatore Portatile.
Di che cosa si tratta? Raccontata in parole molto semplici è un apparecchio elettronico del peso e del volume di una piccolissima valigetta che, in caso di arresto cardiaco, può salvare la vita. Tecnicamente parlando invece si tratta di sofisticatissima tecnologia, da anni sperimentata con grande successo a Piacenza (la mia città, anche se ormai mi sento un po’ cittadino bornese), dove inizialmente è nata e successivamente sviluppata in tutte le parti d’Italia e del mondo.
La defibrillazione è l’unico trattamento per l’arresto cardiaco improvviso. Quando il sistema elettrico del cuore non funziona più, esso si contrae in modo caotico (fibrillazione ventricolare) e si verifica l’arresto cardiaco improvviso durante il quale il sangue non viene pompato al cervello dal corpo. Solo un intervento tempestivo può evitare il decesso. La defibrillazione è il processo con il quale viene erogata una scossa elettrica al cuore per ripristinare il ritmo normale. Nello specifico, un defibrillatore semiautomatico esterno è il tipo di apparecchio utilizzato direttamente sul luogo dell’evento in caso di arresto cardiaco improvviso.
Questi strumenti rappresentano l’unico modo possibile per rianimare una persona colpita da arresto cardiaco al di fuori da una struttura ospedaliera e che presenta una fibrillazione ventricolare persistente. Avrete probabilmente visto l’apparecchio in varie aree pubbliche come aeroporti, uffici pubblici, ecc. Tali dispositivi possono essere utilizzati anche da personale laico, e quindi da chiunque.
A tal proposito segnalo che circa due mesi fa, grazie alla collaborazione con il Circolo Culturale “La Gazza” e l’amministrazione comunale, è stato tenuto presso la sala congressi di Borno il primo Corso di Specializzazione al quale hanno partecipato più di 30 volontari, tra cui rappresentanti delle forze dell’ordine, responsabili delle varie associazioni e semplici cittadini.
Si è trattato di una giornata di grande impegno ma anche di festa, che spero verrà ripetuta in modo ancora più evidente grazie alla vostra partecipazione il giorno 24 luglio.
Ma cosa può fare ognuno di voi per essere di aiuto in caso di evento come quello descritto? Se ha partecipato al corso sa perfettamente dove si trova l’apparecchio e come utilizzarlo. In caso contrario, avendo necessità di agire in tempi molto contenuti, si consiglia di effettuare immediatamente due telefonate: la prima al 118, e la seconda al numero 331 5880770, al quale risponde sempre un volontario che ha l’autorizzazione ad effettuare le manovre di rianimazione.
Vi saluto con un augurio: che l’apparecchio in questione non abbia mai la necessità di essere utilizzato (significherebbe che siete sempre tutti in buona salute) e con l’auspicio di vedervi numerosissimi alla festa che accompagna la consegna e la messa in esercizio de defibrillatore.
Dino Groppelli
Tra le riflessioni del Dalai Lama, una emerge con particolare significato: “Tutte le sofferenze del mondo derivano dal desiderio di felicità di sé. Tutte le felicità del mondo derivano dal desiderio di felicità per gli altri”. Quante volte, pensando all’immenso bene che si opera nel mondo del volontariato, mi è ritornato in mente questo messaggio di vita, che sembra aprire il cuore a spazi infiniti, di fronte alle tristi condizioni dei nostri tempi. Ricordare i tantissimi donatori di sangue vuole essere un invito esplicito a considerare il significato di un'attenzione al mondo degli altri, per concretizzare nel tessuto della vita un’idea di felicità che può dare valore anche alla nostra piccola storia.
Francois Garagnon, nel suo libro tanto indicativo di particolari condizioni esistenziali “Terapia dell’anima” scrive tentando di interpretare l’idea di prima: “Tutte le saggezze, quelle d’Oriente, come quelle d’Occidente, concordano su questo punto: il sentimento di fraternità ed armonia nasce quando si dà priorità all’altro e ci si colloca in un’alterità amante che potremmo anche chiamare reciprocità d’amore. Le tribolazioni umane si presentano quando ci si dimostra concentrati esclusivamente su se stessi, fissati sui propri desideri e presi dalle proprie preoccupazioni”.
I nostri tempi ci allontanano, spesso, da considerazioni siffatte, illudendoci con altre cose, effimere, che tuttavia ci appartengono e che sono al centro dei nostri interessi; meno bilanci sulle economie, dunque, e più attenzione alle tante ricerche di felicità vera, in quella dimensione di donazione di cui l’AVIS è una pagina essenziale.
Enzo Bianchi, a noi ben noto come priore di una comunità monastica aperta a molteplici problemi dell’uomo, nelle sue pagine “L’altro siamo noi” ci affida questo messaggio: ”Se infatti veniamo quotidianamente sollecitati a una generica solidarietà con chi è lontano, siamo nel contempo spinti a non vedere chi ci è accanto e attende, prima ancora che un gesto di comunione, il semplice riconoscimento della nostra esistenza. Comunichiamo a distanza, interagiamo in tempo reale, ci sentiamo connessi con una realtà globale, ma distogliamo lo sguardo ed il cuore dall’altro accanto a noi”.
