Pasqua 2015
La parola del PARROCO
La parola del parroco all’inizio del nostro bollettino parrocchiale è spesso per augurare alle nostre famiglie ogni bene nella ricorrenza che celebriamo ed anch’io oggi porgo a tutti voi gli auguri di una Santa Pasqua. E gli auguri hanno un senso proprio perché la S. Pasqua porta con sé qualcosa di nuovo, di migliore, di più bello di prima.
Essa infatti inaugura ogni anno un tempo nuovo, un mondo proiettato in avanti, un futuro che in Cristo Risorto coinvolge ogni creatura e l’universo intero. La Pasqua è la “Bella Notizia” che a Dio nulla è impossibile e che il Padre ama tanto il Figlio da cambiare le sorti di questo suo Gesù, traendolo dal vortice della morte fin su, in alto alla luce della vita. E come per il suo stesso Figlio il Padre vuole sia così anche per noi, nonostante non meritiamo per nulla un dono così grande. Ma la Pasqua è il segno forte del potere senza limiti del Padre, del SI del Padre che vince tutti i NO degli uomini pronunciati nell’inganno del Demonio, l’effimero vincitore contro di noi di qualche battaglia ancora, ma sconfitto per sempre nella guerra per la vita, con Cristo Salvatore.
La Pasqua è una “Bella Notizia” perché la novità è entrata ormai nella nostra vita. Dalla resurrezione di Gesù infatti viene anche il suo dono più bello: lo Spirito Santo che fa nuove tutte le cose e dà speranza e fiducia al nostro essere ed agire nel mondo perché la storia con Gesù Cristo è cambiata e può aprirsi con stupore al destino di eternità e bellezza che l’aspetta.
Questo noi lo crediamo dal profondo del cuore lo annunciamo soprattutto a chi è incerto e debole, a chi è schiacciato dal peso della vita, a chi è sfiduciato da tante esperienze di fallimento e di sconfitta.
Questo noi lo diciamo perché crediamo che la resurrezione di Gesù non è una semplice rianimazione per morire ancora, non è per nulla un fatto simbolico o spirituale, ma anzi è un evento reale, concreto, storico, tangibile, che apre misteriosamente alla realtà divina.
Questo noi lo diciamo perché crediamo che la resurrezione riguarda la carne, il corpo di carne e non l’anima e lo spirito dell’uomo. E così anche noi uomini di carne ne siamo coinvolti e con l’uomo Gesù entriamo anche noi in una condizione di novità, una condizione ultima, definitiva, che è la condizione dei Beati che contemplano Dio in cielo.
Noi dunque, con la S. Pasqua annunciamo la speranza, una speranza viva in virtù del Risorto, una speranza che non trova la sua meta in una vita eterna astratta ed impersonale, bensì in un incontro caldo ed avvolgente con il nostro Dio che sazia ogni desiderio di pace, giustizia, vita e felicità.
Questo hanno annunciato i testimoni dell’incontro con il Risorto e questo è chiesto anche a noi che abbiamo creduto: dare testimonianza di Colui che fu testimone di come la vita ha vinto la morte.
Al di là della visione atea o sentimentale e materialista che il mondo di oggi dà della Pasqua, il mio augurio è che ciascuno possa farsi annunciatore della speranza che arde nel suo cuore, della bellezza che sprigiona dal corpo glorificato di Gesù risorto, della carità cristiana che si fa vita fraterna nel nome e per riconoscenza verso Colui che ci ha mostrato con la vita uno straordinario modo di amare la vita, perdendola, affinché tutti noi l’avessimo ad acquistare per sempre e fossimo finalmente salvi.
Auguri dunque di una buona e Santa Pasqua.
Don Francesco
Cüntòmela PER RIFLETTERE
L'attentato, di una crudeltà inaudita, avvenuto a Parigi il 7 gennaio scorso contro il giornale "Charlie Hebdo", ha sollevato una comune condanna e una straordinaria deplorazione nel mondo intero. Dopo il primo attentato, il 9 gennaio un complice degli attentatori si è barricato in uno dei supermercati della catena kosher Hypercacher a Porte de Vincennes, prendendo alcuni ostaggi e uccidendo quattro persone. Non vi sono parole sufficientemente forti per deplorare questo efferato atto terroristico, in cui sono rimaste uccise 20 persone e 11 sono rimaste ferite.
Papa Francesco, profondamente addolorato "per la crudeltà di cui l'uomo è capace", ha espresso la più ferma condanna di questo attentato, ha pregato per le vittime, affidandole a Dio, ed ha manifestato la sua vicinanza alle persone ferite ed ai familiari dei morti. Le dichiarazioni di condanna per questo crimine terroristico, avvenuto nel cuore dell'Europa, si sono immediatamente moltiplicate tutti i livelli.
Anche molte autorità religiose musulmane hanno manifestato la loro condanna e deplorazione ed hanno affermato che gli atti terroristici sono anche contro il Corano e contro il vero islamismo.
Ogni francese si è sentito ferito da questa barbara violenza. Espressione di unanime reazione contro questo attentato e contro ogni forma di terrorismo è stata l'incontenibile manifestazione popolare, con la presenza di 50 Capi di Stato o di Governo, che ha avuto luogo a Parigi lo scorso 11 gennaio.
È stata una reazione umana, sociale e politica della più alta intensità, anche perché questo attentato si inserisce in un contesto che, dall'11 settembre del 2001, ha visto svilupparsi un estremismo violento che fa paura e che significa radicale rifiuto dell'Occidente e del nostro modo di vivere.
Come reazione, si è vista una solidarietà sincera e condivisa. Con la propria partecipazione alla manifestazione parigina quelle innumerevoli persone intendevano esprimere, da un lato, la più viva condanna del terrorismo e, dall'altro, il loro sostegno in difesa della libertà, della democrazia, della civiltà e della pacifica convivenza. È stata una risposta di civiltà contro il terrorismo, percepito come una minaccia grave all'intera umanità.
Quell'attentato in nome di Allah è anche una gravissima offesa a Dio: non si uccide in Suo nome! Mai! Farlo significa compiere un atto contro Dio e contro la ragione umana. Uccidere in Suo nome è una orrenda bestemmia contro il nostro Creatore e contro l'uomo, che da Dio è creato.
Ma vi è anche un altro aspetto che Papa Francesco, rispondendo ai giornalisti che lo accompagnavano nel volo verso le Filippine, ha toccato. Dopo avere premesso che nulla può giustificare il menzionato orribile atto terroristico, il Papa ha rilevato che la libertà di espressione è importante e va difesa, ma che ha anche dei limiti: non deve scivolare nell'offesa. Ancor più, non deve offendere ciò che è sacro. Non si può prendere in giro quanto per gli altri è sacro.
Il settimanale "Charlie Hebdo", nelle sue vignette e nelle sue satire, aveva infatti messo in ridicolo Maometto (tra l'altro, riproducendolo con le orecchie d'asino) e, come è noto, l'attentato è stato attuato proprio per l'offesa resa a Maometto, e di conseguenza al sentimento religioso dei musulmani.
Il Papa ha sottolineato che dobbiamo rispettare il sentimento religioso di tutti e non offendere quanto per gli altri è sacro. Non si può insultare o irridere la fede degli altri. E per fare meglio comprendere il suo pensiero, il Papa, che ama parlare spesso con immagini, ha aggiunto con incisività: "Se un mio amico parla male di mia madre, si aspetti un pugno".
Non tutta la stampa ha interpretato bene questa battuta del Papa, ma l'insegnamento era giusto: si deve rispettare ciò che per gli altri ha un valore intangibile. Non si deve offendere il sentimento religioso, qualunque sia la religione professata, perché il sacro è qualche cosa di profondamente radicato nell'animo di ogni persona e riguarda il suo rapporto con Dio. Un'altra considerazione si impone. Gli attentatori parlavano francese. Erano nati in Francia, figli di islamici. Come si spiega questa loro crudele follia? La spiegazione probabilmente si trova in un groviglio di problematiche: disoccupazione, emarginazione, amici estremisti... persone o gruppi ideologizzati che infiammano gli animi di giovani insoddisfatti della presente società. Il mondo occidentale, al quale apparteniamo, infatti ha svuotato la coscienza collettiva dei valori spirituali e, cosi, l'islamismo fondamentalista con le sue follie riempie il vuoto nichilista.
Quale antidoto trovare? Ai problemi che si sono creati sotto il cielo, si troverà rimedio soltanto se si ritornerà a guardare al cielo e si recupereranno i valori spirituali e morali.
Tutte le religioni, e in primo luogo quella cattolica, hanno al riguardo un grande compito. Ad un problema di gigantesche proporzioni come la minaccia terroristica (basti pensare al cosiddetto Stato Islamico, al Califfato ed ai suoi metodi!) e contro il fondamentalismo, si deve rispondere incominciando ad educare al rigetto di ogni forma di violenza e al dialogo con tutti, basato sulla condivisione di valori e sul rifiuto di ogni estremismo. Bisogna sostenere il dialogo interreligioso e culturale e bandire ogni forma di fondamentalismo e di terrorismo, che strumentalizza la religione e umilia la dignità di ogni uomo e donna. Dalle religioni, nei riguardi dei loro aderenti, e dalla scuola, nei confronti delle nuove generazioni, si attende molto per la costruzione di una cultura di solidarietà e di pace.
Se vogliamo poter guardare al futuro con fiducia non vi è altra via. È questa infatti l'unica strada praticabile, che può portare frutti e costruire un futuro di giustizia, di solidarietà e di convivenza pacifica e armoniosa.
Card. Giovanni Battista Re
Cüntòmela PER RIFLETTERE
All’indomani dei fatti che hanno insanguinato Parigi e la Francia, ho avvertito la necessità di andarmi a rileggere il discordo che Benedetto XVI, allora papa regnante, tenne a Ratisbona il 12 settembre 2006 “con i rappresentanti della scienza”. In quella Lectio Magistralis papa Benedetto, partendo da un dialogo tra l’imperatore Manuele II Paleologo e il suo interlocutore musulmano – dialogo in cui emerge l’opinione che nel XV secolo si aveva di Maometto e dell’Islam -, propone all’Islam l’apertura alla ragione, il sapersi far attraversare dalla ragione, come aveva saputo fare da tempo il cristianesimo, che dal rapporto tra fede e ragione ha fatto il suo punto di forza. E cita l’illuminismo.
Questo discorso provocò reazioni furibonde, e tra i musulmani e tra i pensatori occidentali. Tuttavia si è rivelato un discorso profetico. Il susseguirsi dei fatti di terrorismo in occidente da parte di fondamentalisti e la nascita dell’Isis, il califfato islamico, che ha indetto una vera e propria crociata contro gli infedeli, hanno dimostrato la necessità per l’Islam di compiere con urgenza il percorso indicato dal papa emerito.
Non solo. A dare ragione alla complessa e completa riflessione di papa Benedetto è stato anche l’attuale presidente dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi, in un importantissimo intervento rivolto il primo gennaio di questo anno di fronte a studiosi e leader religiosi dell’Università al-Azhar al Cairo. Il mondo islamico, ha detto al-Sisi, non può essere percepito come “fonte di ansia, pericolo, morte e distruzione” per il resto dell’umanità. Le guide religiose dell’Islam devono “uscire da se stesse” e favorire una “Rivoluzione religiosa” per sradicare il fanatismo e rimpiazzarlo con una “visione più illuminata del mondo”.
Ma il discorso di Ratisbona impone anche una riflessione sulla libertà di espressione e sulla libertà in generale. Ho ricordato che all’indomani della Lectio di Benedetto XVI ci furono violente reazioni. Molte chiese vennero incendiate in Oriente e Africa, una suora venne assassinata in Somalia e il papa rappresentato come un fantoccio e incendiato. Sui giornali e nei salotti del pensiero non si perse tempo ad affibbiare al papa tedesco la responsabilità di questi accadimenti e si pretesero ferocemente le sue scuse nei confronti del mondo musulmano.
Il New York Times bollò come “tragiche e pericolose” le parole del papa. “C’è già abbastanza odio religioso nel mondo. Benedetto XVI insultato i musulmani”. Eugenio Scalfari intervenne e disse: “Anche il papa è fallibile. Ha sbagliato dal punto di vista della sua Chiesa. Ha fatto un involontario passo in avanti sulla via dello scontro religioso”.
Padre Tom Michel, responsabile del dialogo con l’Islam della Compagnia di Gesù, censurò il papa: “Penso che il papa abbia seminato mancanza di rispetto nei confronti dei musulmani”. Molto probabilmente questi signori o non si sono presi la briga di leggere l’intero discorso o, avendolo letto, non l’hanno compreso!
Tale stracciamento di vesti, però, non si è notato nei confronti delle vignette satiriche e innegabilmente volgari del giornale francese Charlie Hebdo. All’indomani dell’uccisione dei quattro componenti la redazione di Charlie, ai quali va certamente il rispetto e la cui morte va condannata, coloro che erano rimasti al freddo al gelo per essersi stracciati le vesti dopo Ratisbona si sono prontamente affrettati a dire che la libertà di espressione e di satira è sacra e deve essere un diritto difeso a tutti i costi; che ognuno deve esprimere il proprio pensiero liberamente e ai musulmani non devono essere fatte alcune scuse.
E nacque lo slogan “Je suis Charlie!”. Slogan amato anche dalla rivista francese Etudes, della Compagnia di Gesù, che non si fece scrupolo nel ripubblicare le vignette satiriche di Charlie, per solidarietà. Di fronte a questo atteggiamento, mi domando: come mai la libertà di espressione non vale per tutti? Non vale per papa Benedetto e vale per i vignettisti?
E penso: la libertà, ogni libertà, se non è accompagnata dalla necessaria intelligenza e saggezza, diventa schiavitù, perché si agisce un po’ come gli animali, che per istinto fanno ciò che vogliono senza riflettere. Ogni libertà deve saper tenere conto anche del rispetto dell’altro e della libertà dell’altro.
Ciò non vuol dire abdicare all’espressione del proprio pensiero, perché come dice papa Francesco “ognuno non solo ha la libertà, il diritto, ha anche l’obbligo di dire quello che pensa per aiutare il bene comune”; ma bisogna farlo sempre con rispetto, perché, dice ancora papa Francesco, “ogni religione ha dignità, ogni religione che rispetti la vita umana. E non posso prenderla in giro”. Impariamo ad essere veramente liberi, utilizzando il grande dono della ragione e noi cristiani uniamo un dono ancora più grande che è quello della fede.
Don Simone
Cüntòmela PER RIFLETTERE
All’interno di un edificio sacro la sede dice che l’assemblea liturgica ha un presidente. Il verbo "presiedere" (dai termini latini prae-sedere = essere seduto davanti) non è ricorrente nel Nuovo Testamento, ad usarlo è solo S. Paolo in riferimento a coloro che hanno il compito di dirigere una comunità.
Cattedra del Vescovo a Brescia
L’uso biblico di questo termine non è liturgico, ma designa l’attività globale dei vescovi e dei presbiteri come capi di una comunità. Nell’uso attuale si scorge quasi esclusivamente un significato liturgico. È pur vero che, poiché la liturgia - e soprattutto la celebrazione eucaristica - è culmine e fonte di tutta la vita della Chiesa, la presidenza liturgica avrà il suo pieno significato alla luce di tutta l’attività della comunità. Per il presbitero quindi la presidenza liturgica è "culmine" e "fonte", punto di arrivo e punto di partenza, di tutta l’azione pastorale. Chi presiede un’assemblea liturgica, ovvero chi è "seduto davanti" ad un’assemblea, deve poter rendere visibile il proprio ministero di guida; è quindi indispensabile la realizzazione di uno spazio adatto a questo scopo: una "sede" speciale. Ecco come la sede presidenziale è descritta nell’introduzione al messale: "La sede del sacerdote celebrante deve mostrare il compito che egli ha di presiedere l’assemblea e guidare la preghiera. Perciò la collocazione più adatta è quella rivolta al popolo, al fondo del presbiterio, a meno che non vi si oppongano la struttura dell’edificio e altri elementi, ad esempio la troppa distanza che rendesse difficile la comunicazione tra il sacerdote e l’assemblea." (PNMR, 271).
È un luogo dal quale il presidente non esercita il proprio dominio ma la disponibilità al servizio, come pone bene in evidenza la preghiera di benedizione di una nuova sede: "Signore Gesù Cristo, tu comandi ai pastori della Chiesa non di farsi servire, ma di servire umilmente i fratelli; assisti coloro che da questa sede presiedono la tua santa assemblea; fa’ che proclamino con la forza dello Spirito la tua parola e siano fedeli dispensatori dei tuoi misteri, perché, insieme con il popolo loro affidato, ti lodino senza fine davanti al trono della tua gloria" (Benedizionale, p. 512).
La sede presidenziale è da concepire come "spazio celebrativo" e non come struttura funzionale alla posizione seduta del presidente. Così come un leggio non realizza simbolicamente un ambone, un qualsiasi sedile non è assolutamente una sede presidenziale.
Cattedra del Papa a Roma
Diremo, quindi, che è lo "spazio" della sede per la presidenza liturgica che deve contenere un sedile adeguato. Inoltre, in tale spazio, il presidente della celebrazione deve poter stare anche in piedi nei momenti opportuni, perciò sarà bene dotare la sede anche di una pedana confacente.
Dalla sede il presidente, seduto, ascolta le letture e tiene l’omelia; in piedi, presiede i riti di inizio della messa, introduce e conclude la preghiera dei fedeli, pronuncia la preghiera dopo la comunione, benedice e congeda l’assemblea.
Nella chiesa cattedrale, madre di tutte le chiese di una diocesi, la sede del vescovo è chiamata cattedra. Dalla cattedra il vescovo esercita il compito di governare, che precede quello di santificare che si attua dall’altare e ancor prima quello di insegnare da esercitare dall’ambone o dalla stessa cattedra.
Il papa in quanto vescovo di Roma ha la sua cattedra nella Basilica di san Giovanni in Laterano.
Don Simone
Cüntòmela PER RIFLETTERE
L’Eucaristia è sacra e quindi richiede santità. Noi veneriamo e adoriamo questo sacramento perché in esso è realmente presente Cristo stesso. S. Paolo ha ammonito coloro che lo ricevono indegnamente: “Chi mangia e beve senza riconoscere il Corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11,29).
