Estate 2020
Parola del parroco
Carissimi,
un saluto e un augurio di pace a tutti!
Il mio cuore e il mio pensiero si allargano a tutta le comunità: a chi porta nel cuore ferite e fatiche di un tempo difficile e non ha ancora ritrovato il coraggio per aprirsi alla speranza e alla fiducia, e a chi lascia uscire la gioia e la freschezza di voler ripartire con entusiasmo.
Vi scrivo subito dopo aver vissuto con i ragazzi l’esperienza estiva “Summerlife” che porta come sottotitolo “per fare nuove tutte le cose”. Mi faceva riflettere l’aspetto del “nuovo”: che significa? Come e dove trovare la novità? Che cosa o chi rende nuove le cose?
Nuovo suona come sinonimo di “mai visto” o “mai fatto prima”, rimanda a fatti o cose che si presentano con freschezza. Non di rado ciò che non abbiamo ancora sperimentato e vissuto porta con sé incertezza e, magari, fa venir voglia di restare in quell’aura di sicurezza che solo le cose conosciute ci danno. Così, tanti sembrano volere che tutto torni come prima del “covid-19”, quasi a voler cancellare o esorcizzare una brutta pagina di storia.
Se guardiamo alle nostre parrocchie, sono tante le “novità” attorno a noi.
Una prima novità è che, più degli anni scorsi, le comunità si trovano “allargate” dalla presenza di tanti turisti occasionali o di passaggio alla ricerca di bellezza e alla scoperta di nuovi angoli dove potersi ritemprare; di villeggianti che fanno - da diversi anni o anche da più generazioni - tappa sull’altopiano; persone originarie delle nostre zone che ritornano volentieri a godere la bellezza dei luoghi e a riassaporare le tradizioni.
A fine estate, poi, ci ritroveremo per salutare don Mauro - che da più di otto anni presta servizio nelle diverse parrocchie dell’Altopiano e a cui il vescovo ha affidato un nuovo incarico come parroco a Corteno e a Santicolo - e per accogliere don Raffaele che si appresta ad iniziare una nuova tappa del suo cammino sacerdotale a servizio di Dio e della Chiesa fra di noi.
E da ultimo come non pensare in questo clima di novità alla nostra chiesa parrocchiale di Borno che, pur presentandosi ancora avvolta dalle impalcature, si prepara pian piano a ritornare a un rinnovato splendore!
Abbiamo bisogno di novità, certo. Esse devono aprirci alla speranza e alla fiducia. Le cose nuove, però, né ci devono intimorire troppo facendoci solo desiderare che tutto ritorni come prima, né ci devono semplicemente far dimenticare ciò che è stato. Ma bastano, queste novità?
No, non bastano. Non possiamo essere persone che rincorrono solo novità esteriori, per quanto necessarie e improcrastinabili.
Dunque novità non solo nella forma: serve una novità più profonda, usando il linguaggio della Bibbia un “cuore nuovo”. Il cuore nella Bibbia è il centro della persona dove si custodiscono e si conservano le cose più preziose e che ci sprona a guardare avanti con fiducia, senza dimenticare. Pensiamo a Maria. Nel Vangelo in più occasioni troviamo scritto “serbava queste cose nel suo cuore”: Ella teneva dentro di sé ciò che il Signore le manifestava, accogliendo le novità del progetto di Dio che pian piano comprendeva su di Lei e sulla storia.
È questo l’augurio che faccio a me e a voi. Poiché abbiamo bisogno di un cuore nuovo rinnovato dalla grazia e dall’amore di Dio, un cuore capace di custodire anche le cose più dure e difficili, ma nello stesso tempo capace di guardare avanti con fiducia e speranza in questa vita che è dono di Dio e da Lui è accompagnata e benedetta.
Papa Francesco nell’omelia del giorno di Pentecoste concludeva con questa invocazione che offro a me e a voi come augurio di bene.
«Spirito Santo, memoria di Dio, ravviva in noi il ricordo del dono ricevuto. Liberaci dalle paralisi dell’egoismo e accendi in noi il desiderio di servire, di fare del bene. Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi. Vieni, Spirito Santo: Tu che sei armonia, rendici costruttori di unità; Tu che sempre ti doni, dacci il coraggio di uscire da noi stessi, di amarci e aiutarci, per diventare un’unica famiglia. Amen.»
Vostro don Paolo
Grazie don MAURO - Benvenuto don RAFFAELE
Tutto ha un inizio e tutto ha una fine.... dopo otto anni di presenza tra voi tutti, arriva dai superiori l’inattesa comunicazione di trasferimento. Otto anni passati piacevolmente e, proprio per questo, molto velocemente.
Anche se sappiamo tutti che ogni sacerdote non è più nominato definitivamente per un servizio pastorale in una o più parrocchie, al momento del cambio di destinazione si prova un po’ di rammarico perché ci si affeziona e ci si abitua vicendevolmente, anche tra sacerdoti che collaborano.
Non siamo fatti di marmo. Dobbiamo comunque pensare sempre ad un maggiore ed effettivo bene di tutti e per tutti.
È vero che la permanenza di un sacerdote nello stesso luogo offre vantaggi di stabile e crescente relazione tra i fedeli e il sacerdote perché ci si conosce sempre meglio; come offre pure una comoda stabilità nel fare attività pastorale, e questo è già un bene.
Bisogna però ricordare anche che le comunità parrocchiali hanno bisogno di rinnovarsi e di crescere sempre più. Anche per i sacerdoti cambiare destinazione significa evitare il rischio di fossilizzarsi e di essere ripetitivi, mortificando l’esigenza di crescita per le parrocchie; significa anche essere stimolati a modificare il modo di fare pastorale, proprio perché si trovano situazioni e persone sempre diverse, anche se tutto questo, sia per i sacerdoti sia per i fedeli, comporta la fatica di ricominciare un nuovo capitolo della vita.
Ringraziamo il buon Dio per questi otto anni in cui abbiamo camminato insieme con gioia incontro a Lui, pur se ci sono stati momenti di comprensibile fatica. Accogliamo i nuovi cambiamenti con entusiasmo anche se chiedono dei sacrifici, come ad esempio il cammino per la nascita dell’Unità Pastorale e l’arrivo di un nuovo sacerdote.
Esprimo profonda e sincera gratitudine a tutti voi e ai confratelli sacerdoti per il bene che abbiamo realizzato insieme e per il clima di fraternità serena, accogliente e paziente che si è creato.
don Mauro Zambetti
Grazie don MAURO - Benvenuto don RAFFAELE
Alle comunità cristiane di Borno,
Ossimo Inferiore e Ossimo Superiore,
Villa di Lozio e Lozio
il mio più cordiale saluto con tanto affetto.
Da settembre di quest’anno sarò con voi, per collaborare con don Paolo, il parroco, e gli altri sacerdoti che risiedono nei paesi dell’Unità Pastorale e per mettermi al vostro servizio, per creare comunione, per vivere il dono della fede.
Ho festeggiato quest’anno i 46 anni di Messa, ho vissuto il mio sacerdozio prima come Curato a Malegno e Breno, poi come parroco a Berzo Demo e Cividate Camuno e negli ultimi 9 anni nelle parrocchie della Costa di Costa Volpino. Come San Paolo vorrei poter dire: ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato un po’ di fede!!! Conosco già un po’ le vostre parrocchie che servirò; sono stato a Borno tante volte con il Grest di Breno, nelle gite, a Lozio per le Messe e le confessioni quando ero a Cividate, a Ossimo per legami di amicizia con don Lino Zani, attualmente in Brasile e mio compagno di messa.
Vengo a voi con gioia e tanta buona volontà, per collaborare con il parroco e gli altri sacerdoti alla vostra gioia e fede. Un pensiero prima dei saluti finali. Cosa fa il sacerdote nella Comunità che Serve? Svolge il suo solito ministero, come hanno fatto tanti sacerdoti prima di lui, come fanno adesso tanti parroci e collaboratori, cioè predicano, celebrano l’eucarestia e i sacramenti, sono presenti nei momenti di gioia ma anche di sofferenza e di dolore, perché il sacerdote vive tra la sua gente, per incontrare, guidare e confortare…. Ma credo che oggi il sacerdote sia chiamato a un compito particolare: a spazzare via la cenere per ridare vita alle braci e al fuoco.
A volte anche noi sacerdoti un po’ scoraggiati, diciamo che la fede sta scomparendo… cristiani sempre meno cristiani, tanti vivono un cristianesimo fai da te, i cristiani che vengono divorati dal mondo… è sempre più difficile vivere la propria fede! Ebbene, il sacerdote deve soffiare via la CENERE che si è depositata per ravvivare il FUOCO. Ci occorre un fuoco nuovo, che illumini e riscaldi: il mondo ha bisogno di luce per vedere il vero senso della storia e ha bisogno di calore per riscoprire l’amore che unisce e fa crescere.
Chiedo al Signore di essere un sacerdote che ogni giorno, illuminato dalla Parola di Dio, possa a sua volta portare un po’ di luce e di calore nelle nostre comunità: la fede c’è, sempre, magari un po’ nascosta dalla cenere… ma sotto c’è sempre il fuoco che deve essere ravvivato.
Collaborando con don Paolo e gli altri sacerdoti spero di portare un po’ di gioia a tutti voi. In attesa di incontrarci vi ricordo nella preghiera.
don Raffaele Alberti
Grazie don MAURO - Benvenuto don RAFFAELE
Per le parrocchie dell’Unità pastorale dell’Altopiano, questo ultimo anno si sta rivelando particolarmente denso di eventi: dapprima la partenza di don Simone, che ora svolge il suo ministero come parroco di Malonno, Paisco e Loveno; e recentemente l’annuncio della nomina di don Mauro a parroco di Corteno Golgi e Santicolo e di don Raffaele Alberti come nuovo curato di Borno, Ossimo e Lozio.
Questi sono, certamente, momenti particolari per una comunità che si trova a salutare due figure importanti e che hanno dato molto negli anni di servizio trascorsi qui. In queste occasioni è facile lasciarsi andare un po’ alla malinconia, nel ricordo dei bei momenti trascorsi insieme e un po’ alla delusione e alla pretesa che queste figure, di fondamentale importanza per la comunità, trovino un successore. In questo le nostre comunità sono state fortunate e don Raffaele Alberti entrerà in servizio come curato dell’Unità Pastorale a partire dal prossimo autunno.
La presenza di un curato, e dei sacerdoti in genere, ha per noi una grande importanza e nelle realtà piccole e decentrate come la nostra è ancora più chiaro che il ministero sacerdotale, voluto da Cristo, è essenziale alla Chiesa, poiché per suo mezzo l’atto salvifico del Signore diventa sacramentalmente e storicamente presente a tutte le generazioni. Infatti il sacerdote è colui che rende presente il servizio di Cristo nell’annuncio efficace del messaggio evangelico, nel raduno e nella guida della comunità cristiana e rappresenta Cristo alla testa della comunità e di fronte ad essa.
Accogliamo, quindi, don Raffaele con un caloroso benvenuto, certi che vivrà dei bei momenti nella nostra comunità; a don Mauro auguriamo una buona missione nel suo nuovo servizio come parroco e confidiamo che entrambi sappiano svolgere il ministero sacerdotale, come ricordato da Papa Francesco, come servizio” e amore appassionato per la propria comunità e per la Chiesa.
A nome del Consiglio Parrocchiale
e dell’Unità Pastorale
Francesca Gheza
La voce del convento
Il 14 giugno, nel santuario della SS. Annunciata, durante la celebrazione eucaristica del Corpus Domini, il superiore del convento P. Roberto Sabotto, ha celebrato il venticinquesimo di ordinazione sacerdotale.
È stato un momento particolare, di preghiera, di ringraziamento al Signore e di comunione fraterna.
Alla fine della celebrazione abbiamo letto a P. Roberto un pensiero di ringraziamento, frutto delle testimonianze di chi lo ha conosciuto e ha condiviso con lui un cammino di fede. Ne condividiamo volentieri il testo con i lettori di Cüntòmela.
Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi, e il cielo esulti, quando sull’altare, nelle mani del sacerdote, si rende presente Cristo il figlio di Dio Vivo!
Carissimo Padre Roberto,
con queste parole tratte dagli scritti di San Francesco e alla sua sequela hai lasciato tutto… e il 10 giugno 1995 è iniziato il Tuo ministero sacerdotale.
Oggi, siamo riuniti in questo Santuario per ringraziare il Signore per il dono della tua vocazione e per celebrare con infinità gioia e profondo entusiasmo il 25° Anniversario del tuo sacerdozio.
Conosci tutti i nostri volti, con tanto amore e infinità pazienza ci hai accompagnato nella gioia e nel dolore.
Perfino nei momenti più difficili, la tua preoccupazione era sempre per noi.
Con te abbiamo riscoperto il grande dono dell’Adorazione Eucaristica, ci hai contagiato con la tua devozione nella recita del S. Rosario, all’amore per Maria SS.
Grazie padre Roberto per tutti noi sei un dono del cielo, uniti nella preghiera chiediamo a padre Pio e al beato Innocenzo di accompagnarti nel tuo apostolato.
Un’altra giornata ha caratterizzato questo anniversario “d’argento”. Nella solennità di San Giovanni Battista a Borno, don Paolo e Padre Roberto hanno concelebrato. Nell’omelia, Padre Roberto ha presentato la figura di San Giovanni Battista, spronando i fedeli a prenderlo come esempio per testimoniare una fede autentica e coraggiosa. Con un particolare ringraziamento al Signore e un caloroso applauso si è conclusa la celebrazione.
Bruna Bettineschi
Per riflettere
Il futuro Papa con i genitori
Fin dal primo incontro, Papa Giovanni Paolo II mi impressionò per la sua grande umanità, la sua attenzione alle persone e la non comune profondità di pensiero, unita a grande semplicità di tratto. Poi, con lo scorrere del tempo, notai che in lui non esisteva frattura fra ciò che pensava e ciò che diceva; fra ciò che credeva e ciò che era; fra ciò che appariva e ciò che era nella realtà.
Ciò però che, lavorando vicino a lui e col moltiplicarsi dei contatti, mi ha colpito sempre di più è stata l’intensità della sua preghiera. Giovanni Paolo II è stato certamente un grande uomo di azione e il mondo lo ha apprezzato per quanto egli, nei 26 anni e mezzo di pontificato, ha realizzato in campo religioso e per aver inciso anche sul corso della storia del secolo scorso; ma egli era in primo luogo un uomo di preghiera: la sua operosità era intimamente connessa con la preghiera.
Non si può comprendere Papa Giovanni II se si prescinde dal suo rapporto con Dio. È stato un grande uomo di preghiera, con una forte tensione spirituale e mistica.
Colpiva come si abbandonava alla preghiera: si notava in lui un coinvolgimento totale, che lo assorbiva come se non avesse avuto problemi e impegni urgenti che lo chiamavano alla vita attiva. Il suo atteggiamento nella preghiera era raccolto e, in pari tempo, naturale e semplice.