L’itinerario della solidarietà vera e la gratuità avisina sono forte invito a realizzare questi appelli alla costruzione di una società diversa.
Carlo Moretti
Buongiorno cari Amici del canto e... amici del Musicalia Fragmenta, è un piacere ritrovarvi, come un piacere è stato quello di conoscervi e lasciarci meravigliare dalla vostra spontaneità e dalla vostra infinita generosità.
Sin dal nostro arrivo a Borno ci avete piacevolmente sorpresi, in quasi dieci anni di attività non siamo mai stati accolti con così tanto calore, ricevuti dalla banda del paese, dalla comunità riunitasi in piazza, dai rappresentanti della Pubblica Amministrazione e dal vostro gentilissimo parroco don Francesco.
Ci avete emozionato tanto, non neghiamo il forte imbarazzo legato al vostro entusiasmo perché tutto ci è sembrato tanto e bellissimo, al di fuori di ogni aspettativa. Il caloroso abbraccio di benvenuto che ci ha accolto ha dato una carica al nostro gruppo e ci ha resi partecipi di una bellissima esperienza musicale e umana; abbiamo assistito con piacere alla vostra esibizione ammirandone la potenza, l’armonia del suono e la passione che risiede in ognuno di voi.
Sono tutte caratteristiche che vi riconosciamo e che ammiriamo; avete la capacità di emozionare e la passione per il canto, che vi unisce, la si percepisce chiaramente. Attraverso la vostra amicizia abbiamo assaporato ancora di più la gioia di cantare, i testi da noi intonati sembravano scritti appositamente per descrivere la suggestiva atmosfera che ci attorniava, ci siamo sentiti parte della vostra comunità, come se non vi fosse alcun coro ospite, bensì solo delle persone amanti del canto, che desiderano condividere con la gente la voglia di fare musica.
Abbiamo apprezzato le gentilezza del Presidente Gianfranco Valbusa, ammirandone la dedizione che investe nel vostro coro, occupandosi anche dei coristi più giovani che scopriamo essere molto motivati e dediti all’attività del coro. Porgiamo i nostri complimenti per l’alta qualità del vostro canto all’instancabile Maestro Tomaso Fenaroli che ci ha impressionati per le molteplici attività artistiche che riesce a seguire in maniera eccelsa.
Ringraziamo dell’attenzione che ci avete prestato nella cura di ogni dettaglio durante la nostra permanenza a Borno, che pensiamo sia da attribuire al segretario Fernando, col quale siamo stati in contatto per parecchio tempo, e includendo anche la bellissima struttura che ci ha ospitato: un’accoglienza che ci ha fatto sentire parte della vostra famiglia.
Siamo rimasti piacevolmente colpiti dalla dedizione del vostro prof. Francesco Inversini, che ci ha generosamente intrattenuto per le vie del paese, facendocene conoscere gli aspetti più caratteristici e regalandoci nozioni storiche e riflessioni molto interessanti. Grazie alle due magnifiche giornate trascorse assieme, abbiamo portato ai nostri cari un ricordo di un luogo bellissimo, attorniato da paesaggi surreali e di amici semplici e generosi che amano, come noi, il canto.
Siamo onorati di avere condiviso momenti che rimarranno indelebili nella nostra mente e nei nostri cuori. Non vediamo l’ora di ritrovarci per continuare a fare musica e ad emozionarci. Grazie Amici del Canto, grazie Borno, un abbraccio.
Coro Musicalia Fragmenta
Belingheri Caterina
di Emerson e Re Cinzia
Andreoli Valentina
di Luca e Sarna Emanuela - Artogne
Baisotti Dalila
di Daniel e Rinetti Selly
Bertelli Enrico
di Damiano e Scalvinoni Alessandra
Rivadossi Anna
di Marco e Gheza Michela
Zandalini Tommaso
di Roberto e Rivadossi Alice
Uberti Andrea
di Simone e Claudia Dabeni – Cernusco Sul Naviglio
Fiora Angela
di Mauro e di Andreoli Giovanna Francesca
Bigatti Federico e Magnolini Chiara
1 luglio 2011
Poma Marco e Chiudinelli Valentina
9 luglio 2011
Massoli Maria
26 febbraio 1934
23 maggio 2011
Gheza Maria
12 dicembre 1916
26 maggio 2011
Rivadossi Francesca
30 giugno 1929
3 giugno 2011
Cottarelli Maria
23 marzio 1925
5 giugno 2011
Mor Maria
4 maggio 1934
5 giugno 2011
Ferrari Giacomo
6 luglio 1932
4 luglio 2011
Corbelli Margherita
19 settembre 1936
8 luglio 2011
Arici Alberto
11 novembre 1933
11 luglio 2011
Gheza Maria
30 gennaio 1920
14 maggio 2011
Andreoli Battista
8 giugno 1918
19 ottobre 1997
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