La Chiesa ha sempre relazionato questo concetto a chi è in peccato mortale. Come dichiarato dal Concilio di Trento: “Quelli che sanno di essere in peccato mortale, per quanto si credano contriti, devono accostarsi prima al sacramento della penitenza, se vi è un confessore. Se poi qualcuno crederà di poter insegnare, predicare o affermare pertinacemente il contrario, o anche di difenderlo in pubbliche discussioni, sia perciò stesso scomunicato”.
La ragione del “preoccupante” monito (come lo definisce Trento) è semplice: il segno e il significato della Comunione è l’essere uniti a Cristo. Chi manca della fede animata dalla carità soprannaturale non è, e non può essere, unito a Cristo. Per definizione, una persona in peccato mortale manca di tale carità. Se essa dovesse ricevere l’Eucaristia, il suo atto si porrebbe in contraddizione con ciò che il sacramento stesso significa. Questo è, propriamente parlando, un sacrilegio.
Il rimedio sacramentale appropriato per chi si trova in peccato mortale è la confessione, in cui il peccatore esprime il proprio pentimento ed il fermo proposito di non peccare più. In Ecclesia de Eucharistia, S. Giovanni Paolo II parla a lungo a questo proposito. “La celebrazione dell’Eucaristia […] non può essere il punto di avvio della comunione, che presuppone come esistente, per consolidarla e portarla a perfezione”. Cita poi S. Giovanni Crisostomo: “Anch’io alzo la voce, supplico, prego e scongiuro di non accostarci a questa sacra Mensa con una coscienza macchiata e corrotta. Un tale accostamento, infatti, non potrà mai chiamarsi comunione […], ma condanna, tormento e aumento di castighi”.
Giovanni Paolo II° conclude dunque solennemente: “Desidero quindi ribadire che vige e vigerà sempre nella Chiesa la norma con cui il Concilio di Trento ha concretizzato la severa ammonizione dell’apostolo Paolo affermando che, al fine di una degna ricezione dell’Eucaristia, si deve premettere la confessione dei peccati, quando uno è conscio di peccato mortale”.
È davvero difficile immaginare come questo insegnamento potrebbe essere modificato senza minare la dottrina sull’Eucaristia. Anzi, come dichiarato dalla Commissione Teologica Internazionale (a proposito dell’ammissione dei divorziati risposati alla Comunione), “se essa [la Chiesa] potesse comunicare il sacramento dell’unità (la Comunione Eucaristica) a quelli e a quelle che, su un punto essenziale del mistero di Cristo, hanno rotto con lui, essa non sarebbe più segno e testimone del Cristo, ma suo controsegno e suo controtestimone”.
Mentre questo monito è rivolto a tutti i fedeli cristiani si vede d’altro canto come sia veramente sconvolgente la facilità con cui è possibile unirsi intimamente al Signore Gesù, nostro Redentore. Non ci viene chiesto nulla di eroico, nulla di estremamente difficile. Proprio per questo, S. Paolo ci scuote dall’abitudinarietà in cui rischiamo di cadere: “ciascuno esamini se stesso” (1 Cor. 11, 28), perché non accada di accostarsi a questo sacramento, senza riconoscere Chi stiamo ricevendo.
La Chiesa maternamente, mentre ci esorta a ricevere frequentemente il Pane di vita, dall’altra ci scuote, perché non accada di accostarsi ad esso indegnamente. Infatti l’Eucaristia rimane in se stessa Cibo che fortifica, Medicina che guarisce, Pegno di gloria, ma per chi la riceve, in Grazia di Dio oppure no, ben diverso è l’esito.
a cura di Luisella Scrosati
Cüntòmela PER RIFLETTERE
L’argomento non trova molto interesse oggi, perché molti hanno perduto il senso del bene e del male, del peccato e della Grazia, la differenza tra il peccato veniale e il peccato mortale che, contrariamente a quanto molti pensano, nella chiesa non sono mai stati aboliti. Però, talvolta, mi vengono poste delle domande su questo tema e allora riassumo alcuni concetti circa il peccato e le situazioni in cui esso si manifesta.
Anzitutto, bisogna dire che il peccato fa parte della nostra esperienza quotidiana, ma per compire un peccato mortale si richiede la presenza simultanea di tre elementi: la materia grave, la piena consapevolezza della mente ed il deliberato consenso della volontà. Per questo il Santo Papa Giovanni Paolo II° diceva: “Si ha peccato mortale quando l’uomo, sapendo e volendo (sciens et volens), per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato”. La distinzione tra peccato veniale e mortale si basa ancora su questi tre elementi.
Si compie un peccato veniale quando non c’è materia grave; oppure, se c’è materia grave, non c’è tuttavia la piena avvertenza della mente o il deliberato consenso della volontà.
Riguardo alla materia, cioè l’oggetto del peccato, i teologi distinguono tra materia sempre grave e materia generalmente grave. Nella “materia sempre grave”, dal punto di vista oggettivo, c’è sempre un peccato mortale, senza eccezioni. Nella “materia generalmente grave” vi può essere anche materia lieve, e dunque un peccato veniale.
Vi è sempre materia grave, e cioè oggettivamente si compie sempre peccato mortale, quando le azioni si portano direttamente contro Dio, contro le perfezioni divine, oppure si oppongono direttamente alle virtù teologali come l’apostasia, l’eresia, la disperazione della salvezza, con la presunzione di salvarsi senza merito, l’odio di Dio; o anche contro la virtù di religione, che ha per oggetto il culto di Dio. Qui azioni intrinsecamente cattive sono l’idolatria, il patto esplicito col demonio, la bestemmia, la violazione del sigillo sacramentale, alcuni gravi precetti della Chiesa...
Vi è sempre materia grave anche quando si ledono valori così alti per cui si compie una grave ingiuria verso il Creatore (peccati contro il quinto comandamento) o si è del tutto al di fuori del progetto di santificazione voluto da Dio (peccati contro il sesto comandamento, peccati di lussuria volontaria).
Sono peccati gravi nel loro genere, quelli nei quali il male che si compie non corrompe il bene nella sua interezza. Pertanto c’è materia grave quando si lede in maniera sostanziale il bene del prossimo e c’è materia lieve quando lo si corrompe solo in maniera leggera. Tali sono ad esempio alcuni battibecchi all’interno delle compagnie o in famiglia, alcune bugie per difendere se stessi, alcuni pettegolezzi, piccoli furti che non danneggiano gravemente il proprietario e non creano squilibrio nella società. S. Alfonso dei Liguori parlando dei peccati veniali deliberati scrive: “Tali sono, per esempio, le bugie volontarie, le piccole mormorazioni, le imprecazioni, i risentimenti di parole, le derisioni del prossimo, le parole pungenti, i discorsi di stima propria, i rancori d’animo nutriti nel cuore”.
Ancora vi è peccato veniale quando ci si porta su azioni lecite, ma in maniera non corretta secondo l’ordine morale. Si pensi ad esempio al mangiare o al bere più del necessario, a una certa vanità nel vestire, alla ricerca eccessiva dell’onore e della gloria da parte della gente, al parlare troppo, al darsi in maniera disordinata al divertimento, nel rattristarsi o deprimersi esageratamente, come se Dio non avesse cura di noi...
Riassumendo: vi è peccato veniale quando ci si porta su azioni di suo cattive, ma che hanno materia lieve; quando ci si porta su azioni lecite, ma in maniera non corretta secondo l’ordine morale; quando si ci porta su azioni che hanno materia grave, ma che sono compiute con insufficiente avvertenza della mente o mancanza di pieno consenso della volontà. Questi peccati sono veniali non da parte della materia, ma per l’imperfezione dell’azione compiuta dal soggetto.
Si è in Grazia di Dio quando vi è piena amicizia col Signore e si compie la sua volontà.
Non si è più in Grazia di Dio quando questa amicizia viene spezzata, quando si infrange volontariamente qualcuno dei suoi comandamenti in materia grave. E allora quando per tutti i fedeli accade questo e tuttavia ci si accosta all’Eucarestia senza sacramento del perdono per i peccati mortali, e quindi non in Grazia di Dio, si aggrava ulteriormente la propria situazione davanti al Signore.
E quando si conosce la propria situazione (per esempio riguardo alle situazioni matrimoniali irregolari) che rende impossibile ricevere il perdono perché non si può o non ci si vuole allontanare dalla condizione di peccato, e tuttavia con sfrontatezza ci si accosta ugualmente alla Comunione pensando che comunque va bene così, si entra in una situazione molto pericolosa per la propria anima, che si allontana ancora di più da Dio e rischia la salvezza.
Quali risposte dare a chi è in peccato mortale?
La risposta primaria per tutti è il sacramento della confessione, il proposito fermo della conversione, senza il quale non si può tornare in Grazia di Dio. La risposta per chi non può accostarsi al sacramento della confessione (a causa delle situazioni irreversibili che lo rendono quasi impossibile) è l’invito pressante della chiesa ad usare tutti gli altri mezzi per rimanere il più possibile vicini a Dio.
Essi sono la preghiera personale, l’adorazione, il Rosario, le pratiche di pietà, le occasioni di preghiera comunitaria come riunioni di preghiera, ritiri spirituali, pellegrinaggi, visite a luoghi religiosi, la partecipazione alla Messa domenicale pur senza fare la comunione, la via purificante della carità, l’impegno in realtà di volontariato svolto con spirito di fede, l’approfondimento e la conoscenza della fede cristiana che rende più acuta la conoscenza di Dio Padre Misericordioso e la coscienza della nostra condizione di peccatori amati salvati da Cristo Signore, l’impegno nella vita parrocchiale come segno di un cammino penitenziale che mostra dei frutti, l’accompagnamento spirituale che illumini nelle proprie situazioni difficili e soprattutto la fiducia nel Signore che riconosce il cammino faticoso di chi cerca di ritornare a lui.
Questa fiducia nel Signore, può trovare ancora spazio anche in una situazione oggettiva di peccato che sembra irreversibile e permette di coltivare la speranza del perdono, come fu per il pubblicano al tempio della parabola evangelica.
Allora non ci sono solo porte chiuse nella Chiesa, ma vie diverse per non perdere l’orientamento al cielo, anche nella situazioni difficili e nelle prove che la fede deve subire oggi.
Don Francesco
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Ho ricordato nel numero natalizio di Cüntòmela quanto stabilisce la disciplina della Chiesa cattolica in merito al poter ricevere la Comunione nella Messa: è necessario infatti aver ricevuto almeno la Grazia del sacramento della Penitenza ed il perdono dei peccati, gravi o mortali.
Questo criterio vale per tutti i cristiani e tutti per essere ammessi alla comunione devono aver confessato le colpe gravi, essersi pentiti e debitamente contriti nel cuore, aver fatto il fermo proposito di allontanarsi dal peccato, di rifiutare tutto ciò che porta a compierne ancora, aver fatto una adeguata penitenza. Se mancano questi elementi non c’è nessun perdono dei peccati e senza perdono dei peccati non si può essere ammessi all’Eucarestia.
Dopo il Sinodo Straordinario sulla famiglia dello scorso mese di ottobre, anche tra la nostra gente si è sparsa la convinzione che fossero cambiate molte cose sull’argomento. Nel caso specifico dei battezzati divorziati risposati (per altre categorie di persone come i conviventi, gli sposati solo civilmente, separati, è un’altra questione) si è diffusa l’idea che, seppur ancora vincolati da un precedente matrimonio sacramentale valido, essi possano comunque essere ammessi al sacramento della penitenza (e poi alla comunione) stanti alcune condizioni. Si dice infatti che se una persona divorziata e poi risposata civilmente “si pente realmente del fallimento del primo matrimonio” se il primo matrimonio non può essere salvato, oppure la nuova relazione non può essere abbandonata “senza provocare altre colpe” e se la persona “si sforza di vivere al meglio delle sue possibilità il nuovo matrimonio e di educare i propri figli nella fede”, si possa essere ammessi prima alla Penitenza e poi alla Eucarestia.
Ora, stanti così le cose, tuttavia bisogna dire che non è questo che tuttora insegnano la chiesa cattolica e la fede cristiana. Con tutta la buona volontà di accogliere il positivo che può esserci in una nuova esperienza matrimoniale di chi è divorziato e risposato, non si può saltare a piè pari l’insegnamento di Cristo contenuto nel Vangelo di Marco (Mc. 10,11): “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra commette adulterio contro di lei”. Significa che se il primo matrimonio è valido, allora chi si mette consapevolmente e liberamente in condizione di vivere come marito e moglie con un’altra persona commette per la fede cristiana un adulterio (nonostante il suggello di un patto matrimoniale solo civile). E nessuno può dire che effettivamente l’adulterio non sia un peccato grave, un peccato che non esiga la confessione sacramentale per essere perdonato. Ora ipotizzare che una persona , trovandosi in tali condizioni, possa ricevere il perdono sacramentale senza pentirsi realmente e senza confessare questo peccato è semplicemente incompatibile con la dottrina cristiana cattolica.
Lo ricorda il Concilio di Trento e la stessa Sacra Scrittura. Nella Prima Lettera di Giovanni (Gv. 1, 6) si afferma infatti che il pentimento è necessario per il perdono dei peccati e la comunione con Cristo: “Se diciamo che siamo in comunione con Lui e camminiamo nelle tenebre (del peccato) mentiamo e non mettiamo in pratica la verità”. Ed anche il Santo Papa Giovanni Paolo II° ricorda che “ Senza una vera conversione che implica una interiore contrizione e senza un sincero e fermo proposito di emendarsi, i peccati rimangono non rimessi come dice Gesù e con Lui l’antico ed il Nuovo Testamento”.
Questo criterio per essere ammessi alla comunione vale per tutti i peccatori e quindi vale anche per chi è divorziato e risposato, come per i conviventi, per gli sposati solo civilmente, per i separati, per ogni cristiano che abbia commesso peccati gravi.
Lasciare intendere che la dottrina cristiana sia stata modificata e permetta ora la possibilità del perdono dei peccati senza il pentimento e il proposito fermo di correggersi (per un malinteso senso di misericordia verso chi fa fallito un matrimonio e tenta di rimediare con un altro), vuol dire ingannare le persone ed allontanarle dalla verità, provocando un danno maggiore, per la loro salvezza, di quello che si voleva riparare.
A chi è nella condizione di divorziato risposato, pur nella coscienza dolorosa che non è possibile accedere al perdono sacramentale e all’Eucarestia, noi tutti nella Chiesa dobbiamo offrire l’accoglienza, l’accompagnamento, il sostegno e soprattutto l’esempio luminoso di una vita cristiana che non contraddica e disprezzi il dono di Grazia straordinario contenuto nei sacramenti del perdono e della comunione, che altri desiderano ardentemente e invece non possono ricevere. Inoltre dobbiamo aiutare chi è divorziato e risposato a guardare nell’esperienza della chiesa ad altre forme di riconciliazione non sacramentale, che aiutano a stare nella vita cristiana con la speranza di non essere esclusi dalla salvezza. Una altra forma di aiuto a chi è divorziato è quella di verificare la fondatezza e la validità di un matrimonio che appare fallito così che se per ragioni oggettive quel matrimonio davanti a Dio “non è mai stato un matrimonio sacramento” chi ne era coinvolto possa essere libero di sposarsi, questa volta validamente davanti al Signore.
Don Francesco
Cüntòmela PER RIFLETTERE
Normalmente i cristiani, coscienti dei loro peccati, ricevono il perdono attraverso il sacramento della penitenza, che nelle parole del sacerdote “Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” dà la certezza di essere stati perdonati, se ci si è ben confessati.
Alcuni cristiani, coscienti dei loro peccati, non possono però ricevere questo sacramento perché non intendono riparare al male commesso o distaccarsi dalla condizione oggettiva di peccato. In questa situazione si trovano i cristiani divorziati e risposati civilmente.
La questione del ricevere il perdono dal lato sacramentale per loro è chiusa ed è un vero problema perché la Grazia di Dio è necessaria per la salvezza. C’è però una via non sacramentale per avvicinarsi al perdono di Dio, che è la via della preghiera come richiesta di perdono.
L’esempio lo troviamo nel Vangelo di Luca (Lc. 18, 13-14) nella parabola del fariseo e del pubblicano. Contrariamente a come accade molte volte, dove Gesù liberando dal peccato dice “Vai, ti sono rimessi i tuoi peccati” nella parabola del pubblicano, quest’uomo se ne va giustificato (riporta il Vangelo) senza che qualcuno glielo abbia detto, ma confidando solo nella bontà e misericordia di Dio. Qui si vede come il pubblicano non ha la certezza del perdono, tuttavia ne ha la fondata speranza, perché lo ha chiesto con parole che gli venivano dal profondo del cuore: “O Dio abbi pietà di me peccatore”.
Questa modalità si può applicare anche ai divorziati risposati, riprendendo le vie non sacramentali delle opere penitenziali quaresimali: la preghiera, il digiuno, l’elemosina, le opere di carità. Queste vie non sacramentali al perdono possono essere percorse con fiducia da tutti perché sono sostenute dai testi biblici e dalla tradizione della Chiesa. Le opere di misericordia corporali e spirituali sono vie molto pratiche di riconciliazione. Così la preghiera fiduciosa ed insistente, l’impegno nell’amore e nell’aiuto del prossimo, significati anche dal digiuno e dall’elemosina, sono vie sicure di perdono perché Dio è più veloce nel concederlo che noi a riceverlo.
S. Faustina Kowalska si sente dire da Gesù in una delle sue visioni: “Desidero che i sacerdoti annuncino la mia grande misericordia per le anime dei peccatori. Il peccatore non deve aver paura ad avvicinarsi a me”. Allora a questa misericordia tutti possono ricorrere, in tutte le situazioni: sarà la sapienza dell’amore di Dio a trovare le vie per far giungere il perdono al peccatore.
Bisogna però dire bene e chiaro che se è fondata la speranza del perdono del Signore, ciò non autorizza a ricevere la comunione eucaristica, perché questa è il sacramento visibile della comunione invisibile con Dio e la Chiesa. E nel caso dei divorziati risposati è evidente che non c’è la “comunione piena” con Dio e la Chiesa, perché si vive ancora concretamente l’opposizione tra comportamenti umani e volontà divina.