Dal modo con cui pregava si avvertiva come l’unione con Dio era per lui respiro dell’anima e umile ascolto della voce di Dio. Si capiva anche come, negli anni in cui era in Seminario per diventare sacerdote, fosse nato in lui il vivo desiderio, anzi la volontà di farsi Carmelitano. Fortunatamente, perché altrimenti non lo avremmo avuto come Papa, il suo Arcivescovo gli consigliò: “Hai iniziato qui in Seminario: ora termina quanto hai incominciato”.
Commuoveva la facilità e la prontezza con cui egli passava dal contatto umano con la gente al raccoglimento del colloquio intimo con Dio. Aveva una grande capacità di concentrazione. Quando era raccolto in preghiera, quello che succedeva attorno a lui sembrava non toccarlo e non riguardarlo, tanto si immergeva nell’incontro con Dio.
Durante la giornata, il passaggio da un’occupazione all’altra era sempre segnato da una breve preghiera.
Egli si preparava ai vari incontri della giornata e della settimana pregando. Qualche volta lo disse espressamente. Per esempio, ricevendo Gorbaciov nel 1989, il Papa iniziò il colloquio confidando al suo interlocutore che si era preparato all’incontro pregando Dio per lui e per quell’incontro, che considerava graditissimo e importante.
Tutte le decisioni significative erano da lui maturate nella preghiera. Prima di ogni decisione significativa Giovanni Paolo II vi pregava sopra a lungo, a volte per più giorni. Più importante era la decisione, più prolungata era la preghiera. Sembrava come se trattasse con Dio i vari problemi.
Nelle scelte di un certo peso non decideva mai su due piedi. Ai suoi interlocutori che gli chiedevano o proponevano qualcosa, rispondeva che desiderava riflettervi sopra prima di dare risposta. In realtà, guadagnava tempo per ascoltare qualche parere (aveva sempre molti contatti), ma soprattutto intendeva pregarci sopra e ottenere luce dall’alto prima di decidere.
Ricordo un caso, negli anni in cui ero Sostituto, in cui mi sembrava che il Papa fosse già decisamente a favore di una determinata difficile scelta. Gli chiesi pertanto se si poteva procedere a darne comunicazione. La risposta fu: “Aspettiamo, voglio pregare ancora un po’ prima di decidere”.
Quando si stava studiando una questione e non si riusciva a trovare una soluzione giusta e adeguata, il Papa concludeva dicendo: “Dobbiamo pregare ancora perché il Signore ci venga in aiuto.” Si affidava alla preghiera per trovare chiarezza sulla strada da seguire.
Punto forte della sua spiritualità è stata la devozione alla Madonna. La dimensione mariana, espressa anche dal motto “Totus tuus” scelto in occasione della consacrazione episcopale, fu per lui sorgente di serena fiducia durante l’intera sua esistenza. Nel periodo in cui andava a lavorare alla cava di pietra e poi alla fabbrica Solvay, lesse il libro di San Grignon de Montfort “Trattato della vera devozione a Maria”, che gli era stato dato da un laico, Jan Tyranowski. Questi aveva creato in parrocchia un gruppo di 15 giovani, fra i quali Karol Wojtyla, che si impegnavano a recitare ognuno una decina del rosario al giorno.
Non è senza significato il fatto che, due settimane dopo la sua elezione alla sede di Pietro (nel pomeriggio della prima domenica per lui libera), andò al Santuario della Mentorella per pregare, ma anche per parlare della preghiera, affermando che considerava “suo primo compito come Papa quello di pregare per la Chiesa e per il mondo”; e che desiderava che la preghiera fosse in un certo senso “il primo annuncio del Papa”(Omelia al Santuario della Mentorella, L’Osservatore Romano, 30-31 ottobre 1978).
La Messa era per lui la realtà più alta, più importante e più sacra. In un incontro con i sacerdoti nel 1995 disse: “la Messa è in modo assoluto il centro della mia vita e di ogni mia giornata”. “Celebrare ogni giorno la Messa è per me un bisogno del cuore”.
La preghiera era in lui qualcosa di spontaneo, con lunghi spazi di ascolto di Dio e, nello stesso tempo, era legata alle pratiche di pietà tradizionali, fra le quali l’ora di adorazione ogni giovedì, la Via Crucis che faceva ogni venerdì e il Rosario quotidiano. L’Eucaristia, il Crocifisso e la Madonna erano i tre centri della sua pietà.
A proposito della Via Crucis che Giovanni Paolo II faceva ogni venerdì, il Card. Antonio Innocenti mi ha raccontato il seguente episodio. Era Nunzio a Madrid in occasione del primo viaggio in Spagna del Papa Giovanni Paolo II. Il Papa, nel giovedì di quella settimana, aveva avuto una giornata intensissima, per cui arrivò a cena alle ore 21,30. Il programma del giorno dopo prevedeva la prima colazione alle ore 6,30 e poi partenza per Siviglia alle ore 7,00.
Il Nunzio si svegliò presto il mattino, un po’ per la preoccupazione della visita pastorale del Papa, un po’ perché aveva ceduto la sua camera al Papa e aveva dormito in un letto piccolo sistemato in mansarda. E così alle 5 del mattino era già in piedi. Scese al primo piano alle ore 5,30 convinto che il Papa sarebbe uscito dalla sua stanza soltanto un’ora dopo, alle 6,30. Notò però che nella chiesetta della Nunziatura era accesa la luce. Pensò che la sera precedente ci si fosse dimenticati di spegnerla. Andò quindi ad aprire la porta della chiesetta e con sorpresa vide il Papa inginocchiato per terra, davanti ad una delle stazioni della Via Crucis. Era un venerdì e la giornata sarebbe stata piena di impegni pastorali a Siviglia e a Granada, per questo il Papa era già in chiesa alle 5,30 del mattino per fare la Via Crucis.
Ho accompagnato il Papa in Terra Santa nell’anno 2000. Il venerdì di quella settimana, nel volo in elicottero da Gerusalemme al lago di Tiberiade, notai che il Papa, seduto davanti a me, aveva in mano un libro della Via Crucis, e stava facendo la pratica della Via Crucis così come gli risultava possibile, in elicottero. La sua salute era già indebolita dal morbo di parkinson, altrimenti avrebbe fatto la Via Crucis nelle ore notturne.
A proposito della preghiera di domanda, rispetto alla preghiera di adorazione, di ringraziamento e di richiesta di perdono, ho trovato interessante la risposta che Papa Giovanni Paolo II diede ad André Frossard durante i colloqui che ebbe con lui a Castel Gandolfo nel 1982. Disse: “Vi fu un tempo nella mia vita in cui mi sembrava che fosse conveniente limitare la preghiera di domanda (cioè la preghiera di intercessione a favore di una persona o di una situazione) per lasciare più spazio alla preghiera di adorazione, di lode e di ringraziamento, perché più nobile. Questo tempo ora è passato. Più vado avanti nel cammino che la Provvidenza mi ha indicato, più sento fortemente in me il bisogno di ricorrere alla preghiera di domanda, e più il cerchio delle domande a Dio si allarga” (Frossard, “N’ayez pas peur!”,pag.46).
Giovanni Paolo II con la sua preghiera abbracciava il mondo intero e più volte ha parlato di “geografia della preghiera”, confidando che, mentre pregava, faceva idealmente il giro del mondo, soffermandosi sulle situazioni più oppresse o bisognose nelle varie nazioni. La sua preghiera di intercessione a favore di persone e di situazioni aveva di solito un respiro universale, ma spesso pregava anche per casi singoli.
San Giovanni Paolo II è stato un mistico, che aveva dentro di sé una forte tensione spirituale; un mistico attento alle persone e alle situazioni, che ha meravigliato per la sua incontenibile attività, portata avanti con una forza straordinaria che gli veniva da Dio.
Card. Giovanni Battista Re
Per riflettere... E FAR MEMORIA
- Che cosa abbiamo provato?
- Che cosa ci ha addolorato?
- Che cosa ci ha consolato?"
Sono le tre domande che il vescovo di Brescia Pierantonio Tremolada ha proposto ad ognuno di noi per una rilettura sapienziale, una riflessione su ciò che abbiamo vissuto durante la fase più acuta della pandemia. Queste sono alcune testimonianze.
L’epidemia di coronavirus… non è facile scrivere un articolo al riguardo. Ormai non abbiamo più voglia di pensarci, preferiamo pensare all’abbronzatura, alle vacanze, alle lucciole delle sere d’agosto e alle camminate tra i prati verdi e profumati.
Pensare all’epidemia vela il nostro animo di disagio, ingrigisce i pensieri e raffredda il cuore. Pensare all’epidemia è come ricordare un sogno passato: è tutto sfumato, tutto così lontano. Eppure è successo tre mesi fa... forse la nostra mente cerca di proteggere l’animo affievolendo il ricordo di ciò che ci ha fatto male.
L’epidemia è arrivata e non eravamo pronti, mai avremmo immaginato cosa sarebbe successo. In un susseguirsi di eventi sempre più incalzanti ci siamo ritrovati con l’obbligo delle mascherine e dei guanti, quindi non si è più potuto uscire di casa, vietati gli incontri e gli assembramenti, sospese le lezioni scolastiche, bloccate ditte e imprese. Il mondo si è fermato!
Le vie di Borno si sono svuotate, le strade si sono ammutolite, i telegiornali hanno cadenzato le nostre giornate: triste ascoltarli ma non si riusciva ad evitarli. Ciò che più di tutto faceva paura era non poterlo vedere, questo maledetto coronavirus. Non vedendolo si temeva fosse ovunque: nell’aria, nell’acqua, sulle superfici. Ci ha resi paranoici: lavati le mani, cambia i vestiti, disinfetta ogni oggetto proveniente da fuori casa, chiudi le finestre. Ci ha resi sospettosi nei confronti del prossimo: ce l’avrà? Me lo passerà? Magari sono io portatore sano? L’incertezza ci ha pervasi.
Ognuno, questa primavera, ha vissuto il suo dramma. Noi medici di famiglia ci siamo trovati nella situazione assurda di dover lavorare senza avere i presidi di protezione personale, senza farmaci e senza supporti per i sempre più numerosi malati. Mancavano guanti e mascherine, mancavano i saturimetri e mancavano le bombole di ossigeno.
L’ospedale era saturo, un’impresa riuscire a ricoverare un paziente grave.
Si tornava a casa stanchi e ubriachi di parole, perché lo strumento principale del nostro lavoro in questi mesi difficili è stato il parlare (per rincuorare, per rassicurare, per comprendere e decifrare segni e sintomi di chi non stava bene) . Si tornava a casa ed ecco il dubbio quotidiano: avrò fatto tutto per bene? Nel vestirmi, nello svestirmi, nel visitare... avrò fatto tutto bene o avrò dimenticato qualche passaggio e diventerò io stessa vicolo di infezione?
C’è chi in questa epidemia ha perso un familiare o una persona cara, senza la possibilità di portar loro conforto negli ultimi giorni di vita. C’è chi è stato male, ma è riuscito a restare a casa e alla fine è guarito. C’è chi è stato ricoverato e al dramma della malattia ha aggiunto il dramma della solitudine. C’è chi è rimasto separato per mesi dalla sua famiglia e chi ha dovuto conciliare il lavoro “smart” a domicilio con il lavoro a tempo pieno di genitore. C’è chi ha seguito la maratona dell’epidemia su tutti i giornali e telegiornali e chi, ad un certo punto, ha spento i mezzi di comunicazione e ha ripreso la lettura di un libro dimenticato.
Ognuno di noi ha cercato e trovato delle strategie per reagire al dramma dell’epidemia; non è stato per nulla facile ma quasi tutti ci siamo riusciti: ciò vuol dire che il nostro corpo e la nostra mente hanno delle risorse incredibili e inimmaginabili che emergono proprio quando ne abbiamo più bisogno.
Avete notato? Abbiamo riacquistato il piacere di fare una bella chiacchierata – seppur via cavo – con gli amici e i parenti. Abbiamo recuperato i rapporti di buon vicinato, aiutandoci a fare la spesa, dandoci il buon giorno dalla finestra. Abbiamo riscoperto quanto è bello essere essenziali, svuotando le dispense alimentari infinite che il consumismo ci induce ad avere, utilizzando gli abiti nell’armadio che son sempre troppi, sopravvivendo anche senza aver acquistato l’ennesimo paio di scarpe.
Abbiamo dato nuovo valore a ciò che davamo per scontato: una passeggiata, un caffè con gli amici, il profumo del maggese, potersi muovere in libertà e senza timore. Abbiamo recuperato il senso della comunità: desiderosi di collaborare per un fine comune abbiamo tralasciato l’atteggiamento sempre più individuale e solitario che tanto contraddistingue il nostro secolo.
Abbiamo infine apprezzato il valore del donare: grazie a chi ha regalato le mascherine che mi hanno permesso ad inizio marzo di continuare a lavorare; grazie a chi ha donato il proprio tempo consegnando farmaci e viveri e mantenendo efficienti i tanti servizi di pronto intervento; grazie a chi – oltre alla professionalità – ha regalato un sorriso; grazie a tutte le persone che hanno compreso la gravità della situazione attenendosi alle indicazioni e raccomandazioni indispensabili per bloccare il diffondersi dell’epidemia.
Sperando di non perdere troppo in fretta tutti questi “guadagni” che tanto ci sono costati, auguro a tutti una serena estate, da vivere e godersi sempre con un pizzico di prudenza.
Dott. Floriana Bandera
Quello vissuto è stato un periodo strano, particolare, complesso e, come insegnante, quasi spaventoso. Dalla normalità di tutti i giorni, quando entravo in classe e incontravo studenti che cercavano di costruire il loro futuro sui banchi di scuola, sono passato a una situazione completamente diversa, a qualcosa di estraneo.
La lontananza sembrava avere la meglio su tutto, anche su quel processo educativo a cui ogni insegnante è chiamato. Mi sono interrogato per trovare la direzione da seguire.
Personalmente ho trovato una risposta in quell’ “I care” tanto amato da don Milani. La mia direzione è stata proprio quella: prendermi cura dei miei studenti, dei miei alunni attraverso due direzioni: quella educativa e quella umana.
C’è voluto tempo per capire come in verità erano i ragazzi, gli studenti, i primi a soffrire di questa situazione. Infatti hanno fatto di tutto per cercare di mantenere vivo il processo educativo.
Da insegnante non è stato facile non potere guardare negli occhi gli alunni, non poter vedere le loro emozioni. Superato tutto questo, è nata poi una nuova forma di educazione bella e che ha veramente creato un sentimento di gioia condivisa con gli studenti.
Non è stato facile, però, perché in certi momenti c’erano alunni che portavano sofferenza, magari per la perdita di qualcuno. Diciamo che in questo periodo la cosa bella è stata la riscoperta della forza, dell’importanza degli educatori, degli insegnati che mettono veramente al centro della loro vita la voglia, il desiderio di provare a portare questi ragazzi sulla strada di una buona umanità e di costruire belle persone.