È evidente che la speranza del perdono non è il perdono già ottenuto, così come la speranza della riconciliazione non è la riconciliazione già realizzata. Questa è una differenza importante tra il perdono “nella certezza della fede” attraverso il sacramento della riconciliazione ed il perdono “nella sicurezza della speranza” per la preghiera fiduciosa che si eleva a Dio. I divorziati risposati non sono nella condizione di ricevere il perdono “nella certezza della fede” ma possono aspirare “alla sicurezza del perdono” coltivandone la speranza. Perciò come altri peccatori che non possono riceverlo sacramentalmente, anche i divorziati risposati che vogliono aspirare al perdono del Signore, consapevoli della loro situazione di peccato, si astengono dai sacramenti della riconciliazione e dell’Eucarestia volontariamente ed attendono con fiducia il momento in cui Dio manifesterà la sua misericordia al di là di ogni desiderio e merito.
Per crescere nella speranza, anche se non possono accedere ai sacramenti, i divorziati risposati non devono stare lontani dalla fede, dalla vita della chiesa, dalla preghiera, dalla Messa, ma anzi partecipare a questo itinerario di fede insieme a tutta la comunità parrocchiale perché è il loro aiuto più grande nel coltivare la speranza di un perdono che non può venire sacramentalmente, ma che verrà per la misericordia divina.
Una situazione può anticipare il giungere del perdono anche sacramentale: quando chi è divorziato e risposato nel colloquio con il sacerdote prende l’impegno di astenersi dai rapporti coniugali. È una condizione gravosa di prova penitenziale e per molti difficilmente praticabile, ma non impossibile se si desidera fortemente la comunione con Dio e la Chiesa, senza per questo lasciare la nuova famiglia e le sopraggiunte responsabilità.
Anche in punto di morte per i divorziati risposati, verificandosi l’interruzione dei rapporti coniugali, è possibile ricevere il viatico, cioè la comunione che introduce all’incontro col Signore dopo la morte.
Guardando le cose nell’insieme potrà sembrare troppo poco questo attendere fino alla fine della vita il perdono e la comunione sacramentale. Però, a ben guardare, proprio la fine della vita è più importante di tutto il resto dell’esistenza. Non serve a nulla infatti partecipare esternamente alla vita della chiesa se poi si vive e si muore in peccato mortale e si va alla perdizione eterna, all’inferno. Questo lo dobbiamo ricordare tutti e non solo chi è divorziato risposato. La cosa più importante di tutta l’esistenza è di lasciare questa vita con il perdono del Signore, come fu per il buon ladrone del Vangelo. È in quel momento supremo allora che la via non sacramentale della speranza incontra la via sacramentale della penitenza e della riconciliazione con il Signore che introduce alla felicità che non avrà più fine.
Don Francesco
"....non temete, Dio ha per voi, come per tutti, progetti di amore e di gioia, scopriteli con fiducia" - Ermes Ronchi
I pastori della Chiesa "sono chiamati a interrogarsi su come assistere i divorziati o separati, affinché non si sentano esclusi dalla misericordia di Dio, dall'amore fraterno di altri cristiani e dalla sollecitudine della Chiesa per la loro salvezza". - Papa Francesco
Siamo approdati quasi tutti per caso, quasi tutti alla deriva dei nostri sogni, di un nostro progetto chiamato matrimonio, perché tutti, chi più e chi meno ci sperava, ci credeva, lo desiderava, una famiglia, un marito, una moglie, il sogno, il progetto per tutta la vita. E poi per qualche misteriosa ragione il progetto è svanito, da un giorno all'altro, ma dietro, tra quel giorno e l'altro c'è stato tutto: felicità, allegria, amore e poi dolore, rifiuto, rabbia, abbandono, disperazione.
Siamo approdati appunto in questo gruppo, il Gruppo Galilea (Galilea delle genti; il popolo immerso nelle tenebre vide una grande luce Mt.4,16), un po' intimoriti, incerti su cosa aspettarci. Noi che abbiamo il cuore ferito, ma che desideriamo ancora camminare sulle vie di Gesù, dietro a lui, con Lui perché abbiamo compreso che Solo in Cristo c'è salvezza. “Io come luce sono venuto nel mondo, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno, perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo” Gv.12,46-47. È per te divorziato, separato, per te, che sei alle periferie della fede, che forse come un tempo noi, ti senti nell'angolo escluso, dall'Amore di Dio! Gesù dice: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati, io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” Mt.9,12.
È il Vangelo della misericordia. Noi che abbiamo fame e sete di Cristo, che non vogliamo sentirci meno amati dal Padre, possiamo credere in questo Amore? Nel suo Amore?
Io lo credo, credo più di ogni altra cosa, nel suo Amore che abbraccia il mondo dei poveri come lo siamo tu ed io, io lo sento questo Amore, questo Abbraccio, questo suo tenermi nel palmo della sua mano, questo venirmi incontro, e non importa quanto io abbia peccato, Lui mi conosce e conosce il mio cuore, la mia miseria, e mi ama così come sono. - Estratto da una testimonianza di Lorenza
Ritrovi per Gruppo Galilea
ogni 2° venerdì del mese da Ottobre a Giugno
presso la Parrocchia di Sellero - ore 20.15.
PASTORALE FAMIGLIARE DI VALLICAMONICA - Don Mario Bonomi informazioni Gruppo Galilea: Mariangela tel. 339-900611
Cüntòmela PER RIFLETTERE
In questo numero, per la rubrica sulla vita dei Santi, dopo quella di Angela Merici, presentiamo la biografia di un’altra luminosa figura femminile che, durante il periodo rinascimentale, riuscì a mettere in pratica il sorgente umanesimo, prestando attenzione all’umanità sofferente nel corpo e assetata di istruzione e guida spirituale nell’anima: Santa Francesca Romana.
Francesca Bussa de’ Buxis de’ Leoni, nacque a Roma nel 1384, in una famiglia nobile romana dalla quale ricevette un’educazione elevata per una fanciulla del suo tempo.
Il suo primo confessore si accorse ben presto della vocazione della fanciulla alla vita monastica, ma la convinse ad accettare la volontà del padre, che le aveva combinato, appena dodicenne, un matrimonio con il nobile Lorenzo de’ Ponziani.
Una volta sposata, Francesca andò ad abitare nel palazzo del marito, ma l’inserimento nella nuova famiglia non fu facile, e questa difficoltà si aggiunse alla sofferenza provata per aver dovuto rinunciare alla sua vocazione religiosa; ne scaturì uno stato di anoressia che la sprofondò nella prostrazione.
All’alba del 16 luglio 1398 le apparve, però, in sogno sant’Alessio che le diceva: “Tu devi vivere… Il Signore vuole che tu viva per glorificare il suo nome”.
Al risveglio la vita di Francesca cambiò, seppe accettare la sua condizione di sposa e a 16 anni ebbe il primo dei tre figli, che amò teneramente, anche se purtroppo solo uno arrivò all’età adulta.
Francesca prese a dedicare il suo tempo libero a soccorrere poveri ed ammalati: erano anni drammatici per Roma, si discuteva sulla superiorità o meno del Concilio Ecumenico sul Papa, lo Scisma d’Occidente devastava l’unità della Chiesa e lo Stato Pontificio era politicamente allo sbando ed economicamente in rovina.
Francesca perciò volle dedicarsi ai suoi concittadini più bisognosi e, quando nel 1401 il suocero le affidò le chiavi delle dispense, dei granai e delle cantine, ne approfittò per aumentare gli aiuti ai poveri e in pochi mesi i locali furono svuotati.
Pochi giorni dopo, però, sia i granai che le botti del vino erano prodigiosamente pieni.
A questo punto Francesca decise di dedicarsi sistematicamente all’opera di assistenza; con il consenso del marito, vendette tutti i vestiti e gioielli devolvendo il ricavato ai poveri e indossò un abito di stoffa ruvida, ampio e comodo per poter camminare agevolmente per i miseri vicoli di Roma.
Era ormai conosciuta ed ammirata da tutta Trastevere, che aveva saputo del prodigio dei granai di nuovo pieni, e un gruppo di donne ne seguirono l’esempio; con esse Francesca coltivava un campo nei pressi di San Paolo, da cui ricavava frutta e verdura per la lunga fila di poveri, che ormai ogni giorno cercava di sfamare.
Alla morte del suocero Francesca si prese cura dell’Ospedale del Ss. Salvatore da lui diretto, ma senza tralasciare le visite private e domiciliari che faceva ai poveri.
Incurante delle critiche e ironie dei nobili romani a cui apparteneva, chiedeva l’elemosina per i poveri all’entrata delle chiese, ricevendo in tali occasioni dal Signore il dono di celesti illuminazioni, poi trascritte dal suo confessore.
La sua vita spesa tutta per la famiglia ed i poveri di Roma, fu però anche funestata da molte disgrazie; già nel 1409, suo marito Lorenzo, comandante delle truppe pontificie, durante una battaglia venne gravemente ferito rimanendo semiparalizzato per il resto della sua vita, accudito amorevolmente dalla moglie e dal figlio.
Nel 1410 la sua casa venne saccheggiata e i loro beni espropriati, il marito invalido fu costretto a fuggire, per sottrarsi alla vendetta di re Ladislao, che però prese in ostaggio il figlio Battista.
Poi a Roma ci fu l’epidemia di peste e il suo slancio di amore verso gli ammalati, le fece commettere l’imprudenza di aprire il suo palazzo agli appestati; la pestilenza le portò così via due figli, Agnese ed Evangelista e lei stessa si contagiò, riuscendo però a salvarsi; e a ricongiungersi con il marito e l’unico figlio rimasto Battista.
È di quel periodo l’apparizione in sogno del piccolo figlio Evangelista, insieme con un Angelo misterioso, che s. Francesca da allora in poi avrebbe visto accanto a sé per tutta la vita Francesca, continuando ad aiutare i suoi poveri ed ammalati, senza fra l’altro trascurare la preghiera, tanto da dormire ormai solo due ore per notte, prese a dirigere spiritualmente il gruppo di amiche, che la aiutavano nella carità quotidiana e si riunivano ogni settimana nella chiesa di Santa Maria Nova.
E durante uno di questi incontri, Francesca le invitò ad unirsi in una confraternita consacrata alla Madonna, restando ognuna nella propria casa, impegnandosi a vivere le virtù monastiche e di donarsi ai poveri.
Nel 1425 le undici donne si costituirono in associazione con il nome di “Oblate Olivetane di Maria”, comunità poi eletta in Congregazione, con il titolo di “Oblate della Santissima Vergine”, in seguito poi dette “Oblate di Santa Francesca Romana”, la cui unica Casa secondo la Regola, era ed è quella romana.
Si recava ogni giorno nel monastero da lei fondato, ma continuò ad abitare nel Palazzo Ponziani, per accudire il marito malato; dopo la morte del marito, con il quale visse in armonia per 40 anni, lasciò la sua casa, affidandone l’amministrazione al figlio Battista e si unì alle compagne a Tor de’ Specchi dove fu eletta superiora.
Trascorse gli ultimi quattro nel convento, dedicandosi soprattutto a tre compiti: formare le sue figlie, sostenerle con l’esempio nelle opere di misericordia, pregare per la fine dello scisma nella Chiesa.
Prese il secondo nome di Romana e così fu sempre chiamata dal popolo e dalla storia: il popolo romano la considerò sempre una di loro nonostante la nobiltà, e familiarmente la chiamava “Franceschella” o “Ceccolella”.
Non morì però nel suo monastero, ma nel palazzo Ponziani, perché da pochi giorni si era spostata lì per assistere il figlio Battista gravemente ammalato; dopo poco tempo il figlio guarì ma lei ormai sfinita, morì il 9 marzo 1440 nel palazzo di Trastevere.
Fu proclamata santa il 29 maggio 1608 da papa Paolo V; e papa Urbano VIII volle nella chiesa di Santa Francesca Romana,
Santa Francesca Romana è considerata compatrona di Roma, degli automobilisti e viene invocata come protettrice dalle pestilenze e per la liberazione delle anime dal Purgatorio.
La sua festa liturgica è il 9 marzo.
a cura di Valerio Arici
Cüntòmela a BORNO
La Chiesa universale sta vivendo intensamente tempo tra i due Sinodi sulla famiglia: il primo celebratosi nell’ottobre 2014 il secondo che sarà celebrato il prossimo autunno, sempre a Roma. È certamente un tempo propizio questo, nel quale ogni comunità cristiana è chiamata a darsi da fare per mettere al centro la famiglia che, coma ha anche ricordato il neo-presidente della Repubblica Sergio Mattarella, è “risorsa della società”.
Per la nostra comunità di Borno, un frutto bello del recente Sinodo sulla famiglia è la Messa delle mamme che pregano per i loro figli, celebrata ogni giovedì alle ore 9. Tutte le mamme, i papà, le nonne, i nonni sono invitati a ritrovarsi insieme per pregare per i loro figli e nipoti. Certamente ogni genitore almeno una volta al giorno prega per i propri figli e lo stesso fanno i nonni per i loro nipoti, ma è bello anche trovarsi una volta alla settimana a pregare per questa speciale intenzione come comunità, come famiglia di famiglie.
Bisogna dire che la risposta è molto buona e che un folto gruppo partecipa alla celebrazione, che si conclude sempre con l’apposita preghiera per i figli e la richiesta di intercessione alla Beata vergine Maria, Madre della Chiesa e Regina delle famiglie.
Don Simone
Ti ringraziamo, Signore, per il dono dei nostri figli.
Sappiamo che tu li ami di un amore più grande,
più potente, più puro del nostro;
a te dunque li affidiamo.
Sii tu per loro la Via, la Verità e la Vita,
l'amico vero che non tradisce mai.
Fa' che essi credano, perché la vita
senza fede è una notte disperata.
Fa' che siano puri, perché senza purezza
non c'è amore, ma egoismo.
Fa' che crescano onesti e laboriosi,
sani e buoni come noi li sogniamo e tu li vuoi.
Fa' che noi siamo per loro esempio luminoso
di virtù e guida sicura.
Dona efficacia alla nostra parola, forza costante
alla nostra azione formatrice e di testimonianza.
E tu, Maria, che conoscesti le ineffabili gioie
di una maternità santa,
dacci un cuore capace di trasmettere
una fede viva e ardente.
Santifica le nostre ansie e le nostre gioie,
fa' che i nostri figli crescano in virtù e santità
per opera tua e del tuo Figlio Divino.
Amen!
Cüntòmela a BORNO
É il momento del S. Rosario: un momento atteso e desiderato dai nostri ospiti, soprattutto dalle nonne. Il Rosario è una preghiera profondamente amata, è facile e bella; è un inno alla Madonna ed aiuta ad avere fiducia in Dio attraverso Maria.
Mentre sgranano la corona, la bocca delle nostre anziane pronuncia le parole dell'Ave Maria con tanto sentimento esprimendo la grande fede che c'è in loro.
Alla domanda “Perché desideri tanto il Rosario?” ecco alcune risposte.
- È una bella preghiera...
- Sento la Madonna vicino a me e trovo conforto nella giornata...
- L'Ave Maria è la preghiera che ricordo meglio...
- Mi rilassa, mi dà energia e speranza...
- Mi sembra di essere di nuovo a casa mia quando era abitudine, alla sera, recitare il Santo Rosario, grandi e piccini. Eravamo una famiglia numerosa e unita. Ora sono sola.
- Mi dà la forza per sopportare i miei mali e andare avanti.
- Con il Rosario si onora la Vergine e io la sento vicina a me.
Alla domanda ”Pregavi tanto da giovane?”
- Solo quando ero in difficoltà e non sapevo come tirare avanti.
- Solo nel momento del bisogno.
- Molto poco, prego di più adesso.
- Mi sono capitate tante disgrazie: morte di persone care, incidenti, malattie gravi. Forse non pregavo; di tutto ho accusato il Signore. L'ho incolpato della mia infelicità e lo faccio ancora adesso per essere costretta a rimanere qui. Sono cattiva, vero?
- Ho sempre invocato l'aiuto della Madonna.
- Più che preghiere erano imprecazioni o bestemmie.
Alla domanda ”Preghi di più ora e perché?”
- Boh! Lo faccio come passatempo.
- Io prego in silenzio, con il cuore e con la mente, così non mi confondo e non mi distraggo.
- Sento il desiderio di ringraziare il Signore e la Madonna per essere arrivata a 90 anni quasi sempre in buona salute, e di aver trovato qui un'accoglienza che meglio di così non potevo desiderare. Mi vogliono tutti bene.
- Prego poco, preferisco guardare le partite alla TV. Pregare è tempo sprecato.
- Penso: sarò dannato o salvo? Questa domanda che spesso mi faccio, mi spaventa, allora prego la Madonna.
- Vorrei morire con accanto le mie figlie o altri famigliari, ma temo che, arrivato il momento, sarò solo, assistito sicuramente bene dal personale di questo bel ricovero. Prego e piango.
Discorrendo amichevolmente con una volontaria della CARITAS mi sono sentita confermare che agli occhi dei nostri anziani di Casa Albergo, l'amore per loro è talmente forte, radicale, esclusivo, da sconfinare con l'adorazione e la gratuità totale. Nonostante il cumulo di dolori e sofferenze sanno gratificarci con la parola e il sorriso.
Ecco l'importanza della solidarietà, dell'accoglienza, dell'amore. Io sono piuttosto ottimista perché, se avvicinati e sostenuti, ho notato che alcuni ospiti, dopo aver patito per lungo tempo seri disturbi, si sono rimessi lievemente in salute ed hanno una visione più serena e positiva della loro vita.
Teniamo loro, quindi, più compagnia; cerchiamo di essere più vicini ai loro problemi, alle loro necessità, alle loro difficoltà. È vero che tutto ciò che è positivo richiede fatica, impegno, sacrificio, rinunce, ma quando notiamo incomprensioni, disarmonie nei rapporti, tensioni, interveniamo con discrezione e affetto naturale, perché spesso questi nostri anziani vivono in un clima di forte sfiducia, di assenza di prospettive evidenziando segni di malessere fisico e psichico.
Un grazie a tutte le persone che collaborano, religiosi compresi, e sentimenti di riconoscenza per quanti operano con impegno e generosità a beneficio dei nostri anziani.
Una volontaria
Cüntòmela a BORNO
La nostra CARITAS, nonostante le sempre più scarse risorse economiche dovute alla crisi che ha pesanti ripercussioni sulla spesa familiare e sta compromettendo il vivere di molti, è riuscita anche quest'anno a far vivere ai nostri ospiti di Casa Albergo alcuni pomeriggi “diversi”, grazie all'impegno costante della nostra animatrice Fiorella, di gruppi esterni alla struttura e di volontari.
Di seguito un breve sintesi degli eventi proposti:
Gennaio:
- arrivo della befana con musica e caramelle; festa di compleanno con fisarmonica.
Febbraio:
- festa con i volontari di Ossimo e Borno; festa di carnevale con i ragazzi.
Marzo:
- musica e canti con Danilo e la sua chitarra; festa del papà.
Aprile:
- festa dei compleanni;
Maggio:
allestimento in piazza a Borno della bancarella per la festa della mamma.
-giugno:
- inaugurazione del salone polivalente RSA con “pizzata”; olimpiadi dell'anziano a Bienno.
Luglio:
- incontro con i ragazzi della Comunità di Milano con tombolata e merenda.
Agosto:
- merenda con pane, salame e gelato.
Settembre:
- bancarella Transumanza; festa dei compleanni con fisarmonica.
Ottobre:
- festa degli Angeli Custodi e merenda con chitarra; festa di Hallowen con castagne, pane e salame.
Novembre:
- pranzo con pizza.
Sono convinta che in momenti di crisi economica come quella che stiamo vivendo, le volontarie diventano ogni giorno più preziose. Dedicando agli anziani i nostri pomeriggi, forniamo pure un supporto al personale, senza essere naturalmente invadenti.
Purtroppo siamo ancora troppo poche. Abbiamo un bagaglio individuale di esperienze differente, ma tutte con tanta voglia di donarsi agli anziani, gratuitamente e con senso del dovere.
Conosco l'impegno che comporta occuparci di chi è meno fortunato in termini di tempo, di energie, di cuore, ma sono pure consapevole di ricevere più di quello che dono, perché è un impegno ricco di soddisfazioni, interessante, un'esperienza positiva.
L'anziano è bisognoso del calore del prossimo, desidera braccia amorose che lo stringano, di sostegno nelle sue difficoltà.
Sacrificare il proprio tempo, aiutarli, dare affetto, attenzione, forza; amarli senza giudicare nessuno è dare anche un senso alla nostra vita presente e futura.
Grazie nonni per la vostra vicinanza, amicizia e simpatia.
Una volontaria
Cüntòmela a BORNO
Poco prima di Natale, una nuova attività parrocchiale ha avuto inizio a Paline. È l’apertura della casa vacanze S. Anna per gruppi parrocchiali e famiglie che, prevalentemente nei periodi estivi di luglio e agosto e a Natale, cercano un luogo di accoglienza e svago sul nostro altipiano.
La casa di Paline, come ben sapete era la vecchia scuola dove tanti Palinesi hanno sudato sui banchi della conoscenza, guidati con passione e ferree redini da qualche maestra bornese ancora vivente.
Questa struttura, terminata la sua funzione educativa, era stata affidata dal comune all’ERSAF, Ente Regionale per i Servizi all’Agricoltura e alle Foreste, che l’ha gestita come luogo di accoglienza per gruppi fino allo scorso anno.
Divenuta libera negli ultimi mesi, come parrocchia abbiamo accolto l’opportunità di rilevarne la gestione perché ci è sembrato cosa buona mantenere nell’ambito del comune e della parrocchia di Borno una struttura a cui i Palinesi sono legati, in modo che sia ancora fruibile per il servizio di accoglienza di gruppi e famiglie, ma anche per i bisogni della nostra piccola comunità.
La struttura ha avuto bisogno di alcuni interventi di adeguamento e naturalmente di allestimento interno perché era completamente vuota. Si sono dunque fatti lavori per la cucina nuova, collegando il gas, predisponendo l’isolamento con la porta REI, fornendola di piano cottura e forno, tavoli in acciaio, lavello funzionale, frigorifero e congelatore, lavastoviglie, cappa e le attrezzature varie.
Al piano superiore si sono ricavate due stanze in più oltre alle tre esistenti, per un totale di 30 posti letto, si sono acquistati i letti a castello, adeguati i bagni, completato l’impianto elettrico, allestite le stanze con materassi, cuscini e coperte, qualche armadio, sedie, specchi e quant’altro utile per una buona funzionalità.
La sala da pranzo a piano terra è stata allestita acquistando un buon numero di tavoli e panche, recuperando un mobile per la sistemazione di piatti e stoviglie che in gran parte abbiamo ricevuto in donazione da alcuni bornesi.
Un nuovo boiler, assicurerà l’acqua calda per le docce ai frequentatori di Casa S. Anna. E naturalmente l’imbiancatura interna di tutta la casa ha ridato luminosità all’ambiente, dalla mansarda, al pratico sottoscala che funge da lavanderia e dispensa.
Nella domenica precedente il Natale, abbiamo anche provveduto a benedire la nuova struttura così che negli ultimi giorni dell’anno un gruppo di famiglie di Milano ha potuto inaugurare della nuova casa.
Sappiamo che purtroppo i tempi in cui queste strutture vengono richieste sono molto ridotti e si limitano al mese di luglio e metà agosto con i dieci giorni del tempo natalizio, se va bene. Abbiamo comunque ritenuto che valesse la pena avere una struttura a disposizione della parrocchia ed anche di Paline e quindi ci siamo imbarcati in questa avventura che si protrarrà per dieci anni, tanto dura il comodato con il comune.
L’impegno economico è stato di Euro 35.000 circa, già anticipati per l’adeguamento e l’allestimento di tutto quanto è all’interno della casa, (mobili, tavoli, letti, ecc.) che alla scadenza del comodato resterà di proprietà del comune, in uso alla casa per chi verrà dopo di noi.
Confidiamo di rientrare da questo impegno economici nei tempi stabiliti e se non sarà così, sarà stata comunque un’opera a servizio delle comunità di Borno e di Paline.
Cüntòmela a BORNO
Borno: affresco di via Vittorio Veneto attribuibile a Pietro Scalvini, secolo XVIII; rappresenta l’Immacolata con i santi Giovanni B. e Fiorino
T’incoronano dodici stelle
Ai tuoi piè piegan l’ali del vento
Della luna s’incurva l’argento
Il tuo manto è colore del ciel
Bella tu sei qual sole
Bianca più della luna
E le stelle più belle
non son belle al par di te!
Questo inno una volta molto cantato, contiene quasi tutti gli elementi che hanno contribuito nei secoli a formare l’iconografia relativa all’immacolato concepimento della Madonna.
L'Immacolata Concezione è un dogma cattolico, proclamato da papa Pio IX il giorno 8 dicembre 1854, che sancisce come la Vergine Maria sia stata preservata immune dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento; tale dogma non va confuso con il concepimento verginale di Gesù da parte di Maria.
Il dogma dell'Immacolata Concezione riguarda il peccato originale: per la chiesa Cattolica infatti ogni essere umano nasce con questa macchia e solo la Madre di Cristo ne fu esente: in vista della venuta e della missione sulla Terra del Messia, a Dio dunque piacque che la Vergine dovesse essere la dimora senza peccato per custodire in grembo in modo degno e perfetto il Figlio divino fattosi uomo.
La Chiesa cattolica celebra la solennità dell'Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria l'8 dicembre, il giorno stesso della proclamazione del dogma. Nella devozione cattolica l'Immacolata è collegata con le apparizioni di Lourdes (1858) e iconograficamente con le precedenti apparizioni di Rue du Bac a Parigi.
Nel 1830 Catherine Labouré, novizia nel monastero parigino di Rue du Bac, fece coniare una medaglia, detta poi la “medaglia miracolosa”, che riportava le seguenti parole, da lei viste durante un'apparizione della vergine Maria: "O Maria, concepita senza peccato, pregate per noi che ricorriamo a voi".
Non è il caso qui di riassumere come il dogma si sia venuto elaborando nel corso dei secoli: percorso non facile né lineare. Quello che indagheremo in questo scritto è come il concetto si sia espresso attraverso l’arte.
Intanto va subito annotato come nel canto citato all’inizio manchi un elemento iconografico essenziale per la trasmissione del messaggio del concepimento immacolato: il serpente! Questo elemento deriva con ogni probabilità dalla maledizione scagliata contro questo animale, simbolo del tentatore, nel giardino dell’Eden: «Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno» (Genesi 3,15).
In una prima fase, antecedente il secolo XV, gli artisti gotici si limitarono ad accenni alquanto generici nelle loro opere, lasciando al fedele di interpretare segni, simboli e metafore, che potevano trasmettere l’idea dell’immacolatezza mariana rispetto al peccato originale.
Per opportuna conoscenza bisogna infatti ricordare che eminenti studiosi e santi della chiesa sostennero che anche Maria fu concepita nel peccato originale ma fu redenta anticipatamente da Cristo (Anselmo d’Aosta, Bernardo di Chiaravalle, Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Bonaventura).
Nel secolo XV le opere d’arte divennero più esplicite, seguendo il dibattito in corso, cioè parteggiando per l’una o l’altra tesi, soprattutto quando raccontavano episodi della vita dei genitori di Maria: Anna e Gioacchino, o dell’infanzia di Maria stessa.
Il caso più clamoroso è sicuramente l’opera pittorica di Piero di Cosimo (Firenze, Uffizi) che rappresenta i santi dottori con tavolette e cartigli che espongono le loro tesi (qui a sinistra).
L’iconografia dell’Immacolata fu fissata nientemeno che dalla Controriforma: è del Concilio di Trento infatti il documento Decretum de peccato originali (1546), sostenuto soprattutto da card. Pietro Pacheco di Jaen.
Il tema dell’Immacolata nella pittura nasce nella Italia meridionale ma si diffonde soprattutto in Spagna e poi in Francia. Sarà proprio uno spagnolo, Francisco Pacheco, a definire i simboli pittorici di questo tema nel suo trattato Arte de la Pintura (1638): “Si deve.. dipingere.. questa Signora nel fiore della sua età, da dodici a tredici anni, bellissima bambina con begli occhi e sguardo grave, naso e bocca perfettissimi e rosate guance, i bellissimi capelli lisci, color oro... deve dipingersi con tonaca bianca e manto blu vestita del sole, un sole ovale ocra e bianco, che circundi tutta l’immagine, unito dolcemente con il cielo; coronato di stelle; dodici stelle distribuite nel circolo chiaro fra splendori, servendo di punto alla sacra fronte; le stelle su alcune macchie chiare formate a secco di purissimo bianco, che esca sopra tutti i raggi...
Una corona imperiale deve adornare la sua testa ma che non copra le stelle; sotto i piedi, la luna che benché sia un globo solido, prese licenza per renderlo chiaro, trasparente sui paesi; nella parte di sopra, più chiara e visibile la mezza luna con le punte verso il basso... I tributi di terra si accomoderanno, convenientemente, per paese, e quelli del cielo, se vogliono fra le nubi. Adornasi con serafini e con angeli interi che hanno alcuni degli attributi... il dragone... al quale la Vergine spaccò la testa trionfando dal peccato originale... se potessi lo eliminerei per non disturbare il quadro”.
I simboli proposti dal Pacheco sono di chiara derivazione dall’Apocalisse e avevano già trovato parziale traduzione nel quadro qui sopra riprodotto, del pittore spagnolo Francisco Zurbaràn, che egli evidentemente conosceva.
Un pittore camuno la cui famiglia era d’origine bornese, perciò chiamato Borni (da Borno) Bate ha dipinto questa Immacolata (qui sotto) conservata nella chiesetta di S. Antonio; compaiono alcuni dei segni tipici come la luna, il serpente, la corona, il manto azzurro, gli angioletti. Non ci sono le dodici stelle ma i raggi che si dipartono dal capo sono dello stesso numero e l’abito è rosso e non bianco. Ma i due angioletti al fianco reggono profezie bibliche: “Nondum erant abyssi et ego iam concepta eram” (Prov. 8, 22-35: Quando ancora non c’erano gli abissi, io fui generata). “Ipsa conteret caput tuum (Gen. 3,15: Lei ti schiaccerà il capo col piede)
Il pittore, a scacciare ogni dubbio, introduce un elemento nuovo: la mela, che allude direttamente al peccato d’origine.
Francesco Inversini
Cüntòmela a BORNO
Cosa ne faremo di tutti questi libri. Questo è stato il primo pensiero quando abbiamo cominciato ad allestire il materiale della pesca di beneficenza di questa estate. Un mare di libri di ogni tipo e poco spazio dove collocarli. E allora? Idea! Perché non facciamo una bancarella del libro usato? Detto e fatto. Si va beh, non proprio così di fretta, ma comunque l’idea è stata ben accolta, ed appoggiata anche dal parroco. Così è nata questa iniziativa che con l’aiuto di un buon numero di volontari e volontarie della “cultura”, ha permesso di allestire un piccolo mercatino del libro usato proprio sotto il portico del palazzo comunale. Per più di un mese, nei fine settimana, moltissime persone hanno potuto visitare questa esposizione e prendere un libro di loro gradimento con una offerta libera che ha dato poi degli ottimi risultati.
Così abbiamo pensato che anche le vacanze natalizie sarebbero state un momento favorevole per riproporre l’iniziativa. I volontari estivi si sono di nuovo attivati e nei locali dove abbiamo fatto la pesca abbiamo predisposto il piccolo mercatino invernale del libro.
Buonissima partecipazione ed “affari vantaggiosi” per molti che hanno trovato di loro gusto libri per bambini, romanzi impegnati, racconti rosa, qualche libro religioso, pubblicazioni turistiche ed itinerari d’arte montana: un vero assortimento. Ottima iniziativa che invita a leggere, a crescere nella conoscenza e nella cultura della sapienza, così rara oggi da trovare.
Apprezzamenti da chi ha visitato la bancarella ci spingono a riproporla per l’estate prossima. Ringraziando perciò i volontari che con generosità hanno assicurato la realizzazione di questo mini evento ed anche le tante persone che ci hanno donato i libri, ci mettiamo “di lena” per preparare una bancarella ancora più fornita e varia, per la gioia dei nostri numerosi e appassionati lettori, grandi e piccoli.
Cüntòmela a BORNO
Viola Belingheri
di William e Gloria Fedrighi
7 dicembre 2014
Andrea Gheza
di Daniele e Miorini Silvia
7 dicembre 2014
Pietro Gheza
di Igor e Anna Martinazzoli
7 dicembre 2014
Andrea Marsigalia
di Paolo e Aurora Bottichio
8 dicembre 2014
Aurora Orosz
di Robert e Piera Morelli
24 dicembre 2014
Felice Baisotti
29-7-1945 + 4-12-2014
Faustino Maffeo Rivadossi
24-11-1928 + 27-12-2014
Giuseppe Cottarelli
18-3-1929 + 6-1-2015
(Vigenano PV)
Franca Rivadossi
8-5-1932 + 7-1-2015
Angela Fiora
18-12-1929 + 11-1-2015
Giovanni Poma
31-7-1942 + 12-1-2015
Caterina Rigali
17-7-1926 + 17-1-2015
(Robbio Vercelli)
Giuseppe Poma
14-2-1924 + 28-1-2015
Umberto Fedrighi
15-5-1947 + 4-2-2015
Simplicio Lucio Moro
26-5-1929 + 5-2-2015
Martino Fedriga
17-9-1929 + 12-2-2015
Mariolina Avanzini
5-5-1952 + 19-2-2015
Maria Francesca Valgolio
12-3-1927 + 24-2-2015
Pierina Fanton
16-6-1913 + 3-3-2015
Giuseppe Miorini
1-2-1925 + 5-3-2015
Cüntòmela a OSSIMO INF.
Di nuovo Quaresima!? Oppure: una nuova Quaresima!?
Due esclamazioni simili, ma diverse nel loro significato. Le cose ripetute hanno il sapore della noia, del “già visto”. Ma se ci pensiamo bene, a volte le cose che si ripetono in continuo e che quindi sono da questo punto di vista noiose come un disco rotto, sono le più necessarie. Cosa c’è di più ripetitivo e quindi noioso della respirazione? Proviamo a farne senza!
La nostra vita è fatta di molte cose ripetitive come il saluto, come le espressioni con le quali diciamo e vogliamo sentirci dire “Ti voglio bene”, e tante altre cose, in mancanza delle quali ci sentiamo impoveriti, o trattati male.
La Quaresima ritorna, e la possiamo vivere bene oppure male, dipende da quali due esclamazioni scegliamo per esprimere il nostro apprezzamento oppure il nostro disappunto.
La Quaresima è il tempo della nostra decisione per Dio. La Bibbia quando parla di “tempo” usa nella sua lingua originale due parole greche Kronos oppure Kairos. Il tempo che scorre, oppure il tempo della grazia.
La Quaresima è il tempo della grazia, tempo che ci permette di vivere la Pasqua come passaggio dalla morte alla vita, e ci aiuta a far crescere la nostra fede nella Parola di vita di Gesù.
Il tempo di grazia porta molte opportunità di scelta che ci possono aiutare a vivere bene la Quaresima come tempo della nostra crescita umana e cristiana: gli incontri di preghiera per i bambini e i ragazzi ogni martedì e giovedì mattina alle 7,40 in oratorio, la Via Crucis del venerdì dopo la S. Messa delle ore 17,00, il corso biblico ogni giovedì sera a Borno, ogni giorno la celebrazione dell’Eucarestia e durante la giornata, la nostra preghiera personale.
Approfittiamo di queste oasi, che non sono cose in più da fare, ma sono gli spazi di ricarica che Gesù ci offre come ha fatto con i suoi discepoli dopo la loro giornata di missione: “Venite in disparte e riposatevi un poco”. O anche l’invito che Gesù ha rivolto a tutti: “Venite a me voi tutti affaticati e oppressi e io vi ristorerò”.
Se sapremo apprezzare e vivere bene tutto questo, allora diremo: Una nuova Quaresima! E dopo un cammino impegnato di fede che ci aiuta a vivere da buoni cristiani sempre di più, potremo anche esclamare:
Buona Pasqua!
Don Mauro
Cüntòmela a OSSIMO INF.