Ad oggi rimane davvero questo sentimento che, forse, prima si era perso, con non poca sofferenza. Riscoprirlo è stato veramente bello.
Michele Ravelli
Il coronavirus ci ha colti tutti alla sprovvista come una tempesta furiosa e aggressiva. Ha messo il mondo in ginocchio ed ha cambiato la vita familiare, lavorativa, sociale e pubblica. Anche Borno è stato duramente colpito da questa emergenza, causando morti, terribili sofferenze e angosce.
In questi mesi tragici abbiamo visto anche splendidi esempi di solidarietà e di dedizione nell’aiutare e nel curare. Abbiamo sperimentato che dipendiamo gli uni dagli altri ed abbiamo toccato con mano che siamo tutti nella stessa barca e dobbiamo aiutarci con spirito di fraternità, remando tutti nella stessa direzione.
Sul futuro peseranno le conseguenze economiche. Per quanto riguarda invece l’aspetto sanitario sembra che in Italia (nel mondo purtroppo la situazione continua ad essere gravissima) si stia andando verso l’uscita da questo dramma, anche se è difficile fare previsioni realistiche, perché si tratta di un virus ancora non totalmente conosciuto. Speriamo che il vaccino non tardi troppo ad arrivare.
Dobbiamo continuare ad osservare con rigore le indicazioni igieniche e sanitarie, come pure è importante mantenere le distanze, essere prudenti e fare somma attenzione a non correre il rischio di portare coronavirus nelle case degli amici.
Vorrei soprattutto ricordare che, di fronte allo scenario del dramma del coronavirus, dobbiamo fare ricorso a Dio e implorare il suo aiuto. Abbiamo bisogno che la mano di Dio intervenga; e la preghiera è la strada che conduce al cuore di Dio.
Nelle tempeste della vita la preghiera è una grande forza; essa è un grido di aiuto a Dio, un SOS lanciato a Dio nel senso originario di “Save Our Souls”, salva le nostre anime.
Il dramma del coronavirus è anche occasione per chiedere a Dio perdono dei nostri peccati, per approfondire la nostra fede e per riprendere la preghiera personale e in famiglia, implorando con fiducia la misericordia di Dio, perché la pandemia del coronavirus e la connessa paura del futuro siano presto superate.
Card. Giovanni Battista Re
Del tempo surreale che abbiamo vissuto tra febbraio e aprile, due situazioni non dimenticherò: una porta chiusa e un tipo di silenzio mai sentito.
È il periodo di transizione (assurdo) pre-lockdown, in cui i bar sono aperti per le prime colazioni ma chiusi per gli aperitivi e la maggior parte delle attività ancora aperte. La decisione di chiudere le chiese, arriva inaspettata e incomprensibilmente assurda. Ma intanto le notizie sulla gravità dell'epidemia si fanno sempre più pressanti e sempre più terribili e io sento il bisogno di fermarmi, di trovare un appiglio a cui aggrapparmi. Il solito. È il primo pomeriggio: "Vado un attimo in chiesa" mi dico. Chissà perché, nemmeno per un secondo, ho pensato che la nostra chiesa potesse già essere chiusa! Arrivo sul sagrato da dietro, mi fiondo con le due mani tese nell'atto di spingere la porta dell'entrata laterale: chiusa. Faccio il giro: chiuso. Tutto chiuso.
La reazione a questa porta chiusa l'ho postata alcuni giorni dopo su facebook.
«Il virus è una cosa seria, ci dicono, non dobbiamo più stare insieme, fare cose insieme. Ma i bar, i ristoranti sono aperti, i negozi e centri commerciali anche. Ma a Messa non si può andare. Non si può pregare insieme. E così a me viene a mancare, nel tutto aperto seppur contingentato, il conforto della preghiera. Stamattina ho letto da qualche parte "pregare non è questione di luoghi, monti o templi: dove sei vero, ogni volta che sei vero, il Padre è con te." Ma io quel giorno di febbraio avevo bisogno di qualcosa di fisico che mi confortasse, avevo bisogno della "mia" chiesa, che sempre ho trovato aperta nei momenti bui, che ho trovato come "casa", nei momenti in cui cercavo calore. E invece la porta era chiusa. E così ho pianto. Ho pianto per lo smarrimento, ho pianto perché ero troppo debole per pregare da sola senza il conforto della "mia" chiesa. Sono salita in macchina e ho continuato a piangere come una stupida, senza sapere da dove uscissero tutte quelle lacrime… Anche ora, a due settimane dall'inizio di questa situazione, a volte mi viene il magone e non so perché. In fondo non sono malata al momento, nessuno dei miei familiari lo è. Forse è l'essere inermi, disarmati che ci destabilizza così tanto! Finalmente possiamo stare solo fermi a guardare che passi tutto questo. Dico finalmente perché gli uomini, con tutto il loro potere possono solo stare fermi. Mah, non so....
Col passare dei giorni mi sono pacificata. Paradossalmente mentre la situazione diventava sempre più grave, io ero più tranquilla. Quando sei in mano al destino diventi fatalista, quando vedi i potenti del mondo allettati come l'ultimo degli uomini, pensi che davvero davanti alla sventura siamo tutti uguali. Adesso quelli che devono prendere importanti decisioni per la popolazione, non lo fanno solo per gli altri: adesso anche loro sono gli altri, sono la popolazione. Il virus guarda i potenti e guarda gli ultimi e non vede differenze. E i grandi forse si stanno incazzando perché non possono dire al virus: "tu non sai chi sono io!" E finalmente! dico io. Finalmente si rendono conto di qualcosa che da tempo avevano e abbiamo dimenticato: che non siamo invincibili, che non abbiamo una soluzione per tutto, che c'è l'insondabile, che dobbiamo essere umili, che dobbiamo essere rispettosi, che quel che riteniamo indispensabile per rispondere ai nostri bisogni forse non lo è. Che alla fine non siamo diversi dagli uomini di 500 anni fa davanti alla peste: come allora l'unica arma è stare a casa, stare fermi, lasciare che tutto passi. Perché passerà e niente sarà più come prima!»
Passano 2 settimane. È sabato 6 marzo. Borno è invaso dai turisti (sciatori soprattutto) come se fosse Natale. La notizia arriva in serata, potente e inaspettata. Il giorno dopo, pur tra mille incertezze e contraddizioni, si incomincia a chiudere. E una dopo l'altra, nel giro di qualche giorno, tutte le attività del paese si fermano. Restano aperte la farmacia, la tabaccheria, l'edicola, gli alimentari.
È mattina e, mentre attraverso la piazza per andare in farmacia, faccio esperienza del peggior silenzio che si possa sentire! Non quello di un sonnolento estivo pomeriggio da pennichella, non quello ovattato della neve che copiosa ammanta ogni cosa, non quello della notte che accompagna il riposo. Un silenzio di non-vita. Non sento una voce, una porta che sbatte, un telefono che squilla in lontananza, una radio che gracchia. Non vedo nessuno e non sento niente. La paura che sta succedendo qualcosa di troppo grande e incomprensibile sì, quella sì, la sento. Irrompe dentro di me come una piena incontrollabile. Non riesco a ricacciare indietro le lacrime.
Davvero niente sarà più come prima!
Emilia Pennacchio
Quello appena trascorso è stato indubbiamente uno dei periodi più difficili per il nostro Paese dalla fine della Guerra. La Pandemia dovuta al coronavirus Covid19 ha catapultato tutti in una situazione prima inimmaginabile, con le famiglie chiuse in casa ad attendere buone nuove che però non arrivavano mai.
Dai telegiornali e dagli altri media solo notizie di ospedali strapieni e di nuovi contagi, fino alle immagini terribili dei camion militari carichi di bare da portare chissà dove per cremare le povere salme.
Abbiamo dovuto imparare a non avvicinarci alle altre persone, niente strette di mano, vietati baci e abbracci, sempre in giro con guanti e mascherine (all’inizio introvabili), uscite limitate all’indispensabile e in un silenzio spettrale che avvolgeva le strade dei nostri paesi.
Un poco per volta abbiamo cominciato a comprendere maggiormente l’importanza di alcuni servizi che non potevano comunque essere interrotti, nemmeno in una situazione del genere.
Innanzitutto il cibo e i beni di prima necessità per i quali i nostri negozianti hanno continuato a garantire l’apertura delle loro attività, provvedendo anche alle consegne a domicilio.
Poi la raccolta dei rifiuti continuata regolarmente nonostante il comprensibile timore di contagio da parte degli addetti all’attività, i servizi di trasporto, le manutenzioni delle reti di gas, acqua, elettricità, ma soprattutto: la sanità.
Sentire le sirene delle ambulanze nel silenzio assoluto del paese era ogni volta un tuffo al cuore, un pensiero per chi veniva ricoverato e per la sua famiglia che non lo avrebbe più rivisto fino alla sua completa guarigione (nelle situazioni migliori ovviamente) ma anche per i sanitari che lo stavano prendendo in cura.
Sinceramente all’inizio della pandemia ho pensato che nel paese dei furbi ci sarebbe stato un fuggi fuggi dalle responsabilità e dal proprio dovere, in particolar modo nei posti di lavoro oggettivamente più tutelati (leggasi pubblico impiego); qualche caso probabilmente si è registrato ma la grande e piacevole sorpresa è stata invece la passione, l’impegno e la disponibilità generale a garantire servizi, prestazioni e assistenza da parte di tutti.
Ho visto personalmente l’impegno dei dipendenti comunali rimasti comunque sempre presenti e disponibili, gli immancabili alpini e la protezione civile per fornire generi alimentari e mascherine a chi ne avesse bisogno, le nostre farmacie e i medici di famiglia subissati di richieste da parte di persone in difficoltà.
La macchina della solidarietà messa in moto dallo stato di necessità della gente ha coinvolto anche moltissimi privati cittadini che hanno preparato, cucito e consegnato migliaia di mascherine artigianali, donazioni e offerte all’ospedale e ai Comuni hanno consentito di ampliare la disponibilità di cure e assistenza ai singoli e alle famiglie.
In questo clima di partecipazione e di impegno, l’Amministrazione Comunale di Ossimo ha voluto testimoniare la stima e la riconoscenza di tutti nei confronti degli operatori nel campo della sanità e della salute che hanno prestato servizio durante la fase più acuta della pandemia.
Agli oltre sessanta cittadini impegnati come medici, infermieri, farmacisti ed altri operatori nel campo della sanità e della salute residenti nel Comune di Ossimo, il Sindaco ha consegnato un attestato di benemerenza in occasione dell’inaugurazione del nuovo centro polifunzionale realizzato all’interno dell’ex edificio delle Scuole Elementari di Ossimo Superiore.
All’interno del Centro hanno trovato posto tre nuovi ambulatori, una sala polifunzionale e la farmacia. È stato un modo per fare rivivere l’edificio della vecchia scuola elementare, chiuso da tre anni, e mantenerlo al servizio di tutte la comunità di Ossimo e dell’intero Altipiano del Sole.
È stato un momento di grande partecipazione e commozione al quale si è unito il prof. Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità e cittadino onorario di Ossimo, con una telefonata in diretta da Roma durante la manifestazione alla quale hanno partecipato anche il Dr. Maurizio Galavotti in qualità di Direttore Generale dell'ASST della Valcamonica e impegnato in prima persona durante l’emergenza sanitaria e il Sindaco di Borno Matteo Rivadossi in rappresentanza della Comunità Montana di Vallecamonica.
Roberto Bassi
Quello del lockdown è stato un periodo di fine fidanzamento e preparazione al matrimonio abbastanza anomalo.
Il corso prematrimoniale volgeva al termine, tutto era pianificato, la casa quasi completa ed il tour di consegna partecipazioni era iniziato. Insomma mancavano pochi dettagli e saremmo stati pronti per il nostro grande passo.
Le prime notizie relative ad uno sconosciuto virus proveniente dalla Cina iniziavano a spargersi ed in men che non si dica ci siamo trovati in uno stato di emergenza di estrema gravità, quasi surreale. Senza nemmeno accorgerci siamo stati catapultati in una realtà che mai avremmo immaginato: tutto era divieto, appartamenti convertiti in celle, famiglie costrette alla distanza e perdita di tante, tante, troppe persone care. Per come stavano le cose in quel periodaccio, non c’era niente di più prezioso di un momento passato insieme, di due chiacchiere faccia a faccia, di un abbraccio. Non c’era niente di più prezioso di ciò che, da sempre, era scontato.
Noi abbiamo vissuto la nostra relazione a distanza come meglio potevamo, grazie alla tecnologia le serate si passavano comunque insieme: ci si vedeva in videochiamata, si parlava, si pregava, si piangeva.
Nonostante il limite e le preoccupazioni condivise, sentiamo che qualcosa siamo riusciti a costruire: forse questo periodo ci è servito proprio come prova del nove. Ciò che sappiamo con certezza è che ne siamo usciti bene, più uniti di prima e convinti della scelta di sposarci quest’anno.
Il fatidico giorno è stato rimandato ovviamente, ma solo di qualche mese: volendo comunque fare festa come si deve per condividere la nostra gioia con tutti gli amici e i parenti, abbiamo deciso di non rinunciare al “festone”, ma rimandarlo all’anno venturo, sposandoci in forma privata quest’anno.
Il temuto Coronavirus ha inevitabilmente segnato l’anno più importante della nostra vita: ci ha portati a compiere una scelta in un modo che non avremmo mai pensato, riducendo tutto all’essenziale.
Facciamo tesoro di quel buono che abbiamo potuto trarre e preghiamo per far sì che il virus rimanga solo un brutto ricordo.
Cristina e Francesco
L'ABC della fede
Continuiamo il nostro percorso alla scoperta della Bibbia. Siamo nell’Antico Testamento, più precisamente stiamo affrontando i libri storici. Nel numero di Pasqua abbiamo parlato dei primi sette libi di questa sezione (Giosuè, Giudici, Rut, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re), ora soffermiamoci sui cinque restanti.
Nel Primo e Secondo Libro delle Cronache, la storia che va da Davide alla deportazione in Babilonia è vista sotto un nuovo punto di vista: nei libri dei Re, il centro era il palazzo reale, nelle Cronache, invece, il centro è il tempio. I libri dei Re riportano la storia politica della nazione, mentre quelli delle Cronache ne riportano la storia sotto un profilo più legato alla religione.
Nel primo libro delle Cronache troviamo lunghe tavole genealogiche per i primi 9 capitoli, poi l'accento si sposta sulla storia di Davide e sul suo desiderio di realizzare il tempio.
I primi nove capitoli del secondo libro sono dedicati al regno di Salomone, alla cui morte salì al trono il figlio Roboamo. Fu la stupidità di Roboamo a causare la divisione del regno israelita, che si divise in regno del Nord (chiamato anche di Israele e composto da dieci delle dodici tribù) e regno del Sud (chiamato anche di Giuda e formato essenzialmente dalle due tribù di Giuda e Beniamino).