Quest’anno ricorre il bicentenario della nascita di San Giovanni Bosco e il nostro Oratorio, che annualmente festeggia la sua memoria, ha organizzato una serata in suo onore invitando bambini, ragazzi, giovani e genitori ad essere presenti per realizzare questa iniziativa. Un gruppo di mamme che ringraziamo cordialmente, si sono impegnate, con eroica generosità, a preparare tutto il necessario per la festa. Si sono prese cura della animazione della Messa, delle iscrizioni e della pubblicità, della ricerca e raccolta dei premi per la tombola, , del necessario per la cena, del falò alla canadese, infine della direzione della serata.
A san Giovanni Bosco dobbiamo molto, specialmente l’ispirazione di istituire l’oratorio come luogo di formazione alla vita cristiana dei giovani.
Alle ore 17 abbiamo celebrato la Santa Messa nella chiesa parrocchiale in suo onore, animata con il canto e il suono di un gruppo di fantastici giovani genitori, ricordando nella omelia come già da giovane san Giovanni Bosco ha formato la “Compagnia dell’allegria” che aveva come ideale la lotta contro il peccato che è la causa della tristezza e della mortificazione dell’uomo, e quindi della privazione della vera gioia.
Oggi sappiamo quanto sia urgente e necessaria l’educazione che la Parola di Dio ci offre nel comprendere cosa sia il peccato e come identificarlo nel nostro comportamento, nei pensieri, nelle parole, nelle nostre opere e omissioni, proprio perché la nostra vita possa migliorare continuamente cercando di perseverare nel bene e cambiando il male che facciamo (per debolezza a volte anche per inconsapevolezza), in bene. Fin da bambino San Giovanni Bosco è stato educato da sua madre a prepararsi degnamente alla Confessione e alla partecipazione alla S. Messa, e un giorno gli disse: “Figlio mio, per te è stato un grande giorno, sono sicura che Dio è diventato il padrone del tuo cuore. Promettigli che ti impegnerai a conservarti buono per tutta la vita”.
Ecco allora che la serata in oratorio ha voluto essere improntata sullo stare insieme nella gioia e nella condivisione della cena e del divertimento sano, con giochi a premi organizzati. Nell’ambiente esterno il falò alla canadese, che in una serata fredda ha allegramente donato calore, luce e allegria, è stato un ulteriore diversivo per i ragazzi che si divertivano ad alimentare la fiamma portando ramoscelli e altri oggetti combustibili trovati qua e là nel prato dell’oratorio.
San Giovanni Bosco ci ha insegnato che la preghiera e la fiducia nel Signore sono indispensabili per vivere bene, per impedire al diavolo di guastare la festa della vita, e che per divertirsi non è necessario andare nelle stramberie trasgressive.
La serata si è conclusa felicemente intorno alle 23,00, tutti sono ritornati alle proprie case portando un buon ricordo fra i tanti che San Giovanni Bosco ha regalato e continua a regalare a tutti quelli che sanno “rischiare” impegnando il proprio tempo in questo ambiente pieno di sorprese che esiste grazie a lui.
Don Mauro
Cüntòmela a OSSIMO INF.
Come è bello amare! Come è bello saper amare! Come è bello imparare a saper amare! Come è bello amare ed essere amati perché è amando che si è amati. Provare per credere… Che bello amare e .donare senza pretendere o aspettarsi un ringraziamento o una ricompensa o riscontri di qualsiasi genere.
Tanti affermano che niente si fa per niente e ciò che si fa come volontariato è solo una forma egoistica di soddisfazione personale. A pensarci bene è proprio così: ad aiutare gli altri si prova una gioia indescrivibile, particolare, che mette addosso una carica tale da voler dare sempre di più. Infatti dando si è appagati dalla gioia che sprizza nei ragazzi, dall’entusiasmo che dimostrano nel divertimento e dal piacere di stare insieme.
È quello che è successo a me che, nel propormi a passare i sabati sera in Oratorio con i miei ragazzi del catechismo, ho ritrovato io stessa il senso dell’altruismo, della bellezza del gioco (forse in fondo mi sento ancora giovane e mi piace il gioco in genere). Il gioco accomuna, stimola, insegna la sana competitività fatta con correttezza e onestà. È bello sentirsi chiedere “Vieni ancora sabato sera in Oratorio a giocare?” oppure “Che belli questi giochi!“. E li vedi entusiasti e curiosi di fare sempre qualche gioco nuovo e bello. E poi penso a quelli che sono rimasti a casa, magari buttati su un letto o spaparanzati su un divano che si perdono a guardare stupidi programmi televisivi o completamente immersi in quei famigerati giochi tecnologici che impigriscono fisicamente e mentalmente. Che pena provo per loro!!! È stata una mia grande soddisfazione vedere che anche la diffidenza iniziale di mio marito (che avrebbe preferito anche lui starsene tranquillamente a vedere i programmi televisivi) si sia trasformata in un piacere ad accompagnarmi per collaborare nelle gestione dei giochi. Si è rivelato un giocherellone anche lui. In fondo, anche se siamo su d’età, nascondiamo un fanciullino dentro di noi!!!
I ragazzi sono a volte tanti e bisogna formare dei gruppi diversi che vanno controllati e gestiti, e da sola non ce l’avrei fatta. Si fanno gare e tornei e i vincitori ricevono semplici premi che spesso sono cose di cui dispone l’oratorio, cioè caramelle, bibite, gelati…
Molto belle sono state le tombolate fatte in occasione della festa di San Giovanni Bosco che ha visto coinvolti circa 40 persone. Premi di un certo valore e tanta partecipazione ed entusiasmo, tant’è che ci è stato chiesto di ripeterla almeno una volta al mese. Proposta che all’inizio è stata respinta ma che riflettendoci, fa pensare al gusto e quasi all’esigenza di riunirsi di tanto in tanto tra la propria gente in una serata fatta di spensieratezza e convivialità. I ragazzi sono educati e rispettosi e ciò facilita la realizzazione di ogni iniziativa, l’unico neo resta la mancanza di giovani che oltre a dare una mano potrebbero essere più coinvolgenti e carismatici, capaci di portare freschezza ed inventiva, quindi rivolgo a loro un ulteriore invito perché si presentino in Oratorio il sabato sera.
Io e mio marito stiamo già pensando a giochi da realizzare all’aperto quando le giornate saranno più calde e più lunghe. Su coraggio giovani diamoci una mano e una mossa. Vi aspetto!
Francesca Paradies
Cüntòmela a OSSIMO INF.
Elena Andreoli
di Annibale e Miriam Mora
6 gennaio 2015
Angela Franzoni
9-3-1927 + 12-12-2014
Luigia Franzoni
25-10-1946 + 6-2-2015
Pietro Carboniero
19-6-1935 + 5-3-2015
Cüntòmela a OSSIMO SUP.
Canne del somiere maggiore appartenente al registro di Ripieno.
Le canne dei registri Fagotto: Bassi e Trombe Soprani.
Sta finalmente avviandosi verso la conclusione, il laborioso restauro dello storico organo Bossi-Manzoni presente nella nostra bella Chiesta Parrocchiale. Durante le scorse settimane, ho effettuato un’altra visita presso il laboratorio del restauratore M. Formentelli, proprio per condividere con lui alcune impressioni circa l’autorizzazione ricevuta dalla Soprintendenza di Milano, relativa al completamento sullo strumento delle parti mancanti e distrutte nel corso del tempo. Una fase, questa, di certo non semplice e che ha comportato un nuovo studio ed approfondimento al fine di rendere possibile la costruzione delle nuove canne da integrare corrispondenti all’originale.
Per la ricostruzione delle parti mancanti pertanto (essendo molto difficile trovare altri strumenti dello stesso periodo, con le stesse caratteristiche, del medesimo costruttore, in buono stato di conservazione e soprattutto non alterate) abbiamo dovuto affrontare ulteriori ricerche.
Fortunatamente, grazie anche alla disponibilità ed agli studi fatti in precedenti lavori di restauro su vari organi, è stato possibile recuperare le informazioni per integrare le parti mancanti del nostro strumento.
Ora pertanto, il lavoro è in fase conclusiva; presso il laboratorio è iniziato l’assemblaggio di tutte le canne sul loro somiere per una prima accordatura generale prima di trasportare definitivamente il manufatto in Chiesa.
Nelle foto si vedono una parte delle canne montate al loro posto, presso la bottega Formentelli. Qui vengono fatte ripetutamente suonare al fine di approntare una prima accordatura generale.
Tale intonazione verrà poi ultimata solo e soltanto in Chiesa, per trovare la giusta armonizzazione d’insieme, proprio nel luogo che rimarrà per molti decenni la sede definitiva entro la cassa lignea della cantoria di destra. Sarà il lavoro che può sembrare forse più semplice ma che l’organaro considera come il più delicato e complesso perché si dovrà ottenere il massimo della resa e qualità acustica, prima canna per canna e poi per tutto l’insieme degli elementi restaurati.
Sentiremo presto il risultato, finalmente!
Luca Bardoni
Cüntòmela a OSSIMO SUP.
Entrando nella nostra Chiesa Parrocchiale ed alzando lo sguardo verso l’altare maggiore, subito si nota la pala che l’abbellisce, commissionata dalla fabbriceria verso la metà dell’ottocento. La bella tela a olio concepita dall'esinese Pittor Antonio Guadagnini contiene il Cristo morto in cielo sorretto dalla Vergine Maria con ai piedi i Santi Patroni Gervasio e Protasio in atteggiamento di adorazione.
Per meglio descrivere la sua storia, riporto qui sotto brevemente quanto pubblicato dalla Parrocchia di Ossimo Superiore nel mese di Giugno del 2006 proprio in occasione della festa patronale, e contenuto nella pubblicazione intitolata “Il culto dei Santi Gervasio e Protasio e le origini della chiesa di Ossimo” a cura di Oliviero Franzoni.
…anche in precedenza esistevano dipinti con le figure dei due martiri. Se ne ha riprova, ad esempio, con la disposizione ordinata nel 1664 dalla benefattrice Maria Tedeschi nella quale è contenuta la volontà di assegnare un primo finanziamento da impiegare inizio all'esecuzione di un quadro, per dotare il presbiterio, riproducente la Vergine Maria con il Bambino, i Santi Gervasio e Protasio e le Sante Caterina e Orsola. Il 4 gennaio 1840 il parroco e la fabbriceria ossimese, preso atto "dell'evidente logorazione dell'attuale quadra che ora serve per palla sopra l'altare maggiore di questa chiesa, riscontrandosi inoltre indecente trattandosi di essere esposto nel sacro tempio", ne stabilirono la sostituzione con una rinnovata tela avente per soggetto il Cristo in pietà e i Santi Gervasio e Protasio.
Il vecchio dipinto era infatti divenuto "tutto lacero e deforme", sconcio e ormai quasi illeggibile. Il 30 marzo il consiglio comunale prese la decisione, a maggioranza, di erogare un congruo sostegno in denaro all'iniziativa (pari a 800 lire), poiché la stessa si presentava pienamente rientrante nelle "spese di culto, fra le quali sonvi quelle del mantenimento della chiesa, del campanile, delle campane, dell'orologio e precisamente dell'altare maggiore" previste a carico dell' amministrazione civica in base ad antica determinazione risalente al 21 agosto 1695, presa dall'assemblea vicinale.
Nel frattempo, era stato proposto per l'affidamento dell'incarico il nome del giovane pittore camuno Antonio Guadagnini, all'epoca alunno frequentante la prestigiosa Accademia Carrara di Bergamo. Il 17 Aprile 1843 venne stipulata regolare scrittura di contratto tra la fabbriceria e l'artista esinese che si mise subito al lavoro, poiché nel Giugno del 1843 annotava di aver "terminato la parte più difficile che è il Nazareno. Ora non mi mancano che i due santi". In luglio l'opera era praticamente compiuta, come si evince dal dettato di una lettera scritta dal pittore al cugino sacerdote don Paolo Federici (Esine 1805-1878).
Eccone il testo integra1e: "Bergamo lì 3 luglio 1843. Sig. D. Paolo Preg. mo, Finalmente il quadro è al termine. Non mi resta che di ripassarlo. Per la metà del mese sarà all’ordine. Il professor Diotti si dimostra tutto contento di questa mia opera, e dispostissimo a farmi un collaudo onorevole. Mi disse che se toccasse a lui stimare anche il valore lo giudicherebbe non meno di cento zecchini. Non voglio dire di aver meritata questa somma, ma se volessi computare tutte le spese un pò al minuto sono certo che colle 650 svanziche che percepisco mi riduco a zero col guadagno. Ho però caro piuttosto che il vantaggio resti dalla parte dei committenti di quel che dalla mia. Vorrei almeno che questa opera mi procacciasse qualche altro lavoro più lucroso perché vorrei comperarmi il fabbisogno per l'arte e specialmente un manichino per le pieghe che è necessarissimo.
Adesso veniamo alla morale. Io non ho sempre lavorato in tutto questo tempo, ma ho anche mangiato, bevute e dormito. In conseguenza ho anche un pò di conto da pagare alla mia locandiera: e questo conto non è tanto piccolo perchè monta a sette napoleoncini d'oro. Se ella potesse trovarmeli ad imprestito fino al mese di ottobre (che allora debbo riscuoterli) sarebbe cosa ottima. Se poi non potesse, vorrei pregarlo a scrivermi subito perché in questo caso bisogna pensare qualche cosa. Per esempio gli manderei il collaudo del quadro perché ella lo spedisca alla Fabbriceria dì Ossimo per avere la somma sopradetta anche prima della consegna del quadro: abbenchè non siamo d'accordo così. Veramente questo progetto non mi pare troppo felice: ma i dinari mi abbisognano e presto avendo anch'io un pò di puntiglio di lare il galantuomo ora che comincio a guadagnare qualcosa. In somma mi suggerisca qualche bel partito ma presto, subito, sul momento perché io sono qui con tanto di luna nel capo ed ella lo sa come son brutto quando ho la luna.
La lettera la farà consegnare al Colombo da mio fratello che mi sarà portata fedelmente. Dunque la aspetto. Di mia salute non posso darle buone nuove finché non ho di quel metallo. Desidero buone nuove di lei, della sua Sig.ra Madre e degli amici e dei miei di casa. Arrivederci dopo la metà d'agosto. Suo servo Antonio".
Alla stesura dell'atto di collaudo vennero delegati due compagni di lavoro del Guadagnini, il cremonese Giuseppe Diotti (Casalmaggiore 1779 - Bergamo 1846) e l'orobico Enrico Scuri (Bergamo 1805 - 1884). Il primo svolgeva, dal 1811, le funzioni di affermato insegnante presso la celebre scuola della Carrara, dedicandosi a dipingere quadri soprattutto di soggetto storico e di tema religioso; il secondo, suo allievo, gli succederà nel 1846 nell’incarico di direttore della stessa Accademia. Entrambi furono concordi nel giudicare assai buona la qualità del quadro, al punto "che il prezzo convenuto in lire 825 è di molto al di sotto del reale merito del medesimo, di cui ebbero già a riconoscere i pregi".
A metà ottobre il dipinto venne consegnato nelle mani dei committenti che lo ricevettero rilasciando un consenso singolarmente favorevole.
Scriveva infatti il Guadagnini al parente don Paolo sotto la data del 30 novembre: "Ho fatto ridere il professore Scuri narrandogli l'accoglienza fatta da quei di Ossimo al mio quadro e le lettere scrittemi. Già è un soggetto da commedia".
L'11 novembre 1843 il commissario distrettuale della sede di Breno, il dottor Giovanni Bongiovanni (Casalmaggiore 1801 c. - Breno 1848), autorizzava la tesoreria comunale a firmare e staccare la cedola di pagamento del contributo accordato a favore della fabbriceria, la quale aveva già provveduto a versare "in via di anticipazione qualche acconto al fornitore signor Guadagnini". Tutta l'operazione venne seguita e appoggiata dall'arciprete del luogo, il sacerdote don Carlo Rizza (Pescarzo di Gemmo 3 marzo 1784 - Ossimo Superiore 31 marzo 1849)”.
La bella tela di Ossimo venne dipinta dal pittor Guadagnini nel 1843, all’età di 26 anni. Il famoso Pittore Antonio Guadagnini ha lasciato in Vallecamonica e non solo, svariati esempi della sua arte. Bella e suggestiva, per esempio, la grande pala dell’altar maggiore raffigurante la “Conversione di San Paolo” dipinta nel 1854 proprio a Esine, suo paese natale.
Fu amico e ospite dei nobili Sessa (per i quali realizzò diverse opere) presso la tenuta Ravajola ad Arzago d’Adda. Morì il 7 Giugno del 1900; i Sessa concessero la tumulazione dell’artista nella loro cappella di famiglia.
L. Bardoni
Cüntòmela a OSSIMO SUP.
Elisa Lazzaroni
di Fabio e Annalisa Gheza
8 febbraio 2015
Andrea Zerla
di Aldo e Monica Bottichio
11 gennaio 2015
Anna D'Agostin
20-12-1935 + 13-12-2014
Pubblichiamo la lettera con cui la Madre Vicaria delle suore Dorotee informa della scomparsa avvenuta, lo scorso 2 febbraio, di SUOR AURORA POLI che ha svolto il suo apostolato anche a Ossimo Superiore per 10 anni (dal 1 ottobre 1952 al 31 agosto 1962).
Brescia, 2 febbraio 2014
Carissime sorelle,
"Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza". (Lc 2, 29-30)
Oggi, Festa della Presentazione al Tempio e giorno in cui la Chiesa celebra la Festa dei Consacrati, suor Aurora ha pronunciato davanti al Signore che si è rivelato a lei, le stesse parole di Simeone con la stessa fede e lo stesso grande desiderio. Proprio all'aurora di questo giorno è venuto per lei il momento tanto desiderato e molto preparato in tutta la sua vita, ma particolarmente in questi lunghi mesi passati in Casa Angeli o in ospedale per la crescente fragilità della sua salute.
Il suo cuore malato non le ha impedito di farsi conoscere come sorella delicata, precisa, fedele alla preghiera, custode dell'interiorità.
Si può dire davvero che il Signore ha affinato la sua vita come si libera da ogni scoria l'oro e l'argento e l'ha resa gradita a Lui come dono prezioso. E mentre questo lavorio avveniva con il sapore della quotidianità e della fatica, lei sentiva diventare sempre più grande, e sopra ogni altro, il desiderio dell'Incontro con Lui. E lo diceva con tanta semplicità.