Dio mette l'enfasi sul regno di Giuda, perché da Davide, appartenente a questa tribù, possiamo tracciare l'intera linea genealogica che porta a Gesù Cristo.
Nabucodonosor diventa l'artefice del giudizio di Dio su Israele e la deportazione durerà 70 anni. Il secondo libro delle Cronache si chiude con un colpo di scena: un re persiano, Ciro, riconosce la sovranità di Dio, con un editto fa proclamare per tutto il regno che Dio stesso gli ha detto di ricostruirgli il tempio e mette in condizione coloro che appartenevano al regno di Israele e di Giuda di ritornare alle loro terre.
È probabile che le Cronache siano state scritte da Esdra, in quanto presentano una sorprendente somiglianza di stile e di linguaggio col libro che porta il suo stesso nome.
Esdra era un discendente di Aronne, e apparteneva quindi alla classe sacerdotale, ma non poteva servire al Tempio perché era stato distrutto e il popolo era in esilio a Babilonia. Aveva capito che quei rotoli, che qualche sacerdote aveva portato con sé durante l’esilio, contenevano parole di portata eterna, principi divini che spiegavano il vero senso della vita. Perciò si dedicò con tutto il cuore allo studio della Parola di Dio. Non fu sicuramente facile per lui, come non è facile per noi dedicarsi allo studio in modo serio e diligente, ma ci mise tutto il suo cuore!
Il Libro di Esdra può essere suddiviso principalmente in due parti: il ritorno di circa cinquantamila prigionieri da Babilonia, guidati da Zorobabele, nei primi sei capitoli, e la storia di Esdra nei capitoli dal 7 al 10. Il re di Persia, Artaserse, riconosciuta la saggezza di Esdra (7,25), gli aveva affidato l’incarico di tornare a Gerusalemme e informarsi sulle condizioni di vita degli Ebrei già rientrati nel paese circa ottant'anni prima. Egli non chiese al re una scorta armata per difendere gli Israeliti dal nemico durante il viaggio (capitolo 8), perché la considerava una mancanza di fede verso Dio. Al suo arrivo a Gerusalemme, egli venne a sapere che il popolo aveva trasgredito la legge e molti avevano sposato donne pagane, lasciandosi trascinare nei loro riti. Esdra, allora, intervenne con molta energia: la sua commovente confessione davanti a Dio a nome del suo popolo, riportata al capitolo 9, suscitò il sincero pentimento nella comunità e si riuscì a ristabilire un certo ordine nel popolo.
Alzatevi e benedite il Signore, vostro Dio,
da sempre e per sempre!
Benedicano il tuo nome glorioso,
esaltato al di sopra di ogni benedizione
e di ogni lode!
Tu, tu solo sei il Signore,
tu hai fatto i cieli, i cieli dei cieli
e tutto il loro esercito,
la terra e quanto sta su di essa,
i mari e quanto è in essi;
tu fai vivere tutte queste cose
e l'esercito dei cieli ti adora.
Tu sei il Signore Dio, che hai scelto Abram,
lo hai fatto uscire da Ur dei Caldei
e lo hai chiamato Abramo.
Tu hai trovato il suo cuore fedele davanti a te
e hai stabilito con lui un'alleanza,
promettendo di dare la terra dei Cananei,
degli Ittiti, degli Amorrei, dei Perizziti,
dei Gebusei e dei Gergesei,
di darla a lui e alla sua discendenza;
hai mantenuto la tua parola, perché sei giusto.
(Neemia 9,5-8)
Il Libro di Neemia. I libri di Esdra e Neemia sono strettamente collegati: mentre il primo racconta soprattutto la ricostruzione del tempio in seguito all’editto di Ciro, il secondo riporta la storia della ricostruzione delle mura di Gerusalemme, conformemente al decreto di Artaserse, re di Persia. Le parole chiave del libro sono “riedificazione” e “preghiera”. L'intero libro è ricchissimo di preghiere: ogni momento per Neemia era buono per elevare una preghiera a Dio ed è un ottimo esempio di come la fede ci porti a confidare totalmente e costantemente nell'aiuto divino in ogni circostanza.
Ester. Chiesa della Dormitio al Monte Sion di Gerusalemme
Il Libro di Ester si colloca cronologicamente tra il libro di Esdra e quello di Neemia.
La protagonista è una giovane giudea che vive con lo zio Mardocheo alla corte del re persiano Assuero. Diventata regina, essa avverte il re di una congiura ordita contro di lui, scoperta da Mardocheo. Il primo ministro Aman prende in antipatia Mardocheo e ottiene dal re un decreto di sterminio dei Giudei, ma Ester interviene a favore del suo popolo e sventa la mortale minaccia di Aman ai danni di Mardocheo, il quale sostituisce alla fine Aman come primo ministro. I Giudei sono autorizzati dal re di Persia a vendicarsi dei loro nemici e per commemorare questo trionfo viene istituita una particolare festa tra il popolo ebraico.
L’autore del libro è sconosciuto, così come la data di stesura, anche se possiamo desumere che sia stata scritta dopo il 465 a.C. (anno di morte del re Assuero, identificato con Serse I, monarca persiano di cui si parla nel racconto). Lo scrittore era un buon conoscitore dei costumi di corte e della situazione storica del V secolo, dunque oltre ad aver vissuto in Persia, deve essere stato un testimone oculare di quanto racconta.
Con il libro di Ester si conclude la parte storica dell’Antico Testamento.
Luca Dalla Palma
Missione popolare
PREGHIERA PER LA MISSIONE
O Padre, nessuno può arrivare a Gesù se tu non lo attiri. Risveglia in noi il desiderio dell’acqua viva, del pane vero, della parola di vita eterna, di essere con Cristo che ci chiama amici.
Signore Gesù, abbiamo piedi, ma ci mancano strade vere, camminiamo senza orientamento e senza meta. Tu che sei la Via che conduce al Padre trasforma il nostro viaggio di vagabondi in un pellegrinaggio verso il Regno eterno.
Spirito Santo, sei Dio dentro di noi, più vicino a noi di noi stessi, fa che non parli in noi la nostra tenebra ma che assaporiamo nella gioia di essere amati dal Padre e dal Figlio.
Marco Busca
Vescovo di Mantova
Carissimo don Paolo
e carissimi fedeli delle comunità parrocchiali
dell’Unità Pastorale di Borno-Lozio-Ossimo
Un caro saluto e un augurio di serena estate da noi Missionari Oblati di Maria Immacolata di Passirano. A questo punto dell’anno, avremmo dovuto aver già condiviso con voi le esperienze delle Missioni Popolari nelle parrocchie di Lozio e Ossimo nei mesi di marzo e maggio ed essere in attesa di dare la miccia alla Missione Popolare a Borno, che si sarebbe dovuta tenere a partire dal 26 settembre fino all’11 ottobre. La pandemia per coronavirus ha cambiato le carte in tavola: ci ha obbligato a rinviare queste esperienze di evangelizzazione. Come probabilmente già sapete, abbiamo riprogrammato il tutto per il prossimo anno pastorale 2020/21. Dialogando con don Paolo e in ascolto dei Consigli Pastorali delle vostre parrocchie, abbiamo pensato di svolgere le Missioni Popolari nelle seguenti date:
parrocchie di Lozio
dal 20 al 28 febbraio 2021
parrocchie di Ossimo
dal 10 al 21 marzo 2021
parrocchia di Borno
dall’1 al 16 maggio 2021
Come abbiamo già scritto a voi parrocchiani di Villa e Laveno nel mese di aprile, dopo che la Missione popolare prevista per la fine di marzo e i primi giorni di aprile era stata sospesa, siamo tutti chiamati a sperimentare nella fede, che avvertiamo come il dono più prezioso, l’atteggiamento della “pazienza - segno della maturità della fede di una comunità - perché, forse, il Signore ci vuole più consapevoli del dono che vuole offrirci, venendoci incontro con l’azione straordinaria della Missione popolare (…). Tempo di pazienza e di attesa, che non può non conciliarsi con l’esperienza della speranza. Il rinvio della Missione lo vogliamo avvertire come un’occasione unica per lasciarci abitare dalla speranza. Cioè? Avvertire nell’anima che il Risorto ci accompagna e ci abita, ci precede e ci attende, comunque”.
Di certo questo è un tempo di preghiera e di riflessione che ci deve preparare alla Missione popolare. Inoltre siamo tutti consapevoli che le prossime Missioni Popolari dovranno tenere conto dell’esperienza che tutti abbiamo provato con la pandemia. L’annuncio del vangelo non può sorvolare sui nostri problemi e sulle sfide sociali che dobbiamo affrontare quotidianamente. L’annuncio evangelico è contrassegnato dall’amore di Dio e dal suo fine, quello di salvare, di togliere dal male, di dare speranza all’esistenza di ciascuno di noi e di tutti noi insieme, per generare continuamente la grande famiglia umana nella logica del Regno dei cieli.
Dobbiamo dircelo fin d’ora: non potremo svolgere la Missione Popolare nelle nostre comunità come se nulla fosse successo. Non potremo ignorare le molteplici esperienze umane, soprattutto quelle contrassegnate dal dolore e dalla sofferenza che i mesi del lockdown hanno causato.
In questi mesi tanti si sono lasciati interpellare dall’evento inatteso del coronavirus. È emersa forte una domanda di senso sulla vita alla luce delle necessarie limitazioni di libertà imposte dai governi, dei tanti morti e contagiati, soprattutto tra le persone anziane e ammalate, delle conseguenze prodottesi nell’ambito del mondo del lavoro e dell’economia in generale. Così le Missioni Popolari, che dovremo realizzare, non potranno eludere questo tempo già storico per la dimensione universale della pandemia e per gli effetti socio-economici che si stanno evidenziando nella vita di tutti i popoli.
Se è vero che l’annuncio del vangelo trova ostacoli nel nostro contesto sociale per alcuni aspetti culturali che rendono difficile l’azione evangelizzatrice della Chiesa, come il venir meno del senso cristiano dell’esistenza, l’abbandono della pratica religiosa, l’indifferenza per tutto ciò che è spirituale, è altrettanto significativo, o potrebbe diventarlo, che questo tempo inatteso e sofferto, messo sotto scacco da un virus misterioso, può rappresentare un’occasione per ridire Dio al cuore della gente; per raccontare con passione il suo amore, il suo essere dono di riconciliazione e di salvezza per tutti.
Sì, l’annuncio di Cristo e del suo vangelo può essere una scossa per chi avverte la drammaticità di ogni tipologia di male e l’incapacità dell’uomo di offrire una soluzione definitiva alla sua sconfitta.
La Missione può raccontare, attraverso la fede dei missionari e di tutti voi che già sperimentate la bellezza di credere nel Dio cristiano, la forza che viene dalla testimonianza del Risorto come risposta al bisogno di tanti fratelli e sorelle di essere tirati fuori dal non senso della vita, dalle tante situazioni di male, morale o altro, dalla disperazione o da altre forme di depressione o di incapacità nell’affrontare le difficoltà che la vita pone lungo il cammino di ogni persona.
La Missione Popolare può essere un’opportunità per tutti voi di Borno, Lozio, Ossimo per ricevere risposte di senso alle domande più profonde della coscienza, quella coscienza che si desta dal torpore quando è assalita da mali improvvisi, come sta avvenendo con la pandemia per coronavirus.
Una grazia, la Missione Popolare, che merita un’appassionata attesa. Anche se lunga.
I Missionari OMI di Passirano
p. Alberto, p. Dino, p. Natalino
DALLE COMUNITÀ - Borno
Trent'anni fa, il 25 agosto, moriva improvvisamente don Andrea Cobelli. Vi proponiamo alcuni articoli tratti dai Cüntòmela del settembre 1990 e del Natale 2015, per ricordare colui che fu parroco di Borno dal 1980 al 1990.
Mons. Andrea Cobelli
Palazzolo sull'Oglio 2-7-1923
Borno 25-8-1990
Carissimo Mons. Andrea
vorrei averti scritto questa lettera un mese fa quando mi avresti potuto leggere. Ora non ci sarebbe più bisogno perché puoi leggere i miei pensieri man mano che sì vanno formulando nella mia mente mentre vado ripensando i momenti di incontro vissuti con te e le lettere che mi hai scritto.
Ricordo bene la prima lettera che mi hai scritto in Bangladesh, quando ancora non ci conoscevamo di persona, perché eri arrivato da poco a Borno. «Ognuno di noi lavora in quel piccolo angolo di vigna che il Signore ci affida, anche se il cuore vorrebbe fare molto di più. So che in Bangladesh c'è tanta povertà e sofferenza… vorrei potermi impegnare di persona per alleviarla, ma devo fare i conti con l’età. Tu lavora tranquillo, non preoccuparti del babbo e dei tuoi, ci starò vicino io... e tu sta vicino ai poveri anche a nome mio».
Tornato a Borno per un po’ di vacanze, ebbi modo di conoscerti, conobbi la tua semplicità e la tua cordialità con me e con tutti, la tua instancabile premura per i poveri ed i malati e soprattutto ebbi modo di vederti in chiesa così a lungo e così fedelmente.
Mi feci coraggio un giorno e, mentre ti parlavo del mio lavoro e delle difficoltà che incontravo, ti chiesi di accettare la parte di Mosè che prega sul monte per me e per i missionari del Bangladesh. Accettasti dicendo che avresti fatto del tuo meglio. E il tuo meglio lo hai fatto con fedeltà e ostinazione, come mi confermavano le lettere che ci scambiavamo in occasione del Natale.
Quando Don Giovanni e alcuni giovani del gruppo missionario vennero a trovarmi in Bangladesh, mi portarono anche una tua busta con dei soldi per delle intenzioni di messe: capii subito che le intenzioni di messe erano una copertura per non lasciar trapelare la tua generosità. Non ti piaceva farti grande. (Scherzando dicevi che non si addiceva alla tua statura... e che il Signore ci teneva a conservarti piccolo, ti aveva tolto persino quel centimetro o due che una chioma avrebbe normalmente potuto aggiungere alla tua statura).
Assieme all'offerta c'era anche una breve lettera: «... arrivano a trovarti tante delle giovinezze, in mezzo ad esse sarei stato una nota fuori posto e poi qualcuno deve pur rimanere di guardia, ma ci sarei venuto tanto volentieri... anche se non so se il mio cuore avrebbe retto al contatto diretto con tanta povertà, quando il solo vederla in televisione mi turba. Io non sono uno che riesce ad affrontare le folle e i grandi problemi: i problemi e la sofferenza di una sola persona o di una sola famiglia già riescono a riempirmi l’anima per giorni e giorni».