Insieme alla delicatezza e a un tratto riservato e gentile, suor Aurora coltivava dentro di sé anche una capacità di decisione molto forte per la scelta Unica della sua vita e per le espressioni concrete e quotidiane che questa le richiedeva. Già nel momento della sua prima risposta alla chiamata del Signore aveva dimostrato grande forza e decisione, arrivando a Cemmo nonostante il pensiero contrario dei suoi amati genitori che tentavano di ostacolare il suo percorso per la sofferenza e la paura di perderla.
Ci teneva davvero alla fedeltà al Signore che è espressione d'amore anche nelle piccole cose. Esprimeva il senso della cura anche nel modo con cui teneva le sue cose personali, la sua stessa persona, l'ambiente in cui svolgeva la missione a lei affidata, la scuola materna prima, la portineria poi, gli ambienti della comunità....
La sua missione apostolica è stata quasi sempre tra i piccoli, passando nelle scuole materne di vari paesi e arrivando poi a Brescia, nella scuola materna di Via Agostino Gallo dove è stata presente per ben 17 anni. Lo stare tra i bambini le permetteva di esprimere la dolcezza che aiuta a crescere, insieme all'accompagnamento che sa chiedere i giusti passi quotidiani con costanza.
Era molto apprezzata anche dalle famiglie, particolarmente per la sua capacità di essere vicina ai bambini con qualche difficoltà.
Nelle varie comunità in cui è passata, a volte anche con l'incarico di superiora, suor Aurora sapeva esprimere la sua presenza non con tante parole, ma soprattutto con la sua disponibilità e generosità in tanti piccoli servizi che potevano essere di aiuto.
Non amava parlare molto della vita interiore che custodiva e lasciava comunque trasparire. Nei pochi scritti che ci ha lasciato, per lo più appunti ordinatissimi di qualche Ritiro o Esercizi Spirituali che avevano particolarmente toccato la sua vita, troviamo solo pochissime sue espressioni e sempre in questa direzione: "Solo per amore di Gesù... Amare e pregare anche quando non sentivo nulla: lì il Signore c 'era.... Quando le cose vanno all'ingiù, pensa di meno e prega di più.... La mitezza è l'ingrediente che serve nella comunità.... Nel Vangelo anche i piccoli personaggi hanno il loro significato... A te mi affido, prendimi, cambiami, fammi tutta tua...".
C'è però una pagina intera intitolata così: "Il salmo mio: n. 151"
"Signore ti lodo e ti benedico per avermi dato la vita, per avermi dato la grazia, per avermi dato una famiglia cristiana, per essere stata educata e istruita nella vita cristiana, per avermi chiamata alla vita religiosa che ho tanto amato. Signore ti lodo e ti benedico per avermi dato sorelle e superiori edificanti in santità. Ti ringrazio per i tanti Sacerdoti che mi hanno fatto del bene e dato il tuo perdono nel sacramento; per le tante sorelle edificanti in comunità, per il tanto amore, rispetto e comprensione ricevuto dalle persone che ho incontrato nella vita; per le cose belle e faticose che ho incontrato nella vita. Signore, Tu sei grande perché mi sei sempre stato vicino per incoraggiarmi e per aiutarmi a perdonare. Signore, Tu sei il mio bastone e il vincastro che mi dà sicurezza nel cammino. Signore, Tu sei il mio Unico amato, il mio Re, il mio Sposo, il mio Padre, il mio Tutto".
Ricordiamo così questa nostra sorella. La sua preghiera intensa sicuramente continuerà dal cielo per tutte noi, per i suoi familiari, per la gente di Vallio a cui si sentiva affezionata. La sua preghiera sarà anche il grazie più bello per tutti quelli che con amore l'hanno assistita nella sua malattia.
Con affetto saluto ciascuna, unite nella preghiera di suffragio e soprattutto nella preparazione alla Festa di S. Dorotea che è sempre per noi un invio rinnovato ad essere "dono di Dio" per tutti.
Vincenzina Zagon, Madre Vicaria
Cüntòmela a LOZIO
Teoria del GENDER e omosessualità
All’interno del Diploma di Perfezionamento in Bioetica della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, lo scorso sabato 29 novembre è stata aperta al pubblico la lezione sul tema "Teoria del Gender: storia e fondamenti". Di seguito presentiamo un’intervista fatta alla prof.ssa Giorgia Brambilla, in occasione del suo intervento durante la seconda parte della lezione dedicata agli aspetti scientifici e bioetici dell’omosessualità.
Dalla differenza all’indifferentismo sessuale: quali sono le origini di questo dibattito?
Chi sostiene che non esista una vera differenza tra uomini e donne crede che il corpo è sì sessuato, ma questo non è determinante. Ciò che conta è come la persona si sente. E la differenza maschile/femminile sarebbe una differenza esclusivamente culturale, cioè gli uomini e le donne sono tali perché da bambini siamo stati educati così. Storicamente, vi è stata l’influenza di varie correnti. Per citarne alcune: il permissivismo edonista e il suo slogan “al sesso non si comanda!”; il pansessualismo di Freud che riconduceva le nevrosi e le sofferenze della personalità alle repressioni della sessualità; il rapporto Kinsey, secondo cui il sesso è un mero meccanismo legato a certi stimoli e dunque non ha senso dire in ambito sessuale che una cosa è sbagliata o che non è normale; la rivoluzione sessuale che ha portato a ridurre il sesso alla mera istintualità. Il filo conduttore consiste nell’idea che l’uomo debba essere liberato e che questo si possa fare attraverso la liberalizzazione del sesso. Il neomarxismo poi, specialmente con Marcuse, ha esteso la liberazione alla sfera della eterosessualità, parlando di “libera scelta del sesso”. Quest’idea, insieme anche alla spinta ideologica di Simone de Beauvoir, è confluita nella costituzione dei cosiddetti “cinque generi”: maschile, femminile, omosessuale maschio, omosessuale femmina, transessuale. Il femminismo ha poi imposto l’idea che fosse proprio la differenza dei sessi a provocare l’inferiorità sociale della donna e che i ruoli dell’uomo e della donna, anche all’interno della famiglia - per nulla naturali ma solo culturalmente indotti - costituirebbero una grave ingiustizia. La vera conquista ideologica e sociale sarebbe il passaggio dal “sex” all’“unisex”. Ne fu emblema anche l’abbigliamento: jeans e maglietta vanno bene per tutti, maschi e femmine. Non ci sono punti fermi, non ci sono dati di natura, validi per l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo. Panta rei, tutto scorre: siamo arrivati a capire che il pensiero multigender ha un’eredità gnostica ed è intriso di relativismo.
Si è sessuati per natura o per “cultura”?
Fin dal concepimento siamo maschi o femmine e dal sesso genetico si forma il sesso gonadico, ormonale e morfologico e nel tempo anche il sesso psichico coerentemente con il sesso fisico, se nulla interviene a modificare questo sviluppo naturale. La sessualità, l’essere uomini o donne, è una dimensione costitutiva della persona, è un suo modo di essere, di manifestarsi, di comunicare con gli altri, di sentire, di esprimere e di vivere l’amore umano. Ritenere che la corporeità non abbia un peso nella realizzazione piena della persona, fino ad affermare una sorta di neutralità sessuale dell’individuo, ci fa cadere in una visione dualistica e riduttivista del corpo e della persona. La differenza sessuale è originaria e – sebbene l’ambiente educativo abbia un peso – precede l’educazione stessa e gli influssi culturali e genitoriali. Basta studiare lo sviluppo neurofisiologico del bambino per rendersi conto che le attitudini genere-specifiche sono innate e non derivano dal tentativo di corrispondere ad un genere “preimpostato”. Chiunque ha figli o lavora con i bambini sa che il bambino si comporta “da maschio” o “da femmina” prima ancora di riconoscersi in un genere. E questo è dovuto a delle differenze a livello biologico innate che segnano una strada preferenziale nello sviluppo. Resettare queste differenze, come si vorrebbe fare nelle scuole attraverso un’educazione sessuale che considera il bambino una specie di “tabula rasa” nei riguardi della propria identità sessuata, non può che andare a discapito del bambino stesso: questa è la vera violazione dei diritti dell’infanzia oltre che una prepotente manipolazione dell’armonico sviluppo del bambino.
Alla luce di tutto questo, dove e come collocare l’omosessualità all’interno del quadro della sessualità umana?
Le affermazioni “quest’uomo è omosessuale”o “questa donna è lesbica” danno l’idea che la persona in questione appartenga a una variante della specie umana, diversa dalla variante eterosessuale. Le conoscenze di cui disponiamo ci indicano che le persone con inclinazioni omosessuali sono nate con la stessa dotazione fisica e psichica di chiunque altro e che omosessuali non si nasce. E neanche lo si diventa. Nelle mie lezioni insisto molto su questo aspetto. Semmai si può parlare di persone, uomini o donne, che hanno – a seconda dell’intensità – sensazioni, tendenze e/o comportamenti omosessuali. Sul piano epistemologico, infatti, non è possibile parlare delle diversità sessuali, ma solo della diversità sessuale, perché la diversità sessuale è una sola ed è irriducibile: quella tra uomo e donna. Sebbene, in maniera ciclica, spuntino sui giornali notizie, come in questi giorni, su basi genetiche dell’omosessualità, andando a fondo si comprende facilmente la realtà dei fatti: l’uomo e la donna con tendenze omosessuali sono un uomo o una donna per determinazione genetica e hanno tendenze omosessuali per acquisizione.
Per Van Den Aardweg il fattore determinante per lo sviluppo dell’omosessualità è rappresentato dal rapporto intessuto con i propri simili all’inizio dell’età adolescenziale, rapporto che rappresenta una componente decisiva nello sviluppo della personalità, e cioè la visione che l’adolescente ha di sé come maschio o come femmina. Una cattiva integrazione nel gruppo dei coetanei dello stesso sesso e un senso profondo di esclusione farebbero maturare nell’individuo frustrazione e quindi un complesso d’inferiorità quanto alla propria mascolinità o femminilità. Una realtà che, ci tengo a precisarlo, nasce dall’intimo della persona e non dall’esterno quasi fosse causata da esclusione o denigrazione. Gli atti discriminatori – che laddove ci fossero sono da considerare sempre e in ogni luogo deplorevoli – in realtà non causano questo complesso e vanno considerati in quanto tali. Invece, tale è la confusione nel dibattito, che siamo arrivati al punto che chiunque osi mettere in discussione slogan, proposte di legge, o proposte didattiche su questo argomento è messo a tacere a volte in termini ideologici, a volte con mezzi più meno intellettuali (basti pensare a quanto subiscono regolarmente le Sentinelle in Piedi o al linciaggio mediatico di questi giorni di alcuni insegnanti di Liceo), il tutto intriso di inestinguibile vittimismo dei militanti gay.
Che peso può avere sull’identità sessuata il rapporto con i genitori?
Oltre a quanto spiegato, mi permetto di aggiungere un fattore antecedente, quasi una “preomosessualità” che dipende dai genitori e, in particolare dal genitore dello stesso sesso secondo tre aspetti.
Il primo riguarda la presenza della differenza. Ognuno di noi costruisce la propria personalità confrontandosi con identità e differenza. Da un lato il bambino comprende se stesso imitando il genitore dello stesso sesso, dall’altro osservando quello del sesso opposto. E questo avviene non solo a livello cognitivo, ma prima di tutto emotivo e affettivo: vedo e “sento” che mamma mi parla, mi coccola, gioca con me in un modo diverso da come lo fa papà e anche che mamma e papà si relazionano alle stesse persone, per esempio agli amici, in modi diversi. E non solo perché hanno caratteri diversi; perché noto che il modo di fare della mamma è molto più simile a quello della maestra piuttosto che a quello del nonno o dello zio. L’assenza di un genitore o la mancanza della diversità (come nel caso della “omogenitorialità”) ha dunque delle conseguenze, come spiegato da ampia letteratura sull’argomento.
Il secondo punto riguarda le abilità sociali. Saper giocare come giocano i coetanei dello stesso sesso aiuta ad apprendere le modalità relazionali tipiche dei pari e ad essere “riconosciuti” dai bambini dello stesso sesso. E il tutto avviene nella piena spontaneità. È esperienza comune arrivare in una classe della scuola dell’infanzia e trovare i bimbi che giocano divisi tra maschi e femmine. E questo non perché una “maestra omofoba” glielo ha imposto, ma semplicemente perché maschi e femmine hanno attitudini al gioco differenti. Si ricordi il flop dei vari esperimenti delle “Gender theories” di dare il camion alle bambine e le bambole ai bambini. Risultato? Le bambine giocavano con i camion a “mamma-camion” che cambia il pannolino a “baby-camion” e i maschi prendevano a “sbambolettate” i compagni. Dunque, il genitore giocando col bambino lo aiuta ad interagire con disinvoltura con i bambini dello stesso sesso, evitando quel complesso d’inferiorità che si genera in adolescenza che secondo vari studiosi sarebbe proprio alla base della genesi delle sensazioni omosessuali. Quest'ultime partono da una idealizzazione dei tratti riconosciuti come non propri degli individui dello stesso sesso fino all’attrazione erotica verso di essi.
Il terzo riguarda i genitori come coppia che si ama nel rispetto sereno e gioioso dei ruoli. Ruoli, tutt’altro che artificiali o svilenti – e meno che mai imposti! – che ancora una volta sono manifestazione naturale della propria indole di maschio o femmina nel rapporto con se stessi e con il mondo e mezzo per amarsi profondamente nell’accoglienza reciproca, proprio quella che non si spiega a parole ma che costituisce l’habitat in cui i figli sono immersi – mi passi il linguaggio – come dei pesci in un acquario.
Diverse scuole di psicanalisi sottolineano, in merito alle principali cause riscontrabili all’origine dell’omosessualità il tema del padre assente. “Assente” è da intendersi non propriamente nel senso fisico di non presente, quanto piuttosto estromesso, il più delle volte dalla moglie, dalla vita familiare, espropriato del suo ruolo di capo forte e premuroso.
Oppure denigrato o umiliato a parole o nei fatti dalla moglie stessa, spesso di fronte ai figli. E la “madre-tipo” che emerge è quella prevaricatrice nei confronti del marito, molto ansiosa e preoccupata, spesso dominatrice ma senz’altro molto insicura, proprio perché priva di qualcuno, un uomo, che la guidi e la sostenga.
Cüntòmela a LOZIO
C’era una volta una famiglia composta da un papà, una mamma, una bambina e un cane husky che guidava la slitta e faceva la guardia. Abitavano in una casetta vicino al laboratorio di Leonardo da Vinci.
Questo laboratorio era pieno di invenzioni e c’era anche una macchina del tempo e una macchina a forma di riccio spaventoso con le lucine rosse sulla schiena.
Un giorno, mentre Leonardo da Vinci dormiva, la famiglia, incuriosita dalle invenzioni, entrò nel laboratorio. Quella che gli piacque di più era la macchina del tempo: il papà schiacciò un bottone giallo e all’improvviso la macchina partì con loro a bordo e li portò nella preistoria.
Appena arrivati incontrarono un t-rex enorme, verde e grigio con gli occhi rossi.
Schiacciarono un bottone blu e dal baule della macchina del tempo uscì un “gippone” col quale scapparono nel bosco. Nel “gippone” c’era un robot che era stato messo lì da un inventore cattivo, nemico di Leonardo da Vinci, per sabotare la macchina del tempo.
Anche l’inventore cattivo era nella preistoria e c’era arrivato con la sua magia e voleva che il robot li portasse fino alla fine del mondo.
Ad un certo punto però nel bosco trovarono davanti a loro un albero caduto, ci passarono sotto e trovarono dall’altra parte un gruppo di brontosauri che li salvarono dal robot cattivo portandoli nella loro caverna buia.
Però l’inventore cattivo aveva una moto con dietro settanta carri che trasportavano i t-rex.
I t-rex volevano entrare nella grotta per prendere la famiglia, ma arrivò uno pterodattilo che li caricò sulla schiena per salvarli.
Li portò fino ad un ascensore magico dove c’erano delle tigri con i denti a sciabola a fare la guardia.
La famiglia entrò nell’ascensore e tornò a casa. Leonardo da Vinci disse: “Non dovete schiacciare più pulsanti che non conoscete, altrimenti vi mettete in pericolo”. La famiglia promise di non entrare più nel laboratorio senza il suo permesso. Il cattivo rimase nella preistoria con i dinosauri e le tigri con i denti a sciabola.
I bambini
della scuola materna di Lozio
Cüntòmela a LOZIO
I recenti fatti che hanno colpito l’Europa con l’attentato alla sede parigina della rivista satirica Charlie Hebdo, hanno riportato in evidenza il problema del rapporto tra mondo moderno e religioni ed in particolare il problema del dialogo con la religione islamica.
Molti anche dentro la chiesa cattolica si riempiono la bocca delle parole dialogo, ecumenismo, dialogo interreligioso, amicizia tra le religioni, quasi che ciò sia la cosa più naturale di questo mondo e che realizzare questo intento fraterno sia solo questione di buona volontà che manca. Ma il problema è da che parte manca questa buona volontà e soprattutto se c’è vera volontà di incontrarsi e capirsi.
Dopo i fatti di Parigi tutti sono stati concordi nel condannare gli autori di quello spargimento di sangue, ma molti si sono subito affrettati a riaffermare che il vero Islam non è quello violento e guerrafondaio degli attentati e delle guerre in Siria, in Irak, in Nigeria, in Libia, nelle Filippine, ed in altre regioni del mondo dove si vuole introdurre la legge della shari’a, la legge islamica. Invece, a ben guardare, questa indole violenta non solo non è assente, ma è parte integrante della religione musulmana.
Lo ricorda chiarissimamente Samir Kalil Samir, un gesuita studioso dell’Islam, del rapporto tra questa religione, cristianesimo e mondo contemporaneo.
In un suo recente articolo egli ricorda alcune fondamentali differenze tra Islam, cristianesimo e civiltà moderna che di fatto riducono fortemente gli entusiasmi per un possibile dialogo alla pari.
Anzitutto i musulmani, pur essendo monoteisti come ebrei e cristiani, non hanno la stessa concezione del Dio unico. Una prova ad esempio è che in Indonesia, il più popoloso paese islamico al mondo, è severamente vietato per legge usare il termine Allah a ogni confessione che non sia l’Islam, quando di per sé Allah traduce il termine Dio, che è comunemente usato anche nella preghiera cristiana. La concezione musulmana poi è caratterizzata dalla visone di un Dio inaccessibile, mentre quella cristiana, nella S.S. Trinità vede in Dio l’amore che si comunica tra il Padre, il Figlio, e lo Spirito Santo. Si parla nell’Islam della misericordia di Dio, ma è una misericordia che si china sul povero per concedergli qualcosa mentre il Dio cristiano è Colui che scende verso il povero per innalzarlo al suo livello. Non è un Dio che mostra la sua potenza e ricchezza per essere rispettato e temuto, ma in Gesù incarnato nell’umanità, dona se stesso per far vivere il povero.
Si dice anche che il Corano conserva molti insegnamenti cristiani. Se ciò può essere vero in parte, perché ad esempio si parla della Annunciazione o di altri fatti dei vangeli canonici, è anche vero che più spesso il Corano fa riferimento ai Vangeli Apocrifi, (che non sono ammessi nella fede cristiana) e senza dare a queste testimonianze un senso teologico, come invece si dovrebbe fare.
Anche la figura di Cristo è vista in modo non corrispondente alla nostra fede. Gesù è visto come un grande profeta, famoso per i miracoli compiuti per i poveri e i malati, ma non è certo come Maometto, che è ritenuto il più grande dei profeti. Anzi, ciò che si dice di Gesù nel Corano è proprio il contrario di quello che afferma la nostra fede. Egli non è il Figlio di Dio e non è nemmeno il più autorevole dei profeti perché Maometto lo supera in tutto e la Rivelazione cristiana è solo una tappa verso la rivelazione ultima portata dal profeta, cioè l’Islam.
Il Corano di conseguenza condanna tutti i dogmi di fede cristiana. Si condanna Cristo come seconda persona della Trinità. Si nega la divinità di Cristo. Si nega la Redenzione, addirittura si afferma che Cristo non è morto in croce, sostituito invece da un sosia perché gli fosse evitata la cattiveria dei Giudei. Così però è negato che Cristo abbia salvato il mondo. Sono negati i dogmi della Trinità, della Incarnazione, della Redenzione, e se nel Corano anche Gesù è citato positivamente, è pur vero che lo si fa per esaltare ancora di più Maometto, il vero e massimo profeta che riceve tutta la rivelazione divina. Ed anche Maria, molto venerata dalle donne musulmane, è citata per mostrarla come esempio di “buona musulmana” e non certo come la Madre di Dio.
Il punto più dolente però, è la concezione dell’etica musulmana, assai diversa dalla cristiana.
Intanto, l’etica musulmana non è universale come lo è la cristiana. L’obbligo di aiuto nella nostra fede non ha limiti, mentre nell’Islam si è tenuti ad aiutare solo coloro che condividono la stessa fede. Paesi anche ricchissimi come l’Arabia Saudita, non si impegnano che per i propri correligionari islamici e non fanno nulla per altre nazionalità non islamiche. Ciò è evidente quando succedono disgrazie e calamità, dove il mondo soccorre chi è schiacciato dalla tragedia, ma ciò non accade da paesi islamici quando ad essere colpiti sono paesi di altre religioni.
Altra differenza è che l’Islam ha un’etica legalista. Significa che si è nel giusto se si osserva la regola e quanto basta perché sia visibile dall’esterno. Il digiuno del Ramadan, per esempio, deve essere fatto dall’alba al tramonto perché la regola dice così. Non importa se poi dal tramonto all’alba il musulmano mangia più degli altri giorni ed i cibi migliori. L’importante è che di giorno non si mangi e di notte si può fare ciò che si vuole. E che senso può avere questo digiuno? Così è anche riguardo alla poligamia.
Al musulmano è permesso di avere fino a quattro mogli. Se ne vuole avere una quinta basta ripudiarne una, magari la più vecchia, e prenderne una più giovane e uno è a posto in coscienza perché la regola lo permette. È così perché l’Islam non distingue la dimensione spirituale e religiosa dalla dimensione sociale, culturale e politica. Ciò che ne risulta è un tutt’uno, con l’effetto che ciò che nella fede cristiana è peccato ma non è un reato (per es. l’omosessualità) nell’Islam diventi un crimine che può essere punito anche con la morte.
Il tema della violenza nell’Islam diventa spesso drammatico quando essa sfocia nell’azione dei fondamentalisti islamici. Tuttavia si giustifica sempre una benevolenza verso tutto l’Islam dicendo che il vero Islam non è violento. Si dimentica però che lo stesso Corano non solo mostra benevolenza verso la violenza, ma favorisce addirittura la diffusione del modello di conversione di Maometto, il quale nei suoi propositi di espandere l’Islam a forza ha condotto più di sessanta guerre.
Non sorprende perciò che là dove si vuole esportare il modello maomettano si giustifichi l’uso della violenza, l’intimidazione, le fatwe, le guerre, come del resto accade in paesi musulmani, dove ci si combatte anche tra fazioni diverse di correligionari come gli Sciiti ed i Sunniti.
In Oriente si comprende molto bene che il terrorismo islamico è motivato religiosamente, con abbondanti citazioni del Corano, preghiere, sermoni, fatwe, cioè ordini di imam che spingono alla violenza, nelle loro predicazioni. Questo può accadere perché nell’Islam non c’è un’autorità centrale che corregga le manipolazioni e non permetta che qualsiasi sedicente capo religioso si creda un’autorità nazionale in grado di emettere ordini che portino perfino ad uccidere.
Il vero problema del mondo islamico è la “adeguata interpretazione” del testo sacro. Toccare questo argomento è un tabù perché gli islamici credono che il Corano sia sceso su Maometto completo e nella forma che conosciamo e perciò è intoccabile. Reinterpretare il testo sacro, aggiornandolo perché parli al mondo di oggi è un problema per tutte le religioni, ma è semplicemente assurdo per l’Islam, il cui fondamentalismo prima che negli attentatori, è presente nelle stesse autorità garanti della retta fede.
Finché non si accetterà il concetto di “ricerca del senso” che avevano le prescrizioni storiche del Corano sarà ben difficile che cambi il modo con cui questa religione si approccia alla diversità del mondo di oggi e con i moderni mezzi di guerra che ormai molti gruppi religiosi musulmani possiedono sarà davvero un’impresa arginare la violenza estremista che fa del Corano il suo scudo e la sua giustificazione. Che l’unico Dio misericordioso ce la mandi buona.
Don Francesco
Cüntòmela a LOZIO
Durante le feste natalizie il nostro Gino Vanoli ci ha regalato un insieme di emozioni eccezionali con il suo presepe allestito presso il Centro Diurno Anziani di Lozio, nella frazione Laveno.
Una passione coltivata sin da piccolo, in effetti è stato vincitore a soli 10 anni del concorso presepi di Malegno! Ogni S. Natale realizzava sacre rappresentazioni per la gioia delle sue meravigliose figlie Miriam e Daniela, della moglie Emilia e per tanti amici e conoscenti che visitavano la sua opera. Da qualche anno Gino ha trasferito il suo allestimento a Lozio, dove la moglie svolge un prezioso servizio di volontariato e, visto l'interesse riscosso, questo natale lo ha arricchito con 70 statuine in movimento che riproducono la vita dei contadini e dei pastori riportando quell'atmosfera magica della notte in cui nasce Gesù Salvatore.
Le statuine sono meticolosamente create da Gino con tecniche elaborate da lui stesso, ci sono i pastori che mangiano un pezzo di formaggio con il loro cane che muove la coda perchè anche lui ne vuole, lo spazzacamino, i minatori, i panettieri, la sarta, il fabbro, un'incantevole massaia che batte il materasso, un'altra che spenna un pollo e due romantiche tortore che covano nel loro nido. Quello che colpisce è l'abilità di Gino nel creare delle scene di vita quotidiana che captano i particolari più nascosti trascinando il visitatore in una magia di vero stupore.
Tutto questo sappiamo che è frutto di passione ma anche di tante ore di lavoro e di buone capacità tecniche, è stato però premiato con numerosissimi visitatori ed ammiratori.
"Bravo Gino! Sei un genio! Continua a dare buon esempio nel mantenere una così bella tradizione".
Clelia
Cüntòmela a LOZIO
Ugo Ballarini
14-10-1962 + 20-12-2014
(San Nazzaro)
Cüntòmela con i MISSIONARI
Sono venuto per servire
Per non perdere il vizio di rompere... anche quest’anno poche righe per la Quaresima. “Il Figlio dell’Uomo è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la vita in riscatto per molti” (Mc 10,45).
Una vita che riscatta vite! Il Crocifisso come servo della sofferenza. La morte che libera dalla schiavitù, offrendo la dignità di servire come solo Dio sa servire. Dio servo, Gesù Cristo offre/concede ad ogni battezzato il dono di servire i fratelli e le sorelle (cfr guarigione della suocera di Pietro 5? dom. per annum).
Quaresima è tempo di apertura al mistero della sofferenza e della morte, della croce e del Crocifisso (l’inchiodato alla croce ). In Lui siamo condotti alla grazia della vita piena, alla risurrezione: resurrezione, trasformazione nel mistero del dolore, della morte e della croce. La Quaresima, cammino di identificazione a Cristo, ci chiede digiuno, preghiera e elemosina.
Digiuno è un astenersi, uno svuotarsi e un aprirsi. Nel vuoto di sé siamo fecondati dalla soavità della gratuità. Gesù Cristo, completamente svuotato di sé, è offerta dolce e sofferente al Padre: “nelle tue mani affido il mio spirito”. Col digiuno siamo riammessi, reintegrati.
Preghiera è vicinanza, nuova relazione, esposizione; ricerca per raggiungere “l’amorosità ”/tenerezza di Dio. Una quasi supplica di affetto e di amore: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!”. Alla ricerca del cuore del Padre. Quanta intimità!
Elemosina, condivisione di vita, attenzione amorosa, libertà di donare e di servire. L’elemosina è essere inviati verso il prossimo. Vero incontro con quelli che la società e lo Stato rifiutano (B. Madre Teresa di Calcutta). Elemosina, esercizio per la crescita e fedeltà della nostra figliolanza: essere buoni e generosi come lo è Dio.
La Quaresima ci offre un cammino di conversione, di cambiamento di vita e di liberazione personale, comunitaria e sociale. Come chiesa brasiliana, ormai dal 1964, in questo cammino di conversione, siamo spronati dalla campagna della fraternità: “fraternidade: i greja e sociedade” (fraternità: chiesa e società - mc 10,45) offre lo slogan “Sono venuto per servire”. Il cartellone con la stupenda foto di Papa Francesco che bacia il piede di un “apostolo” il giovedì santo del 2014, parla da sé e riporta alla memoria le parole del “Grande Capo” quella sera a Gerusalemme: “Se io Maestro e Signore... anche voi... ” La Chiesa “fatta” da tutti i battezzati (verità scomoda e per questo spesso dimenticata!), è attiva nel mondo. Col dialogo e la carità si interessa soprattutto di quelli che dallo Stato e dalla società sono marginalizzati.
Mentre auguro a me, ai cristiani della mia Lombardia, ma anche a tutti voi una Quaresima santa e benedetta, ricordo a me e a voi le parole “strabelle” di papa Francesco nella Evangelii Gaudium: “... preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. (...) Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita”.
Parole impegnative, senza dubbio, ma anche tanto piene di speranza e di ottimismo. Molti sono - graças a Deus - i cristiani che non hanno paura di infangarsi per essere presenza di chiesa viva in mondo dove la croce spesso è troppo grande... Sono convinto che anche il mondo e il “Grande Capo” hanno questa stessa preferenza di Papa Francesco.
Um abração e até depois
da Páscoa.
Ciao.
don Lino
Cüntòmela con i MISSIONARI
Papa Francesco è stato missionario nelle Filippine dal 15 al 19 gennaio 2015. Ogni visita papale è unica e questa lo è stata in modo particolare. Nelle Filippine Papa Francesco è venuto con un grande desiderio: “Nel viaggio apostolico nelle Filippine, non dovrei essere io al centro dell’attenzione. Dovrebbe esserci Gesù”. La gente non lo ha aiutato molto a mettere in pratica questo suo desiderio perché lo ha fatto centro di tanta attenzione, di tanto amore e tante aspettative. Ma lui è rimasto fedele e si è comportato con una grande semplicità e con una grande attenzione alle persone povere e non importanti. È uscito da tutte le formalità per incontrare la gente che ha bisogno e che cerca futuro e speranza.
La sua visione delle cose ed il suo atteggiamento di estrema apertura e solidarietà ci hanno fornito la chiave per comprendere l’aspetto missionario della chiesa che lui sogna.. Il tema della visita – Misericordia e compassione – richiama la missione stessa di Gesù come ci appare nei Vangeli.
Papa Francesco è arrivato dopo che nelle Filippine è stato celebrato l’Anno del laicato (2014). Egli ha fatto ai fedeli laici l’appello ad approfondire il loro personale incontro con Gesù e a portare il Vangelo in tutti gli aspetti della vita: nella coscienza, nella famiglia, nella cultura, nella politica, nella finanza, nella scienza, nelle arti, nello sport, nella migrazione, nel lavoro, nell’ecumenismo, nel dialogo interreligioso e nelle comunicazioni sociali.
La massa di gente che lo ha cercato, incontrato e ascoltato anche sotto la pioggia e che lo ha visto vestire l’impermeabile di plastica sotto la pioggia con loro, ha rivelato a tutti noi quanto la gente abbia bisogno di guida, di solidarietà, di accoglienza e di speranza.
Papa Francesco è arrivato qui nelle Filippine proprio dopo una serie di disastri, sia naturali, sia causati dall’uomo, di cui il popolo filippino ha fatto esperienza nel 2013 e nel 2014: terremoti, tifoni (il più forte è stato Haiyan) e conflitti armati. Ma la gente deve affrontare anche il disastro quotidiano della povertà e della disuguaglianza che vediamo nei bambini e nelle famiglie che vivono in strada, nei senzatetto, nei trafficanti di esseri umani, nella disoccupazione e sottoccupazione, nell’emigrazione forzata, nella prostituzione, nelle droghe illegali, nella corruzione, nelle persone scomparse e nel degrado ambientale.
Papa Francesco ha portato la misericordia e la compassione di Gesù a coloro che sono stanchi o sfiniti. Ha ricordato loro che Gesù rimane il Pastore che prova compassione per le folle affamate.
Il Papa ha sfidato anche i responsabili del governo, della cultura e dell’economia perché faccia loro amare la legge suprema che deve connotare le loro politiche e i loro progetti. Ha incoraggiato a costruire la pace, specialmente in alcune zone di Mindanao, e a promuovere la buona volontà tra popoli di diverse religioni.
Infine Papa Francesco, come un papa missionario, si è presentato come uno di noi, o, per dirlo con le sue parole, “come un normale essere umano”, un peccatore verso cui Dio è stato clemente. Mentre milioni di persone gli si stringevano attorno cercando di vederlo, toccarlo ed avere una benedizione, lui chiedeva a tutti di pregare per lui. Vuol essere non un idolo delle folle, ma un pastore che cerca, cammina, soffre e lotta con loro.
Le sue parole e i suoi gesti semplici renderanno più accessibili ai Filippini Gesù, la Chiesa e il pontificato e resteranno nel loro cuore per sempre dovunque si troveranno.
Quello che mi ha colpito in maniera speciale è stata la constatazione che una persona come Papa Francesco, dal cuore grande e compassionevole, dal cuore aperto senza condizioni verso tutti, riesce ad avere un impatto su tutti, qualunque sia la loro posizione sociale, la loro fede o la loro pratica religiosa, Un impatto universale, senza pose, senza programmazioni, semplicemente inspiegabile!
P. Giacomo
Cüntòmela DI TUTTO UN PO'
DI RIPOSO SI PUÒ ALLENARE LA MEMORIA!
Visto il rilevante successo dei tanti corsi di stimolazione cognitiva dal nome “Elastica... mente”, che per tutto il 2014 hanno fatto il pieno di gradimento in tutta la Vallecamonica, il Consultorio Familiare Onlus G. Tovini di Breno ha scelto di estendere l’iniziativa anche alle RSA presenti sul territorio camuno, quelle strutture residenziali presenti in diversi comuni che accolgono persone parzialmente o totalmente non autosufficienti che non possono essere assistite in casa e che necessitano di specifiche cure mediche di più specialisti e di una articolata assistenza sanitaria.
Da alcuni mesi, le psicologhe che si occupano del progetto di ginnastica mentale, si stanno recando presso le strutture per stimolare e tenere in allenamento le capacità cognitive degli ospiti. “Abbiamo pensato di coinvolgere gli ospiti che vivono in RSA per offrire loro l’occasione di mantenere in salute il cervello con esercizi utili e divertenti” ci spiega la Dott.ssa Francesca Gheza che aggiunge “invecchiare non significa perdere la memoria, e allenare la mente è importante a qualsiasi età!”.
I partecipanti, coinvolti in più incontri in piccoli/medi gruppi, sorpresi di dover impugnare una penna dopo tanto tempo, si sono riscoperti abili e con ancora tanta voglia di mettersi in gioco. La dott.ssa Silvia Nezosi conclude dicendo “questi incontri, oltre ad essere utili per allenare il cervello, stimolano anche la socializzazione e la comunicazione tra i partecipanti perché si svolgono in gruppo”.
Gli incontri sono mirati infatti al ben-essere psico-fisico e sociale della persona e tendono a rafforzare i processi cognitivi per aumentarne la qualità della vita, nonché prevenire e rallentare l’invecchiamento mentale. L’intervento è stato proposto anche ad alcuni nuclei operativi per Alzheimer.
Accanto agli interventi in RSA, per il 2015 il Consultorio Familiare G. Tovini, nell’ambito del “Progetto Arcipelago Famiglia” attivo dal marzo 2013 e più volte rifinanziato dalla Regione Lombardia, rilancia i nuovi corsi di “Elastica…mente” rivolti a tutti gli over 50 del territorio camuno e realizzati attraverso la preziosa collaborazione delle amministrazioni comunali che si sono egregiamente attivate per individuare spazi e ambienti adeguati nonché promuovere l’iniziativa .
Ringraziamo quindi i tanti Assessorati ai servizi sociali, i responsabili dei centri Anziani e delle biblioteche comunali che hanno consentito la realizzazione dei tanti corsi proposti in quasi due anni.