Forse era vero, ma una alla volta quante persone sono entrate nella tua vita in tanti anni di ministero sacerdotale! E tu le ricordavi tutte per nome, con tutti i particolari della loro storia anche dopo anni ed anni. Anche noi missionari di Borno vi abbiamo trovato posto per tutti i nostri sogni, i nostri piani e i nostri problemi... tutto quello che abbiamo condiviso con te durante i nostri giorni di vacanza a Borno, di solito in quel momento tipico del bere il caffè con te dopo la messa.
Nella lettera di Natale 88 mi scrivevi: «... succede una cosa strana nella vita: con l'aumentare degli anni cresce la capacità di comprensione del cuore umano... ma diminuisce la forza per seguire il proprio cuore e sembra diminuire anche la capacità di comunicare a parole quello che si sente. Solo Dio, che non ha bisogno di parole per capire, è in grado di cogliere tutto quello che questo cuore vorrebbe dire e fare senza riuscirvi... e non resta che pregare perché Dio, se vuole, lo realizzi attraverso qualche altro. Chissà che Dio non dica e faccia anche attraverso di te quello che io sento e gli dico nella preghiera!».
È proprio vero. Quante volte mi sono visto nascere nel cuore cose alle quali non avevo mai pensato, ho trovato la decisione e la forza per fare cose che avrei ritenuto impossibili per me fino a pochi giorni prima. Dio può far arrivare lontano quello che un prete gli dice e gli offre nel segreto della sua anima, nella penombra della sua chiesa.
Salutandomi, il 19 agosto, mi consegnasti una busta dicendomi: «Per i tuoi viaggi, visto che ormai tu servi il mondo missionario viaggiando. Io servo il mondo tenendo questo posto fin che ce la faccio». Quasi scherzando ti risposi: «Il mondo è nelle mani di Dio, comunque ci troviamo tu ed io saremo nello stesso posto insieme: lì nelle Sue mani».
Anche ora che tene sei andato (si usa dire così) siamo ancora lì insieme nelle Sue mani e continuo a sentirti mio compagno di missione, anzi ora più di prima perché ora puoi seguire il tuo cuore e potrai incontrare di persona le folle e i poveri di tutto il mondo che avevi amato senza averli potuti incontrare.
Viaggeremo insieme sulle strade del mondo, ma a spiegarmi le cose ora sarai tu.
Cordialmente tuo,
padre Giacomo Rigali
Carissimi parrocchiani di Borno, l’alba del 25 agosto ci ha fatto incontrare nello sgomento e nel dolore: «È morto Don Andrea... ma come? quando? ma è proprio vero? ...» Dall’annuncio grave e solenne delle campane la notizia ha coinvolto tutti in un clima di profonda mestizia e così è iniziato il tempo del suffragio, del silenzio e dei ricordi.
Nella grande cerchia di “Cüntòmela” mi è stata chiesta una testimonianza e volentieri scrivo.
Per lo stile, la disponibilità e attività pastorale, penso che anche sulla sua tomba si possa scrivere: “PRESENTE”. Presente al suo Signore, quotidianamente fedele alle sue care e tradizionali devozioni e alla celebrazione dei “sacri misteri” per incarico della Chiesa. Presente ai fratelli, nei rapporti di autentica devozione in famiglia e di schietta disponibilità ai tanti fedeli incontrati nel suo ministero. Presente alla Patria, per pagare il suo contributo di cittadino onesto in compagnia di tanti commilitoni in tempi tragici, spesso da lui ricordati con intima sofferenza e santo “orgoglio”.
Il suo “presente” fa eco alla gloriosa schiera ricordata con il monumentale cimitero di Redipuglia, dove si ripetono innumerevoli “presente”.
Presente alla Chiesa per la consacrazione sacerdotale e il servizio conseguente, per il cambio o la sosta nel campo dell’obbedienza, e ancora per trovarsi con i confratelli che chiedevano collaborazione o che si raccoglievano per ritiri e iniziative pastorali.
Presente è stato in quella notte, alzandosi e infilandosi la sua veste, per poi lasciar cadere definitivamente il peso della carne e passare a cantare la gioia d'essere eternamente “presente” in Dio, fonte di gioia e di pace.
“Presente” ripete don Andrea ad ogni Bornese o amico che vorrà fermarsi sopra la sua tomba o lo chiamerà nella preghiera devota. La presenza di don Andrea è sicuramente un dono che provoca l’assenteismo di molti e dispone alla partecipazione con tutti e per tutti in Colui che è sempre con noi.
Con Don Andrea invochiamo lo Spirito, perché ognuno di noi sappia dire il proprio “presente” al nuovo pastore che il Vescovo manderà.
Don Tino Clementi parroco di Breno
e amministratore parrocchiale
Alla vigilia dell’Ordinazione e nei giorni immediatamente successivi la mente e il cuore di un novello sacerdote sono popolati da tanti sogni.
Così anch’io sei anni fa mi ritrovavo spesso a sognare a occhi aperti il paese, l'oratorio... dove sarei stato mandato a vivere e a lavorare. Ospite puntuale in questi sogni era anche il mio futuro parroco. Sarebbe stato lui, infatti, ad insegnarmi giorno per giorno, inserito finalmente nella realtà dopo tanti anni di seminario, ad essere prete.
La Provvidenza “si divertì” anche allora ad attuare i suoi progetti che non sempre collimavano con i miei poveri sogni. Ed è così che il 28 giugno 1984 Don Andrea mi accolse all'uscita dello studio del Vescovo come suo nuovo curato.
È difficile, per me, ora raccontare questi sei anni vissuti con Don Andrea, ma certamente posso affermare di avere fra le mani alcune lezioni di vita:
il lavoro silenzioso e quotidiano del prete che “c'è” quando la gente lo cerca non si fa notare, ma è prezioso servizio alla comunità;
- saper aspettare con pazienza a qualcuno può sembrare immobilismo, in realtà è la capacità di rispettare i tempi e i ritmi di crescita e di maturazione di ogni persona;
- lasciar fare non è delegare, come può apparire a prima vista, ma è il gesto di donare fiducia;
- risparmiare non è sinonimo di avarizia, ma è segno di prudente e saggia amministrazione;
- ricordare il passato non è semplice “nostalgismo”, ma è saper mettersi alla scuola della storia.
È con queste e altre lezioni di vita nel cuore che ora ricordo Don Andrea e ringrazio la Provvidenza di Dio per avermelo donato come mio primo parroco.
Don Giovanni Isonni
(settembre 1990)
Nella vita di un prete, come nella vita di ognuno di noi, ci sono persone, esperienze, incontri tempi e luoghi importanti e determinanti nel tuo modo di essere, di pensare e di agire.
Don Andrea è stato per me una persona certamente importante!
Mi ha accolto giovanissimo prete, mi ha voluto bene, mi ha stimato, ha cercato in me comunione, condivisione e collaborazione.
Nei sei anni vissuti insieme a Borno più volte ho pensato che il “povero” don Andrea si sarà spesso detto guardandomi e sentendo ciò che facevamo: “Non capisco, ma mi adeguo!”. Credo che questa sua disponibilità nei miei confronti sia stato il dono più bello che poteva farmi… accettare le “stravaganze” di un giovane, i tempi un po’ strani di chi ama la sera e la notte, le idee che non sempre sono facili da comprendere per chi è ormai già “nonno”.
In questo sfondo si colloca il grande sogno, l’avventuroso progetto, la grande fatica del nostro Oratorio Arcobaleno. Con don Andrea abbiamo veramente condiviso mattone dopo mattone questo dono stupendo che la comunità di Borno ha fatto ai suoi ragazzi. Quando ripenso ora a quei mesi mi piace pensare che don Andrea si diverta ancora oggi a giocare su un coloratissimo arcobaleno tra il sagrato di Borno e il cielo azzurro, così azzurro come solo c’è a Borno.
E penso ancora che don Andrea mi ha donato la gioia dell’essere prete…
Sì don Andrea era davvero contento di essere prete! Proprio per questo concludo questo breve ricordo condividendo una preghiera, che vi chiedo di fare vostra pensando ai preti che avete incontrato e che magari sono stati importanti e determinanti per voi, come don Andrea lo è stato per me.
Don Giovanni Isonni
(Natale 2015)
L'improvvisa scomparsa di don Andrea ha lasciato in noi una sensazione di incredulità e sgomento che risulta difficile accettare e rimuovere.
Quando si parla di una persona che ci ha lasciato, lo si fa sempre con la preoccupazione di esaltarne gli aspetti più meritevoli e di rendere omaggio alla sua esistenza.
È facile cadere nella retorica, ma penso che l'esempio lasciatoci dal nostro parroco possa essere del tutto particolare.
Siamo soliti apprezzare i valori più genuini che animano la vita solo quando ci vengono a mancare.
Provo un senso di disagio nei confronti di don Andrea: il disagio di chi ha avuto attenzione e sostegno nei momenti difficili e non ha adeguatamente ricambiato quel suo modo così discreto di offrire un contributo in situazioni per le quali a volte basta una parola rivolta con calore e semplicità.
Di don Andrea mi piaceva e di lui desidero ricordare l'umiltà di chi ritiene di dover sempre chiedere e la discrezione di chi bussa sempre anche quando è aperto, quella timidezza che a volte lo faceva sembrare chiuso e restio al contatto con la gente. Era un aspetto caratteriale che si attivava per quella suo profonda esigenza di riflettere e valutare con scrupolo e con rigore ogni sua affermazione, ogni sua iniziativa.
Certamente sul suo modo di essere avevano influito tante esperienze di vita sacerdotale, ma soprattutto quella triste e devastante della guerra e della prigionia che don Andrea aveva vissuto prima della scelta determinante del sacerdozio.
Amava spesso ricordare nelle sue omelie che quelli erano i momenti in cui si formano e si consolidano i sentimenti più veri e dai quali si esce temprati ed arricchiti di tanta solidarietà umana.
Più delle parole, che sanno sempre di circostanza, penso valga a ricordo del nostro parroco il commovente abbraccio della folla di persone che ha voluto testimoniare, nel corso delle esequie, tutto l’amore e la riconoscenza per questo sacerdote che ci ha lasciato un grande insegnamento di vita cristiana.
Caro don Andrea, parleremo di te ai nostri figli con grande rispetto ed ammirazione e sarai ricordato come avresti voluto: un prete semplice e buono.
Pietro Magnolini
DALLE COMUNITÀ - Borno
“Noi preghiamo Dio
per la santa croce sulla quale morì,
e tutto l’aiuto e la forza che ci viene da quella croce
è opera della sua bontà”
(Giuliana di Norwich, Libro delle rivelazioni. Milano, Ancora, 1984, p. 112).
Da poco più di trecento anni la chiesa parrocchiale di Borno possiede una reliquia della Santa Croce, conservata con ogni riguardo ed esposta alla pubblica venerazione, soprattutto in occasione del manifestarsi di particolari e pressanti bisogni della comunità.
L’ha ricevuta in dono nel 1703 dal pio conterraneo padre Berardo Zanettini, umile frate professo nella famiglia francescana dei riformati di stretta osservanza. Appartenente ai “Capilini de Zoanitinis”, casata annoverata tra gli antichi originari del luogo e legata alla diramata consorteria dei Mandoli (abitanti nell’omonima contrada), egli era nato a Borno il 29 marzo 1660, quinto e ultimo figlio del giovane mercante di stoffe Cristoforo (Borno 1632-1660), occupato nell’ “essercitio à far filar del stame”, e della signora Chiara Bazzoni (Cerveno 1629 c.-Borno 1692), convolati a nozze nel 1651. Al battesimo, amministrato dal rettore della parrocchia don Giovanni Antonio Contini Moretti di Capo di Ponte († Borno 1678), alla presenza del padrino dottore in legge Carlo Rizzieri di Ossimo Superiore († Breno 1691), gli venne imposto il nome di Alberto, in ricordo del bisnonno Alberto Isonni († 1629), ricco bornese commerciante di pezze da panno e di tessuti. Suoi fratelli furono: Pietro (1652 c.-Borno 1731), sposato nel 1685 con Maria Maddalena Magnoli (Pian di Borno 1658 c.-Borno 1714); Giovan Francesco (Borno 1653-ivi 1674), morto celibe; Alberto (Borno 1657-?), deceduto ancora infante; Maria Claudia (Borno 1658-già † 1691), sposata nel 1680 con il notaio Carlo Antonio Belotti di Villa Dalegno, abitante nel Pian di Borno.
Secondo una consolidata tradizione, la famiglia coltivava una spiccata sensibilità verso le opere di culto e le iniziative di carità cristiana: il nonno Giovan Francesco Zanettini (Borno 1597-viv. 1632, già † 1633) aveva ordinato nel 1632 consistenti legati a favore delle confraternite e delle chiese di Borno, disposto la distribuzione di sale e di pane a sollievo degli indigenti del paese, destinato le proprie sostanze (in caso di morte degli eredi senza discendenti legittimi) alla creazione di una cappellania per l’officiatura di una messa quotidiana nella parrocchiale, celebrando una volta alla settimana nella chiesetta campestre di San Fiorino e nella cappella dei Santi Vito e Modesto “detta la Dassa”, spendendo il resto in elargizioni ai poveri “che saranno per andare in bresciana a’ mietere o’ spigolare”, nella distribuzione di sale e di fave crude ai bisognosi che fossero venuti a casa sua nel giorno della commemorazione dei defunti; la nonna Sibillina Isonni († 1637) aveva espresso il desiderio, nel testamento dettato poco prima di morire, di essere sepolta nella chiesa del convento francescano della Santissima Annunciata.
Anche in seguito la casata mostrò attenzione verso le istituzioni bornesi: Chiara Bazzoni vedova Zanettini nel 1691 beneficò le fraglie e le chiese del luogo, diede mandato agli eredi di far macinare una certa quantità di segale e di scandella (una specie di orzo) “secca et convertirla in tanto pane da esser dispensato alli poveri” e lasciò l’ammontare di 30 scudi alla chiesuola esistente in località Dassa nel caso la comunità (o qualche privato) avesse ottenuto, entro tre anni, “che in detta chiesa si celebri la santa messa”; Pietro Zanettini (1652 c.-Borno 1731) nel 1697 comandò la dispensa ai poveri di una soma di grano “in tanto pane” e destinò 50 scudi ai frati dell’Annunciata per la celebrazione di messe; il medico Cristoforo Zanettini (Borno 1696-Roma 1784), vissuto sin dalla fanciullezza a Roma dove nel 1758 venne chiamato da papa Clemente XIII a disimpegnare i delicati incarichi di proprio protomedico e cameriere segreto, stabilì “a favor de' poveri un legato di più di mille scudi per fare la scuola a venti figliole ed il resto in dispenze”; il sacerdote don Giovan Francesco Zanettini (Borno 1686-ivi 1746), responsabile della cappellania detta dell’Organo e organista in paese, fu assai largo di offerte verso gli altari della parrocchiale.