Per il Consultorio Familiare G.Tovini di Breno
Il Direttore:
Dr.ssa Guglielmina Ducoli
Per info: 340 5897849 – 349 3683406
Cüntòmela DI TUTTO UN PO'
In un piccolo ricovero di mattoni, paglia e pietre di fiume, in una località isolata della Galizia chiamata Solovio, nelle vicinanze di Iria Flavia, nel bosco di Libredòn, dormiva, viveva e pregava, l’eremita Pelagio.
Il vecchio eremita da qualche tempo si recava presso il vescovo di Iria Flavia, Teodomiro per avere udienza, ma veniva regolarmente congedato dopo aver consumato una pasto caldo nelle cucine. La vecchiaia avanzata non gli concedeva più molto tempo, pertanto gli premeva mettere al corrente il vescovo di una delle sue visioni più frequenti.
Finalmente, in un giorno di settembre dell’Anno del Signore 824, il vescovo concesse a Pelagio udienza. Egli confidò al vescovo che nelle notti nebbiose, nel suo luogo di preghiera, una fila di luci simili a piccole stelle, baluginavano a poca distanza dal terreno: era certo presagio di un evento miracoloso e segno inequivocabile della presenza di Dio, a suo dire. Lo informò inoltre di un’altra visione, nella quale un angelo gli rivelava che il corpo dell’apostolo Giacomo era stato trasportato in quelle terre alcuni secoli prima (vedi nota).
Trarre le conseguenze di questi due fatti, fu per il Vescovo come ricevere un pugno nello stomaco! Si sentiva inerme di fronte al dilagante paganesimo che attanagliava in quegli anni le comunità sotto la sua guida. Forse, se Pelagio aveva ragione, poteva mettere fine, o almeno contrastare, quel fenomeno.
Teodomiro dunque acconsentì ad andare sul luogo delle visioni accompagnato dal fido monaco amanuense Martin di Bilibio e da un gruppo di soldati. Giunti nei pressi del ricovero dell’eremita, dopo tre giorni di digiuno e di preghiera per meglio predisporsi a ciò che, in realtà, turbava e non poco il vescovo, sul far della sera i tre si diressero verso il luogo indicato da Pelagio, scortati in lontananza dalle guardie.
Improvvisamente, videro sorgere da terra delle piccole luci, dei bagliori verdognoli che sembravano fluttuare nel vuoto. Agitato, Teodomiro si volse verso l’erudita che lo tranquillizzò, asserendo che quello a cui stavano assistendo era il noto fenomeno dell’ ignis fatuus, tipico delle zone paludose e dei cimiteri. Le leggende riferivano che si trattava del vagare di anime penitenti, anche se in realtà pare che esso sia dovuto alle esalazioni dei corpi in putrefazione. Fu allora che Pelagio ricordò che poco più avanti aveva scorto un antro, occultato da una fitta boscaglia, che pareva l’ingresso di un sepolcro e ne indicò il posto al vescovo.
Ormai era troppo tardi per tirarsi indietro, perciò l’alto prelato ordinò ai soldati che lo avevano scortato, di ripulire la zona e aprire il sepolcro. Spostata a gran fatica la grossa pietra che ostruiva il passaggio, venne aperto un varco abbastanza ampio da far passare un uomo. Martin si offrì di entrarvi per primo. Con la torcia illuminò un vano angusto, con il soffitto basso e una sorta di altare di pietra al centro, sotto il quale sembrava trovarsi una sepoltura. Scongiurato l’eventuale pericolo, fece entrare il vescovo e l’eremita. Teodomiro, titubante, perché ben conscio del peso che sarebbe caduto sulle sue spalle da quella che ormai sembrava un’ovvia scoperta, ordinò ai soldati di scoperchiare il sepolcro.
Nella fossa profonda che si aprì davanti a loro videro un mucchio di ossa gettate alla rinfusa e tre teschi: lì evidentemente giacevano tre corpi! Nessuna iscrizione, così pare, li identificava. Che lì dentro si celassero veramente, come si sentiva vociferare e come sosteneva il vecchio Pelagio, i resti dell’apostolo Giacomo? Per l’appunto, con aria interrogativa, Teodomiro si volse verso Martin, il quale lo mise a parte delle sue conoscenze circa la leggenda del trasferimento del corpo di San Giacomo in Galizia.
Nella biblioteca del monastero di san Martino di Turieno, egli aveva avuto il privilegio di leggere preziosi manoscritti compilati e miniati dal monaco Beato di Liébana, che non era un semplice copista, ma uomo istruito e di vasta cultura. Fra quei manoscritti vi era un commentario dell’Apocalisse, dove vi si testimonia la predicazione di Giacomo in Spagna e in particolare in Galizia. Martin riferì inoltre che il Beato di Liébana aveva scritto un Inno per la liturgia dedicata all’apostolo, intitolato O dei Verbum, nel quale lo si definisce combattente poderoso e patrono della Spagna sottolineando come, grazie alla sua intercessione, si potessero evitare la peste, le malattie, le sventure e la morte violenta.
Sulla scorta di tutte queste informazioni, Teodomiro, spinto anche dal desiderio di contrastare la piaga del paganesimo che incancreniva la sua seppur tenace opera di evangelizzazione nel Finis Terrae, si convinse a condividere la scoperta con re Alfonso II d’Aragona, detto il Casto, e di decidere con lui come comportarsi con quella scoperta. Grazie alla convincente spiegazione sostenuta dalle fonti storiche, re Alfonso accolse la teoria secondo cui in quel sepolcro erano conservati i resti dell’Apostolo Giacomo e decise di recarsi lui stesso, in compagnia di Teodomiro, al locus Sancti Iacobi, come ormai avevano chiamato il luogo del ritrovamento. La visita convinse definitivamente il re che diede ordine di far costruire, a protezione del sepolcro, una chiesa in legno e pietra.
Fu l’inizio di quel che in breve tempo, sarebbe diventata la destinazione col maggior numero di pellegrini dell’alto Medioevo.
A cura di Emilia Pennacchio
Nota Ai tempi della predicazione di Giacomo, nella prima metà del I secolo d.C. in effetti, si svolgeva un intenso commercio di minerali come lo stagno, l’oro, il ferro ed il rame dalla Galizia alle coste della Palestina. Nei viaggi di ritorno venivano portati oggetti ornamentali, lastre di marmo, spezie ed altri prodotti comperati ad Alessandria ed in altri porti ancora più orientali, di grande importanza commerciale. Si pensa che l’Apostolo abbia realizzato il viaggio dalla Palestina alla Spagna in una di queste navi, sbarcando sulle coste dell’Andalusia, terra in cui cominciò la sua predicazione. Proseguì la sua missione evangelizzatrice a Coimbra e a Braga, passando, secondo la tradizione, attraverso Iria Flavia nel Finis Terrae ispanico, dove proseguì la predicazione. L’apostolo Giacomo fu decapitato in Giudea su ordine di Erode Agrippa I nel 44 C.C. e la leggenda dice che due dei discepoli di San Giacomo, Attanasio e Teodoro, raccolsero il suo corpo e la testa e li trasportarono in nave da Gerusalemme fino in Galizia. Dopo sette giorni di navigazione giunsero sulle coste della Galizia, a Iria Flavia, vicino l’attuale paese di nome Padrón. Uno degli autori dei sermoni raccolti nel Codice Calixtino, riferendosi alla predicazione di San Giacomo in Galizia, dice che ” colui che vanno a venerare le genti, Giacomo, figlio di Zebedeo, la terra della Galizia invia al cielo stellato”. (fonte: la rete)
Cüntòmela DI TUTTO UN PO'
Anche se l'UAAR (Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti) sul proprio sito web si è presa la briga di inserire il suo nome nell'elenco degli atei e non credenti famosi, ascoltando le sue canzoni faccio molta fatica ad associare Fabrizio De Andrè al razionalismo asettico, e a volte poco intelligente, di diversi atei o di chi si spaccia per tale.
Molte delle sue autentiche poesie in musica esprimono una passione, un amore per il vissuto umano che inevitabilmente vanno a far vibrare le esigenze più profonde dell'animo, con il suo desiderio di aspirare a qualcosa di infinitamente giusto, bello e buono.
Solo per il titolo “La buona novella” potrebbe essere considerato l'album più dichiaratamente “religioso” di Fabrizio de Andrè. Tratte dai vangeli apocrifi (quelli che non fanno parte del Nuovo Testamento) la maggior parte delle canzoni sono dedicate a Maria: bambina allevata nel tempio ma scacciata da esso quando la sua «verginità si tingeva di rosso» per le prime mestruazioni; giovane sposa che in un sogno-preghiera si ritrova con il ventre gravido che la rende come altre donne «femmine un giorno e poi madri per sempre nella stagione che stagioni non sente».
Significative sono anche “Maria nella bottega del falegname”, con quei cupi e interrogativi colpi di martello e di pialla che stanno costruendo le tre croci «due per chi disertò per rubare, la più grande per chi guerra insegnò a disertare», e il “Testamento di Tito”. In quest'ultimo brano uno dei due ladroni crocifissi con Gesù compie un esame di coscienza scorrendo i Dieci Comandamenti. Fra quelli che lo fanno pensare, altri che lo rendono confuso e ribelle ai «templi che rigurgitano salmi dei schiavi e dei loro padroni», e il quinto (confuso probabilmente con il settimo: non rubare) che è forse l'unico che ha rispettato «vuotando, in silenzio, le tasche già gonfie di quelli che avevan rubato», giunge alla conclusione che «nel vedere quest'uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l'amore».
Insieme a “La buona novella” diverse altre canzoni di De André, proprio perché scavano nel quotidiano spesso misero dell'uomo, mostrano una non indifferente tensione spirituale.
È il caso, ad esempio, della tristissima “Preghiera in Gennaio” dedicata all'amico e collega Luigi Tenco, suicidatosi durante il Festival di San Remo del 1967, che si conclude con questi versi: «Ascolta la sua voce che ormai canta nel vento, Dio di misericordia vedrai, sarai contento».
O ancora della più solare, anche a livello musicale, “Spiritual”. Inserita nello stesso disco della precedente solo per completarlo (così almeno raccontano le cronache) sembra essere un controcanto, simpaticamente beffardo, ma anche un prolungamento del Salmo 139. Mentre per il salmista appare impossibile fuggire e sottrarsi allo sguardo del Signore che scruta e conosce ogni uomo, con i timbri tipici dei canti gospel il cantautore genovese invita più volte Dio, se lo vorrà incontrare e salvare, se lo vorrà amare, a scendere dal cielo per andarlo a cercare in mezzo agli uomini, fra i campi di granturco. Non occorre essere grandi teologi per ricordare che è ciò che effettivamente ha compiuto Dio Padre incarnandosi in Gesù Cristo.
A mio parere, però, il volto forse più “evangelico” di Fabrizio de Andrè lo si scopre ascoltando le sue tipiche ballate dedicate agli sconfitti, ai perdenti o contro chi esercita i poteri istituzionali. Insieme ad una irriverente ironia, traspaiono sete di giustizia e solidarietà con gli ultimi.
È sufficiente ricordare la divertente e grottesca “Il gorilla”, in cui il giovane giudice con la toga, assalito dalla scimmia, «gridava mamma come quel tale a cui il giorno prima come ad un pollo, con una sentenza un po' originale, aveva fatto tagliare il collo», o qualsiasi brano dell'album “Non al denaro, non all'amore, né al cielo” per accorgersi che De André cantava le periferie esistenziali ben prima che tale espressione divenisse famosa grazie a Papa Francesco. Un'altra sua conosciutissima canzone, “Il pescatore”, parla di incontro e accoglienza, senza giudicare se chi ti chiede pane e vino sia buono o un assassino. Mentre rimarrà nella storia della letteratura la conclusione dell'altrettanto famosa “Via del campo”: «... dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».
A tanti di noi, magari, la sua insistenza sui derelitti e umana miseria, oltre ad una sentimentale solidarietà, può suscitare anche una certa irritazione in quanto ci sbatte in faccia una di quelle frasi del Vangelo - «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio» - che cerchiamo spesso di addomesticare con “interpretazioni spirituali” perché non scuotano troppo i nostri perbenismi e falsi moralismi.
Gli scribi del nostro tempo sui loro siti ultra conservatori e fondamentalistici come quelli degli atei, potranno dire che, al massimo, quello che si può ricavare dalle canzoni di De André, comunque belle e profonde, è un vangelo laico, ripiegato tutto solo sull'uomo e senza la dimensione verticale verso il Padre nostro che è nei cieli. Infatti la stessa “Buona Novella” termina con l'affermazione: «Non posso pensarti Figlio di Dio, ma figlio dell'uomo, fratello anche mio».
Non so se Fabrizio De André, da anarchico quale si dichiarava, sia stato sempre insofferente alla fede religiosa e soprattutto istituzionale, o se, oltre alla smisurata ammirazione per Gesù definito il più grande rivoluzionario della storia e il più grande filosofo dell'amore, in alcuni periodi della sua vita (come raccontano ancora le cronache) abbia dichiarato davvero di pensare che “tutto quello che abbiamo intorno abbia una sua logica, e questo è un pensiero al quale mi rivolgo quando sono in difficoltà...”.
Proprio la conclusione di “Bocca di Rosa” in cui il parroco «... con la Vergine in prima fila e Bocca di rosa poco lontano, si porta a spasso per il paese l'amore sacro e l'amor profano.» può ricordarci provocatoriamente che le distinzioni esasperate fra ecclesiale e secolare, religioso e laico, sacro e profano, atei e credenti, pur se hanno un loro preciso significato, rischiano di farci ricadere in quel legalismo del puro ed impuro contro cui più volte si era scagliato lo stesso Gesù.
Se ha poco senso parlare di “vangelo religioso” e “vangelo laico”, tanto meno l'amore può essere distinto fra sacro o profano; il vero amore, che in fondo traspare anche da diversi brani di De Andrè, proviene solo ed esclusivamente da Dio (1Gv 4,7).
Franco
Cüntòmela DI TUTTO UN PO'
La prima cosa è spontanea e viene dal cuore ed è quella di augurare a nome di tutta la famiglia Avisina una serena Santa Pasqua a tutti.
Il 2015 è sicuramente un anno importante essendo passati 45 anni da quando è stata fondata questa nobile associazione nel 1970.
La cosa bella che si può dedurre scrutando l’archivio storico sta nel fatto che, quasi tutte le famiglie malegnesi hanno avuto o hanno tutt’ora, un loro iscritto all’Avis.
Ecco che allora, questa festa non è circoscritta a poche persone, ma coinvolge un po’ tutta la nostra comunità.
Domenica 24 maggio 2015 andremo a festeggiare questo traguardo, e l’augurio di tutto il direttivo attuale è che saremo sicuramente in tanti preparati a questo appuntamento.
L’invito è già stato accolto con entusiasmo dai quattro sindaci che compongono la nostra Avis, così come da subito ha risposto “presente” la Banda “Angelo Canossi” di Malegno che avrà il compito di allietare e emozionare la mattinata con la sua musica.
Altrettanto positiva è stata la risposta del Coro “Amici del Canto” di Borno che andranno a solennizzare la S. messa delle ore 11,00, risposta che non avevamo dubbi fosse positiva, anche perché Borno è parte integrante della nostra Avis.
Già da queste conferme, si può dedurre che le emozioni non mancheranno, ma non va dimenticato che i protagonisti della giornata saranno i donatori avisini.
Andremo a premiarne ben 112 meritevoli, con distintivi che si differenziano dalle 8 donazioni sino alle 100 con una magnifica parentesi di un avisino che ha raggiunto le 130 donazioni.
Il tutto avverrà nella bellissima cornice della piazzetta Zaccaria Casari dove si terranno anche i discorsi ufficiali.
Saranno presenti i Presidenti di tutte le sezioni Avis della Valle e tutti i gruppi con i labari dei loro paesi. Non mancheranno gli alpini dei quattro paesi e le altre associazioni della nostra comunità. La Santa Messa sarà celebrata dal nostro Cappellano don Giuseppe Stefini, mentre il pranzo si terrà presso il ristorante Giardino di Breno. Naturalmente tutti i dettagli verranno forniti nei manifesti che andremo ad affiggere nelle bacheche dei quattro comuni appartenenti all’Avis. Comunque già da ora chi vuole partecipare può contattare la nostra sede il giovedì sera, oppure prenotarsi chiamando Adriana Gheza 3471541367 o Viorica Baffelli 3490030522.
Lasciando momentaneamente da parte i festeggiamenti del 45mo, mi sembra d’obbligo aggiornare tutti del lavoro svolto nel 2014. Le donazioni sono state 530, mentre i nuovi donatori sono stati 29. Questo dato è in aumento e pertanto lascia sperare in bene.
Le attività di promozione sono state tante e ben riuscite; ricordiamo la cena per la raccolta fondi per l’asilo di Malegno (1500€), la cena per l’associazione Andos (1600€), la partecipazione alla notte bianca. Le gite effettuate sono state due : in primavera al castello di Elisa di Rivombrosa e Masino, e a Settembre a Ferrara. Sono state consegnate tre carrozzelle con la raccolta dei tappi, una alla casa di riposo di Breno, una alla casa riposo di Bienno ed una al centro anziani di Niardo.
La vendita di bonsai all’Annunciata per la ricerca contro AIDS per il quarto anno consecutivo ha dato buoni risultati, con tutte le piante vendute per un ammontare di 850 euro. Pure la vendita di piantine a Cividate per la fame nel mondo, tutte vendute con un ricavato di 450 euro. Per finire, va ricordata la bellissima serata con cena compresa, con gli amici volontari del GVS presso l’oratorio di Malegno, e naturalmente, come da tradizione, la S. Messa per i nostri avisini defunti.
Insomma credo che per essere un’associazione di volontariato sia un bilancio più che positivo. Tutto questo è frutto di tanto lavoro e di una grande collaborazione. Il grazie va a tutti i componenti del Direttivo, ma permettetemi un plauso alle nostre segretarie Monica, Elisa e Federica, alla Dott.ssa Luisa Guarinoni e al nostro instancabile Antonio per tutto il lavoro svolto.
Arrivederci al 24 Maggio 2015
BUONA S. PASQUA a tutti
Il V. Presidente Giorgio Mascherpa
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