Il nostro Alberto Zanettini, rimasto a pochi mesi dalla nascita orfano di padre, giunto all’età di diciassette anni, sentendosi attratto dalla spiritualità francescana e dall’esperienza claustrale, accolse e maturò la vocazione che lo indirizzava a prendere i voti tra i frati minori, chiedendo e ottenendo di essere aggregato alla “riformata serafica chismontana religione provincia romana” dell’Ordine, presso cui già operavano diversi religiosi provenienti dalla regione camuna. Il 2 novembre 1677 fece mettere in carta al cugino notaio Tito Federici (Borno 1651-ivi 1702) la prescritta rinuncia ai beni temporali mediante la quale ordinò la celebrazione di 55 messe in suffragio della propria anima e dei defunti di casa, lasciò l’importo di 80 scudi alla sorella Maria Claudia, “mentre però si governa honoratamente, et che sia ubidienta alla signora sua madre da esserli datti in tanti beni al tempo che si maritarà”, nominò usufruttuaria la madre Chiara Bazzoni ed erede universale il fratello Pietro. Adottato il nome di padre Berardo (in onore di uno dei cinque missionari protomartiri francescani, trucidati dai saraceni in Marocco nel 1216), compì il corso del noviziato presso il convento dei Santi Francesco e Bernardino di Fonte Colombo in Valle Reatina, nella diocesi di Rieti, dove il 4 gennaio 1679 – con l’assenso del padre guardiano Agostino da Amelia – rilasciò un codicillo testamentario con cui annullò il legato di messe fissato in precedenza. Emessa la professione perpetua e consacrato sacerdote, fu apprezzato predicatore, nonché profondo studioso e lettore (docente) di teologia in vari cenobi dell’urbe e della provincia romana.
Pur lontano e occupato nelle cure quotidiane del chiostro, mantenne vivo il legame con la parrocchia nativa a cui nel 1697 fece dono di una reliquia di Santa Benedetta martire, autenticata il 29 maggio di quell’anno dal canonico penitenziere della cattedrale di Brescia e vicario generale diocesano don Ludovico Bigoni su richiesta del procuratore della comunità bornese, il notaio Giovan Francesco Rizzieri di Ossimo Superiore († 1707): la reliquia era stata concessa il 26 febbraio 1695 dal colto cardinale Gaspare da Carpegna (Roma 1625-ivi 1714), vicario generale di papa Innocenzo XII, al frate riformato Gaudenzio Federici (Borno 1641-Brescia 1718) il quale l’aveva poi girata al confratello compaesano (di cui era anche cugino).
Nel 1703, “crescendo sempre più la pietà, il fervore, e zelo, all’honore, e gloria di Dio, all’augmento del splendore, e decoro” della chiesa bornese (fregiata della dignità di arcipretura con decreto vescovile del 14 aprile 1701) “e conseguentemente all’utilità dell’anime delli di lei parrochiani”, fra’ Berardo “l’hà arrichita dell’inestimabile tesoro d’una croce fermata dal vero, reale, e pretiosissimo Legno della Santissima Croce del Nostro Signor Giesù Christo”, da lui stesso procacciata “in Roma mediante però longo e faticoso impiego di studiosissime applicationi”. Il 21 gennaio 1703 padre Zanettini portò personalmente in patria l’insigne reliquia affidandola nelle mani del parroco don Giovan Battista Camozzi (Borno 1666-Darfo 1719) che gli era andato incontro in fastosa processione, “nella strada oltre il ponte da Bucio in avanti il capitello del S. Crocefisso”, insieme ai curati, ai componenti del folto clero rivestiti di paramenti solenni, ai confratelli della scuola dei Disciplini e a numeroso popolo pavesato a festa. La reliquia, accompagnata da legale autentica rilasciata l’8 settembre 1701, era costituita da “una crocetta del legno della Santissima Croce inchiusa in altra crocetta di cristallo circondata d’argento indorato legata nel piede con filo di seta rossa munita del sigillo in cera di Spagna appeso al detto filo” del vescovo di Veroli (dal 1690 al 1708) monsignor Domenico Zauli (Faenza 1638-1722), rinomato giureconsulto e vicegerente (dal 1701 al 1712) del cardinal vicario Carpegna: il sacro cimelio recava una seconda autentica, sottoscritta in data 11 dicembre 1702 da don Tomaso Sarotti, vicario generale della diocesi di Brescia. La preziosa scheggia, dopo “solenne adoratione, data la benedittione al popolo”, venne “riposta nella sommità d’un ostensorio d’argento varia, e vagamente laorato intrachiusa in rotondo sito in detto ostensorio formato ricoperto in ambe le parti di cristallo, et a tergo legato nel mezzo con due fila d’argento, con altro sigillo in cera Spagna à latere appeso alle medeme fila d’argento”. Di tutta la maestosa cerimonia di consegna e intronizzazione della reliquia venne steso scrupoloso verbale dal notaio e cancelliere comunale Bartolomeo Dabeni (Borno 1660-ivi 1732), partecipi in qualità di testi il chierico somasco Lanfranco Federici (Darfo 1649-Venezia 1705) e il cappellano don Bartolomeo Silli (Colere 1651 c.-Borno 1731).
Ancora nell’anno 1703 lo Zanettini regalò alla chiesa d’origine le reliquie dei Santi Deodato, Cristina, Teofila e Faconda, avute nel 1702 dal monaco agostiniano Pietro Lamberto Ledron († 1721), vescovo titolare (dal 1692 alla morte) di Porfireone, nell’attuale Israele, nonché prefetto del Sacrario Apostolico: tali reliquie vennero depositate il 17 settembre di quell’anno presso l’altare denominato della Santissima Croce (già del titolo di Sant’Antonio Abate) a cura di don Camozzi, assistito dal collega don Pietro Contini (1645 c.-Borno 1725), rettore della seconda porzione del locale beneficio, e alla presenza di due testimoni, il chierico Giacomo Antonio Contini (Borno 1689 c.-ivi 1749) e Clemente Dabeni. A coronamento degli indefessi sforzi di autentico e devoto “cercatore” di reliquie, nel 1710 fra’ Berardo ebbe dal citato monsignor Zauli, all’epoca (dal 1709 alla morte) arcivescovo titolare di Teodosia e prelato assistente al soglio pontificio, il corpo intero di San Vincenzo martire, esumato dal cimitero romano di San Calisto. Nel giugno del 1715, già defunto (in data e luogo imprecisati) il donatore Zanettini, la riverita spoglia giunse finalmente a Borno, dopo essere sbarcata nel porto di Pisogne e aver percorso la strada della Valle Camonica tra due ali di folla entusiasta e salmodiante, come si apprende da un colorito e diligente resoconto compilato dal parroco del tempo.
Oliviero Franzoni
Fonti: Archivio Parrocchiale di Borno, Reliquie e Veridica narrazione del trasporto del Corpo di San Vincenzo; Archivio di Stato di Brescia, Notarile di Breno, notai Tito Federici, filza 485, Antonio Taglierini, filza 556, Bartolomeo Dabeni, filza 564, Alberto Rivadossi, filza 574.
DALLE COMUNITÀ - Borno
Nell’Alto Medioevo e per molti secoli a venire, a fronte di una vita grama piena di pericoli, flagellata da guerre e da malattie endemiche, pestilenziali, contro le quali nulla potevano polverine, pozioni, intrugli, salassi e quant’altro, si ricorreva ai Santi protettori:
- Sebastiano, Bartolomeo e Rocco contro la peste,
- Apollonia contro il mal di denti (unitamente a Domenico di Foligno),
- Lucia per la vista,
- Antonio abate per la protezione degli animali soprattutto del maiale,
- Defendo o Defendente per soccorsi plurimi ma soprattutto contro le tempeste e i contagi,
- Gregorio taumaturgo contro le rovine,
- Agata per gli incendi,
- Fermo gli animali dell’agricoltura,
- Rustico gli agricoltori,
- Liberata il parto con Cristoforo portatore di Gesù Bambino,
- Venanzio contro le cadute,
- Domenico di Foligno i morsi dei rettili (in Francia s. Pélerin o Pérégrin) e dei cani idrofobi…
Vivendo in tempo di pandemia da coronavirus metteremo a fuoco le figure dei Santi Guaritori cui fecero ricorso, nel corso dei secoli, i nostri avi dell’Altopiano, segnatamente dei paesi di Borno e Ossimo. Tutti e due erano dotati di lazzaretto per l’isolamento dei contagiati ma, mentre a Ossimo è rimasto il toponimo Pat, Borno ne ha creato uno nuovo “Lazzaretti”, forse per indicare anche la pluralità dell’utilizzo del luogo.
Nella chiesetta dei Lazzaretti sono due i richiami ai Santi Guaritori: Rocco e Carlo Borromeo.
Il primo è poi ripreso nella chiesetta di s. Antonio e nel primo altare destro della parrocchiale. È una delle figure meglio individuate dai numerosi semi di riconoscimento; il principale è sicuramente la piaga aperta in una delle cosce a ricordare la sua malattia da cui era guarito, per cui poteva curare gli appestati senza temere di essere contagiato nuovamente. Gli altri segni sono quelli tipici del pellegrino e lo accomunano a san Giacomo: il cappello a larghe tese per ripararsi dalle intemperie, la mantellina (che da lui prenderà il nome di sanrocchino) su cui è appuntata una conchiglia per raccogliere l’acqua per abbeverarsi, mantello e abito a mezza gamba, stivaloni o calzature con lunghe calze e, da ultimo, il bordone, con la fiaschetta della acqua, per appoggiarsi nel viaggio e difendersi dalle bestie.
Questi segni non sempre sono presenti contemporaneamente, come il cagnolino che l’avrebbe rifocillato, il tascapane…
Borno, parrocchiale; primo altare a sinistra: S. Sebastiano
Borno, Lazzaretti: S. Rocco ammalato di peste
Borno, Lazzaretti: S. Carlo B. comunica un’appestata
Ossimo I., statua di S. Rocco venerata nell’omonima chiesa
Ossimo S., parrocchiale: statua di S. Rocco del secolo XVI
Ossimo S., parrocchiale; ancona altar maggiore: S. Sebastiano
Ossimo I. parrocchiale nella volta: S. Rocco
Ossimo Inferiore ha dedicato a S. Rocco una chiesetta che, nel corso dei secoli, ha subito numerosi rimaneggiamenti e offese. Costruita a seguito di una pestilenza del 1504, aveva una struttura completamente diversa dall’attuale, più simile a una delle santelle tradizionali, ma l’intervento del Borromeo la ricondusse a forma di chiesetta per le chiusure imposte, eliminando soprattutto il portico sul davanti, che serviva da riparo anche ai viandanti.
La chiesetta custodisce, in una nicchia dietro l’altare, una statua del Santo, proveniente dalla Val Gardena: opera dello scultore Alois Kostner, risale al secolo XIX.
La prima grande pandemia di cui si hanno notizie storiche fu quella denominata “antonina” nel primo secolo dell’Impero romano (165/180); si trattò di vaiolo o morbillo. Interessò tutto l’Impero e dovette colpire anche l’Altopiano, allora sede privilegiata dei Romani di Valle Camonica, ma sui suoi esiti non sappiamo nulla. Basti ricordare che a Roma perirono 2.000 persone al giorno e il totale dei decessi fu tra i 5 e i 30 milioni.
A partire dal 1346 la peste nera si diffuse in Asia e in Europa fino al 1533, sterminando un terzo della popolazione europea per un totale di 20 milioni di morti. Anche per questa pandemia non abbiamo riscontri sull’altopiano.
Borno fu interessato a episodi pestilenziali negli anni dal 1504 al 1530: fu probabilmente allora che si attivò il lazzaretto e la primitiva cappella. Nel 1576 la peste colpì il Milanese, esaltando le virtù del cardinal Borromeo che soccorse gli ammalati in tutti i modi, esponendosi al contagio che lo risparmiò. A lui si attribuì la fine della pestilenza.
Ossimo loc. Pat: santella del lazzaretto
Negli anni 1630/33 esplose una delle pandemie peggiori: la “peste manzoniana”; Ossimo pagò un prezzo altissimo: 234 deceduti, un terzo degli abitanti, mentre Borno ne registrò solo 38. La Valle Camonica perse 5000 abitanti.
Nel secolo XIX ci furono ondate successive di tifo petecchiale a partire dal 1817 e poi tifo asiatico fino al 1867, anno in cui la chiesetta del lazzaretto di Borno assunse la struttura attuale.
La “spagnola” del 1918/20 colpì sicuramente l’Altopiano ma non si hanno dati poiché era severamente vietato parlarne, data la coincidenza col primo conflitto mondiale; sulle lapidi dei deceduti comparivano allocuzioni del tipo “per il feral morbo…”
Francesco Inversini
N.B. Le informazioni relative alle pandemie sull'Altopiano, alle chiesette dei Lazzaretti e di S. Antonio sono di Oliviero Franzoni che ringraziamo di cuore.
Noi oggi ammiriamo questi Santi che occhieggiano dalle pale d’altare, dai medaglioni che adornano le volte delle chiese, dalle nicchie ove sono posti come statue, ma essi sono diventati ciò che noi conosciamo nel bel mezzo delle situazioni drammatiche, quali appunto le pandemie, durante le quali si sono donati a servizio e soccorso dei bisognosi.
SAN SEBASTIANO - Nacque circa il 256 d.C. e morì negli anni tra il 287 e il 304; visse al tempo delle terribili persecuzioni di Diocleziano. Ufficiale dell’esercito imperiale, divenne comandante della corte pretoria per la difesa dell’imperatore. Convertitosi al cristianesimo e scoperto affrontò il martirio: legato a una colonna, fu fatto segno di decine di frecce. Gettato nel Tevere come morto, fu recuperato e curato. Una volta risanato affrontò nuovamente l’imperatore che lo fece decapitare. Il suo corpo piagato dalle frecce richiamò l’idea delle piaghe della peste e per moltissimi secoli fu invocato come Santo guaritore, poi sostituito parzialmente da Rocco.
SAN ROCCO - Nacque in Francia, a Montpellier tra il 1345 e il 1350; di famiglia agiata, distribuì i suoi averi ai poveri, avendo molti tratti in comune con S. Francesco d’Assisi, di cui era molto devoto. Intraprese un pellegrinaggio alla volta di Roma. Incappò nella peste in provincia di Viterbo e si dedicò all’assistenza degli ammalati, dispensando miracolose guarigioni: bastava il tocco della sua mano per guarire gli ammalati. Dopo l’udienza dal Papa, riprese il suo cammino nelle città colpite dalla peste ma fu a sua volta contagiato e si ritirò a vita di penitenza. Guarito, riprese il cammino per tornare a casa ma non fu riconosciuto dai suoi parenti che lo imprigionarono, ritenendolo una spia. Rimase in carcere cinque anni fino alla morte, che lo colse tra il 1376 e il 1379 e fu finalmente riconosciuto. Si narra che avesse una voglia a forma di croce sul petto, all’altezza del cuore: spesso nelle sue raffigurazioni compare la croce sopra il petto.
Fu universalmente riconosciuto come Santo guaritore della peste, sostituendosi a S. Sebastiano.
DALLE COMUNITÀ - Borno
La foto testimonia la bella iniziativa di don Paolo e degli altri nostri preti di proporci tre sere – 11-12-13 giugno – come preparazione alla solennità del Corpus Domini, recuperando anche il Triduo dei morti che non avevamo potuto celebrare a causa dell’epidemia che ci ha costretto a rimanere chiusi in casa per due mesi scombussolando abitudini personali e sociali.
Tutti mascherati e con il coro ridotto a pochi elementi per mantenere le debite distanze, in queste tre sere ci ha aiutato nella riflessione don Giuseppe, nostro parroco dal 1990 al 2009, con un tema a lui molto caro, sviluppato in tre tappe: Dio ama gli uomini, gli uomini amano Dio, gli uomini si amano fra di loro.
Molti ricorderanno la domanda che di solito rivolgeva a bambini e ragazzi che dovevano ricevere la Prima Comunione o la Cresima: “Chi è Dio?”; domanda che suscitava un certo disagio anche nelle stesse catechiste. Queste, sottovoce, provavano a balbettare suggerimenti riferiti alla SS. Trinità, ma don Giuseppe non abbandonava il gruppo fino a quando non sentiva ribadire con vigore che Dio è amore.
Oltre all’imponente e sempre ammirata “Machina del Triduo”, rimasta montata ben oltre il consueto periodo prima della Quaresima, come possiamo vedere ai piedi dell’altare sono state poste le fotografie delle persone morte durante il periodo più acuto della pandemia. È giusto ricordare che solo una parte di queste sono morte a causa della tremenda infezione virale; di tutte comunque non è stato possibile la celebrazione dei funerali.
Durante le tre serate dinanzi ad ogni volto veniva acceso un cero che andava ad unirsi alle molte candele della Machina.
Facendo una breve ricerca in Internet possiamo scoprire che la tradizione del Triduo dei Morti è nata proprio in circostanze simili a quelle che abbiamo vissuto. Si racconta che durante la peste del ‘600 (quella descritta da A. Manzoni ne “I promessi sposi) o a causa di guerre e battaglie locali, in diversi paesi di Brescia e di Bergamo – proprio due delle città più colpite anche quest’anno dall’epidemia – non era stato possibile assicurare ai molti morti una degna funzione religiosa. Ecco quindi che, in un secondo momento, si pensò di commemorare e pregare per tutti questi defunti accendendo una candela per ognuno di loro intorno all’Eucarestia esposta.
Storicamente le tradizioni dei Tridui dei Morti hanno avuto origine e si sono sviluppate anche per altri motivi quali, ad esempio, la volontà di ribadire la fede cattolica nella presenza reale di Gesù nell’Eucaristia e, sempre in contraddizione con i protestante, riaffermare l’idea del purgatorio e della necessità di pregare per accorciare il tempo della pena e della purificazione delle stesse anime purganti. Se non sbaglio il concetto temporale degli anni da scontare in purgatorio, ora è considerato bizzarro anche dalla stessa teologia cattolica.
Ma è bello pensare che, sia su questa terra sia in paradiso, tutti siamo chiamati ad immergerci e ad essere un riflesso luminoso dell’amore di Dio.
Franco Peci
DALLE COMUNITÀ - Borno
Cornicioni prima
Cornicioni dopo
Cella campanaria prima
Cella campanaria dopo
DALLE COMUNITÀ - Borno
“Ciascuno dia secondo quanto
ha deciso nel suo cuore,
non con tristezza ne per forza,
perché Dio ama chi dona con gioia”
(San Paolo, 2 Cor 9,7)
Se vuoi contribuire al restauro della chiesa parrocchiale di Borno puoi farlo tramite bonifico bancario IBAN: IT50I 03111 54120 000 000 002368 (causale: lavori di ristrutturazione della chiesa)
Come una grande scatola blu al centro del paese, la nostra chiesa parrocchiale da qualche mese cattura l’occhio di chi ammira in lontananza Borno. Dopo 3 anni di indagini, studi, rilievi, plichi di permessi, pareri e confronti con la curia e la soprintendenza, lo scorso febbraio sono iniziati i lavori di restauro delle sue facciate e l’intervento di alta ingegneria sulle capriate che sostengono il suo settecentesco tetto, provato dalle intemperie e dallo scorrere inesorabile del tempo. Interrotti a causa della pandemia, da qualche settimana gli stessi lavori sono ripresi con rinnovata lena, partendo dal campanile che infatti ora spicca lucido e brillante, preludio di come apparirà tutto il complesso a restauro finito.
La galleria fotografica che abbiamo proposto nelle due pagine precedenti è senza dubbio curiosa e fornisce un’idea di quanto lavoro si nasconda dietro quei grandi teli blu. Riteniamo fondamentale che il cantiere diventi, sia per i bornesi sia per i turisti che amano Borno, occasione per approfondire la conoscenza di questo bene e per contribuire, se lo vogliono, alla sua cura.
In effetti l'intervento nella sua complessità richiede un impegno economico importante: circa 390 mila euro, di cui 135 mila finanziati dalla Fondazione Cariplo mentre la restante parte rimane in carico alla parrocchia.
La nostra chiesa accoglie sotto le sue volte non soltanto i fedeli per le diverse celebrazioni liturgiche, ma anche numerosi eventi culturali che spaziano dai concerti alle visite guidate per far conoscere le caratteristiche più strettamente architettoniche ed artistiche di questa imponente struttura. Siamo convinti che questi due aspetti debbano rimanere uniti: la chiesa è stata e continuerà ad essere essenzialmente luogo di culto, casa di preghiera, ma proprio perché frequentata da persone che vivono il nostro paese, è destinata a rimanere lei stessa parte integrante della storia e del tessuto sociale di Borno.
Contribuire anche economicamente a mantenere la chiesa parrocchiale un bene di cui tutti possono godere, diventa quindi un segno tangibile del nostro desiderio di continuare ad essere e sentirci comunità.
DALLE COMUNITÀ - Borno
Grazie ai volontari della Quadela per aver abbellito l'area attorno alla chiesa di s. Fiorino.
La parrocchia ha ceduto un pezzo di terreno in via Funivia, in cambio il comune ha dato il materiale per la staccionata nuova attorno alla chiesetta e i volontari della contrada hanno posato in opera la recinzione, spianato il terreno, procurato e posti a dimora alcuni alberi, realizzato nuovi tavoli e panchine.
DALLE COMUNITÀ - Borno
Grazie agli Alpini
Oltre alla distribuzione dei pacchi preparati dal Gruppo Cicogna e Ottavo Giorno, al supporto logistico per le celebrazioni liturgiche, si sono presi cura della santella in via Rocca.
DALLE COMUNITÀ - Ossimo
Sabato 27 giugno, la nostra fabbrica del rottame ha effettuato un'apertura straordinaria! Motivo della raccolta è stato sintetizzato dallo slogan sulla locandina: “Nuove attrezzature per il nostro campetto parrocchiale”. Grazie alla collaborazione della Pro Loco Per Osèm che ha coinvolto alcuni volontari, è stato possibile effettuare il consueto servizio di ritiro a domicilio o “a chiamata” del rottame presso le varie abitazioni e per le vie del centro storico di Ossimo, nonché in zone limitrofe.
Anche in questa occasione il servizio è stato molto apprezzato ed ha consentito di raccogliere quasi 100 quintali di materiali!
Avevamo pianificato di effettuare questa raccolta straordinaria già in primavera, a supporto del pagamento di parte delle spese sostenute dalla Parrocchia per il prezioso intervento di manutenzione straordinaria delle strutture presso il campetto parrocchiale (intervento che aveva visto la Pro Loco già impegnata nel corso del 2019 con un contributo di 1.000 Euro).
Purtroppo per note ragioni si era dovuto sospendere e rimandare l'iniziativa, che però con il progressivo allentamento delle limitazioni, si è potuta svolgere in sicurezza.
Anche in questa occasione il ricavato è stato di 700 Euro, interamente devoluto alla Parrocchia: contributo un poco inferiore alle aspettative, vista la grande quantità di materiale avviato al riciclo, ma il prezzo più basso riconosciuto dalla società di recupero è dovuto al forte calo del valore delle materie prime a seguito del cosiddetto lockdown. Tuttavia un risultato comunque molto gradito e realizzato in una bella mattinata di sole dai nostri volontari, sempre disponibili a sostenere le iniziative della Parrocchia.
Un ringraziamento va inoltre esteso all'Amministrazione Comunale che ha concesso i permessi necessari allo svolgimento della raccolta, ed ha inoltre conferito del materiale. Ora passando sul sagrato è possibile vedere (e sentire!!) con piacere i tanti “utilizzatori che possono godere delle nuove strutture posizionate di recente grazie anche alla preziosa collaborazione tecnica di Guido e Salvatore!
Un ringraziamento particolare anche ai volontari che hanno ripristinato panchine e tavoli in legno che pure necessitavano di manutenzione.
A completamento di questa importante iniziativa, Don Paolo ha incaricato un esperto che, nelle scorse settimane, ha effettuato la potatura della grande pianta presente all'estremità del campetto, al fine di mettere in sicurezza la stessa e di alleggerirla da rami secchi.
Grazie a tutti i collaboratori e volontari che a vario titolo hanno contribuito all'iniziativa!
L. Bardoni
DALLE COMUNITÀ - Ossimo
L'estate 2020 sarà un'estate speciale!
Sono stati mesi difficili per le famiglie, una drastica interruzione alle attività consuete e un lungo periodo di isolamento nelle case: per l'esperienza dei più piccoli non è stato necessariamente un tempo brutto o negativo, ma sicuramente non è stato un tempo "pieno" perchè privato di qualcosa.
Nasce il desiderio e la necessità di ripartire.
L'intenzione di Don Paolo e del Consiglio della Scuola dell'infanzia Sacro Cuore di aprire il centro estivo all'asilo è stata quella di riportare le bambine ed i bambini nei loro luoghi abituali e di permettere loro di riprendere quella socialità che in questi ultimi mesi è stata completamente sospesa. Il centro estivo vuole ridare ai bambini il sano desiderio di divertimento, di socialità, di aria fresca e di amicizia.
Le responsabilità sono grandi, la situazione epidemiologica è ancora incerta e le normative sono in continuo cambiamento e difficili da attuare dal punto di vista economico e organizzativo, ma con determinazione viene scelto di provarci e di svolgere un compito da apripista per quella che sarà l'offerta formativa dei prossimi mesi.
Gli apprendimenti obbligati o inconsapevoli provocati dal virus hanno imposto una nuova organizzazione degli spazi interni dell'asilo, hanno consentito di riprendere la socialità ma solo in piccolo gruppo, hanno dettato nuove abitudini nella routine quotidiana e nuove modalità nello svolgimento delle attività del centro estivo.
Le richieste numerose di iscrizione da parte delle famiglie e l'entusiasmo dei bambini nel ritrovarsi e nel tornare negli spazi dell'asilo, hanno ripagato degli sforzi fatti per avviare il centro estivo.
Inoltre, grazie all'aiuto del Comune di Ossimo, alla Pro Loco ed a numerose persone che hanno lavorato per la realizzazione del nuovo parco giochi, i bambini da quest'estate possono giocare e divertirsi in uno spazio sicuro e pieno di belle novità.
Il centro estivo proseguirà fino al 7 agosto, dopodichè si partirà con i preparativi per il nuovo anno scolastico.
DALLE COMUNITÀ - Lozio
Anche se il coronavirus ha scombussolato tutto, ad alcuni dei nostri appuntamenti non abbiamo voluto rinunciare. La Festa dell’Anziano è uno di questi.
Una festa strana e diversa quest’anno: abbiamo voluto festeggiare i nostri anziani insieme ai nostri patroni Ss. Nazzaro e Celso. Una bella Messa sentita e partecipata e piacevolmente allietata dai canti dei Musicanti di Lozio che, dopo mesi di digiuno canoro e con le dovute precauzioni, sono ritornati a cantare.
Vedere la chiesa gremita di gente fa sempre un certo effetto. Molti anziani non hanno potuto esserci, ma il pensiero è andato ad ognuno di loro.
La nostra Antonia, ospite di Villa Mozart, ha fatto avere una lettera intensa e commovente che la nostra Mascia ha letto; questa lettera ci ha fatto capire come sono stati davvero difficili quei terribili mesi per loro. Purtroppo questo maledetto virus qualche segno lo ha lasciato anche lì.
A presiedere l’Eucarestia era presente il vicario della diocesi di Brescia don Carlo Tartari, che è stato piacevolmente colpito da come tutto è stato predisposto.
Per la gioia di tutti a fine Messa è stato donato un pensierino agli anziani e un omaggio in più a Valerio, classe 1927, e Franca, classe 1929, che capitanavano il gruppo dei meno giovani.
A chiusura di questa bellissima festa il concerto delle melodiche campane di S. Nazzaro affidato al campanaro Eric.
DALLE COMUNITÀ - Lozio
Gentili lettori,
sono da qualche tempo ospite della residenza per anziani Villa Mozart di Lozio e, dato che la nostra bravissima animatrice Mascia e Il nostro Don Paolo ci hanno detto che anche noi facciamo parte di questa Comunità e Parrocchia, mi sembra doveroso che ci facciamo conoscere e lasciamo qualche testimonianza sul nostro vissuto qui.
Anzitutto siamo una piccola comunità e siamo qui, nella residenza, perché, essendo ammalati, abbiamo bisogno costante di aiuto, sostegno e conforto.
Viviamo in una valle meravigliosa circondata da bellissime montagne contornate da pinete e boschi di conifere e possiamo godere di uno splendido panorama e respirare aria pura.
Essendo tutti anziani e invalidi, abbiamo poche possibilità di conoscere la zona e partecipare alle innumerevoli funzioni e manifestazioni che si svolgono sul territorio, ma ci teniamo informati grazie ai volontari e alla nostra animatrice che ci proietta alcuni filmati, condivide le novità e, quando è possibile, ci accompagnano personalmente a visitare il territorio e nella bellissima Chiesa dedicata ai SS. Nazzaro e Celso, adiacente alla struttura, per partecipare alla Santa Messa. Purtroppo, negli ultimi mesi, a causa della pandemia, non possiamo più uscire e di questo siamo molto dispiaciuti. Domenica 26 luglio, infatti, in occasione della festa dei nostri Santi Patroni Nazzaro e Celso e di tutti gli anziani della comunità, non abbiamo potuto partecipare alla funzione. Abbiamo però ricevuto la gradita sorpresa del Vicario Episcopale Don Carlo Tartari, che ci ha salutato e benedetto al suono festante delle campane suonate, per l’occasione, da un bravissimo e giovanissimo campanaro: Eric Procaccianti Ringraziamo la Parrocchia del bel regalo che ci ha fatto.
Tornando al racconto della nostra vita a Villa Mozart, nelle ventiquattr’ore siamo accuditi da medici, da bravi infermieri e da validi operatori. La casa è molto accogliente, ma come tutti gli anziani sentiamo la mancanza della famiglia e della casa e ci fa piacere quando i volontari, i sacerdoti, i nostri familiari, i bambini, il Coro e gli Alpini vengono a trovarci e ci portano un sorriso, una carezza e ci fanno sentire ancora amati.
Prima dell’emergenza sanitaria, durante la settimana, sempre con la nostra animatrice, svolgevamo nel salone animazione molte attività: feste, vari esercizi e giochi per aiutarci a conservare la nostra poca memoria, musicoterapia, canto con la fisarmonica, (alcuni anziani hanno ancora una gradevole voce e cantano con piacere), molta pittura, cartelloni e lavoretti legati alle stagioni e alle festività che facevamo anche con i bambini della scuola materna di Lozio (molto allegri, bravi ed educati). Adesso, con le limitazioni e il distanziamento sociale imposto, ci ritroviamo comunque in piccolo gruppo nei nostri nuclei per svolgerle.
Non manca il movimento: facciamo ginnastica dolce e balliamo per tenerci un po’ in esercizio e per quelli che possono, anche attrezzistica o riabilitazione in palestra con gli ottimi fisioterapisti, il signor Mauro e la signora Marta.
Avrei molte cose ancora da dire, specialmente sui bambini che, quando vengono a trovarci, con la sola loro presenza e la loro vivacità ci aiutano a dimenticare, almeno per qualche momento, i nostri vari guai e ci fanno giocare e sorridere felici. Ci mancano tantissimo e speriamo quanto prima di poterli riabbracciare!
Un ringraziamento ai nostri pochi ma preziosissimi volontari che non possiamo vedere da mesi, ma che ricordiamo sempre con affetto e gratitudine: Franca, Angela e Fortunato, Pierino, Marinella, Domenica, Mina: senza di loro molte attività ed uscite sul territorio non riusciremmo a farle così bene! Hanno sempre una parola di conforto, una battuta, una carezza o un abbraccio per noi.
Nella speranza di poterci incontrare, vi invio, anche a nome di tutti gli ospiti della residenza, un caro saluto e un arrivederci a presto (se il Signore vorrà).
Sig. Antonia Picinelli (classe 1927)
È stato davvero bello leggere queste righe della Signora Antonia. La redazione di Cüntòmela le fa i complimenti e la invita a diventare corrispondente ufficiale da Villa Mozart!
DALLE COMUNITÀ - Lozio
Anche quest’anno la comunità di Lozio si è ritrovata all’imbocco della val Baione dove sorge l’incantevole chiesa di S. Cristina. Viste le normative vigenti non si è potuta svolgere la fiaccolata che ogni anno vede l’accensione del falò nel sagrato per poi raggiungere la vicina frazione di Sommaprada (o al contrario da Sommaprada e Villa si raggiunge la Chiesa).
Si è svolta però la celebrazione Eucaristica domenica 19 luglio che ha visto l’affluenza di parecchi fedeli da tutte le frazioni della valle di Lozio e non solo.
Padre Giovanni ha celebrato la S. Messa nella chiesetta a cui è molto legato. Nel pieno rispetto di tutte le normative la S. Messa è stata molto vissuta, tutti siam tornati a casa più ricchi spiritualmente grazie alle parole del Padre, che risuonavano in una cornice di montagne che sembrano proteggere la nostra chiesetta e l’intera vallata.
Stiamo vivendo un periodo particolare, per questo salire a S. Cristina ha un valore ancora maggiore. La mezz’oretta di camminata vien sempre ripagata dallo splendore del panorama visibile all’arrivo con l’imbocco della Val Baione dove la chiesa sorge. Parecchie sono le leggende su S. Cristina, raccontate anche da cartelli posizionati lungo il percorso. Tutta la comunità è legata alla propria chiesetta sul monte e ognuno, con le proprie possibilità, contribuisce nel corso dell’anno alla sua cura: c’è chi pulisce il sentiero, chi si preoccupa della pulizia dell’interno, ma quello che accomuna tutti i fedeli è senza dubbio il desiderio di un momento di pellegrinaggio che si conclude con la partecipazione alla S. Messa nella sua ricorrenza ed il momento di preghiera durante gli altri giorni dell’anno.
È una ricorrenza molto sentita: S. Cristina unisce tutti, fedeli e non. Lo sforzo della salita non si avvicina neanche minimamente all’impegno di quanti, nel XVI secolo, si adoperarono per la sua costruzione grazie alle elemosine degli abitanti. In quest’anno così straordinario è stata celebrata una Messa anche il 6 aprile, grazie a don Paolo che nel pomeriggio di una calda giornata primaverile ha percorso l’incantevole Valle di Lozio per un momento di preghiera partendo da Sucinva e proseguendo poi per Villa Mozart, cimitero di S. Nazzaro, Laveno, cimitero di Sommaprada, Sommaprada, chiesa di Santa Cristina dove ha celebrato la Santa Messa, per giungere infine al cimitero e alla chiesa parrocchiale di Villa.
Augurandoci quanto prima di poter riprendere le attività sospese in questo periodo, ci affidiamo alla nostra Santa protettrice per superare questo momento e ripartire con maggior forza, per far sì che il nostro cammino per raggiungere la Chiesetta sia sempre pieno di gioia ed entusiasmo.
Gianfranco Furloni
DALLE COMUNITÀ - Lozio
I nostri appuntamenti del sabato sera presso il centro, con i nostri bimbi ed adolescenti continuano...
Certo le misure cautelative... distanze... e precauzioni varie non mancano.
Ciò nonostante la voglia e la gioia di stare insieme, e trascorrere piacevolmente due o tre ore insieme fanno la differenza.
Giochi ed iniziative varie continuano.
Tutti i sabati
al centro a Laveno dalle 20 alle 23.
Vi aspettiamo !!!!
ESTATE INSIEME
Quest’anno il grest, che si chiama Summerlife, è stato organizzato in modo diverso rispetto agli anni precedenti a causa dell’emergenza Covid-19.
Sono state prese tutte le dovute precauzioni, tra cui l’obbligo di indossare la mascherina e il distanziamento sociale, per questo motivo le elementari e le medie sono state divise in due gruppi; le medie a Ossimo Inferiore e le elementari a Borno.
Nonostante la situazione sanitaria, il divertimento non manca mai!
Ogni giornata varia, soprattutto in base al tempo: infatti quando c’è il sole facciamo i giochi d’acqua, quando c’è brutto tempo pure.
La nostra giornata è più o meno così: dopo la misurazione della febbre e l’igienizzazione delle mani, abbiamo un momento di tempo libero per poi iniziare le attività. Alle quattro mangiamo la merenda. Dopo la merenda altro tempo libero, in cui giochiamo a ping-pong, carte, biliardino ecc. A fine giornata ci ritroviamo sotto il portico per un momento di riflessione, in cui ascoltiamo canzoni e ci confrontiamo.
Ogni settimana, il mercoledì facciamo una gita: il lago di Lova, l’Acquaplanet di Darfo, Pat e il Monte Altissimo.
Tutti i venerdì noi ragazzi delle medie andiamo a Borno insieme ai bambini delle elementari, sia per stare insieme, ma anche per preparare le varie tappe della caccia al tesoro, che viene organizzata dagli animatori.
Per concludere, un grazie speciale va a Michele Ravelli, Valentina Maggiori, Sofia Franzoni e Ornella che ci hanno intrattenuto e fatto divertire.
Chiara Maggiori
Dopo quasi un anno di inattività, per l’oratorio di Ossimo è stato ora di riaprire i battenti. Domenica 19 luglio, infatti, grandi e piccini si sono ritrovati per mangiare una pastasciutta in compagnia e guardare un film all’aperto dopo la Santa Messa del grest, che quest’anno si chiama Summerlife. È stato un momento di preghiera, ma anche di ritrovo per tutti coloro che non si stancano mai di stare insieme, neppure se si trascorre gran parte della propria giornata in compagnia.
Non è servito molto: un proiettore, il cielo stellato e un film che mettesse d’accordo i gusti di tutti.
Questa serata non sarebbe stata possibile senza il costante impegno di tutti gli animatori che tutte le estati mettono anima e cuore per regalare pomeriggi e serate di divertimento.
E visto che noi animatori non ci stanchiamo mai di passare del tempo insieme, e visto il successo che la serata ha avuto, abbiamo deciso di replicare, questa a volta a Borno e questa volta mangiando la pizza!
Queste serate, così come Summerlife, sono state l’ennesima dimostrazione di quanto l’unione faccia la forza: nonostante le svariate regole dettata dalla situazione sanitaria del nostro paese, grazie in primis a Don Paolo e al Comune, è stato possibile organizzare delle attività pomeridiane per non restare mai soli e scherzare insieme, sempre con le dovute precauzioni.
Summerlife, infatti, ha come scopo principale un ritorno alla normalità, per quanto possibile, stando comunque attenti a rispettare le distanze di sicurezza per la salute di ognuno di noi.
Un altro punto importante è stata la riscoperta del nostro territorio: per questo motivo sono state organizzate diverse uscite all’insegna del divertimento e della conoscenza dell’Altopiano del Sole, in modo da donargli l’importanza che merita. Tra queste il Lago di Lova, l’Annunciata, il Monte Altissimo in seggiovia, il museo etnografico di Ossimo Superiore e i Lazzaretti.
Quest’anno la nostra Summerlife è stata più impegnativa degli scorsi grest: non sono mai mancate riunioni la mattina e alla fine del pomeriggio. Ringraziamo per questo anche tutti i genitori che si sono resi disponibili per il triage iniziale e le merende.
E ricordiamoci che, come dice il nostro inno, “con la mascherina ci riprendiamo la città”!
Gli animatori
riCon i MISSIONARI
Barueri, 21 luglio 2020
Carissimi don Paolo e amici tutti di Borno,
come state? Spero nella pace e nella gioia di sapersi nelle braccia di Dio Padre che ci ama, ha cura di noi e non ci abbandona mai.
Questa è anche la nostra dimensione, in questo tempo di pandemia nella quale assistiamo quotidianamente all’aumento dei casi di contagio e del numero dei morti in tutto il Brasile.
È un tempo nel quale dobbiamo con la preghiera e il sacrificio intensificare la nostra fede e la nostra fiducia nel Dio della vita e essere profeti di speranza in mezzo al nostro popolo tanto provato.
Io dopo quasi cinque anni in Contagem - Belo Horizonte nello Stato di Minas Gerais a dicembre sono stata trasferita nella comunitá di Barueri, cittá vicino alla grande metropoli di San Paolo, la capitale dello Stato di San Paolo che si trova nella regione sud del Brasile con 44 milioni di abitanti. La nostra comunitá è inserita in un quartiere popolare dove ci sono tante famiglie povere che con questa pandemia vedono peggiorare la propria situazione.
In comunità siamo tre suore: sr Serafina che è italiana e lavora in una cooperativa solidale che realizza alcuni progetti sociali in favore delle famiglie carenti, sr Jeane che è brasiliana e lavora in un Istituto di formazione per ragazzi e adolescenti e io che lavoro nella segreteria parrocchiale e seguo piú da vicino i giovani, per la formazione e l’accompagnamento spirituale. Tutte e tre collaboriamo direttamente o indirettamente con i vari gruppi e le varie pastorali della parrocchia: pastorale giovanile, vocazionale, catechetica, familiare, liturgica e sociale in particolare con il gruppo di San Vincenzo de’ Paoli per l’aiuto concreto ai poveri e ai “moradores de rua”, i senza tetto.
Carissimi queste sono alcune brevi notizie della nostra bella missione qui in Barueri che è cominciata con entusiasmo ed è stata quasi subito ostacolata, ma non impedita dal coronavírus. In realtá, in questo tempo di sofferenza per tutti, abbiamo sperimentato la presenza amorosa e misericordiosa di Dio nei tanti gesti di solidarietà e fraternità ricevuti e offerti, in una preghiera piú intensa e condivisa anche attraverso i mezzi di comunicazione e nelle molteplici conversioni di cui siamo testimoni.
Ringrazio tutti per il grande affetto che sempre mostrate per noi vostri missionari, sostenedoci con la vostra costante preghiera e la vostra vicinanza.
Che il Signore continui a benedire ognuno di noi e a convertirci al suo infinito amore. Un grande abbraccio e, a Dio piacendo, arrivederci all’anno prossimo per festeggiare insieme i miei 25 anni di consacrazione religiosa.
Vostra Sr Ester
Con i MISSIONARI
26-7-2020
Carissimi Don Paolo e amici di Borno,
ricevete prima di tutto i miei più cordiali saluti e le mie scuse per questo lungo silenzio.
Non è che sia molto affaccendato ma la vecchiaia mi sta facendo pigro e ho l'impressione di non aver nulla di nuovo da raccontare. Secondo i miei piani avrei dovuto già essere in vacanza a Borno, ma questa pandemia ha scombussolato i miei piani perché i voli aerei sono diventati più incerti e confusi. Penso quindi che sarò da voi per il prossimo Natale.
Questi mesi passati chiusi in casa sono stati strani per me, ma penso che lo siano stati anche per voi. Ne ho approfittato per darmi alla lettura di qualche libro recente di teologia, bibbia e missione. Come vecchietto ne avevo proprio bisogno per mettermi un po’ al passo con gli studenti di teologia con cui vivo e lavoro. Loro sono aggiornatissimi, al passo con le grandi scuole di teologia di Manila.
Mi ha fatto molta impressione vivere in una città con più di dieci milioni di abitanti bloccati nelle loro case, con chiese e scuole chiuse, senza potersi nemmeno incontrare.
La gente si è trovata senza lavoro e quindi senza soldi e i più poveri anche senza mangiare, sopravvivendo con i pochi viveri passati dal governo. Le Filippine hanno molti che lavorano come migranti in tanti paesi del mondo, anche tutti loro sono dovuti rientrare, molti perdendo il posto di lavoro. Sperano ora di poterlo ritrovare, se tutto andrà bene.
Nelle parrocchie ci siamo dati da fare per mantenere in qualche modo i contatti, ma le chiese si sono aperte solo da quest'ultima settimana di luglio. Che impressione vedere le chiese chiuse per mesi, senza incontri o riunioni, senza attività di alcun genere. Ora fortunatamente sembra che si ricominci a vivere, ma chissà quando riusciremo a riprendere il ritmo di prima!
La mia vita qui è semplice e molto tranquilla, gli studenti mi fanno buona compagnia e mi fanno sentire non proprio così vecchio anche se loro sono attorno ai trenta e io vicino agli ottanta. Sono fortunato!
Buone vacanze a tutti! Arrivederci per Natale!
Cordialmente vostro,
P. Giacomo
Con i MISSIONARI
Nascita: 11/11/1937
Vestizione: 3/10/1956
Professione Temporanea: 4/10/1957
Professione Perpetua: 4/10/1960
Ordinazione: 3/04/1965
Missionario in Brasile: 20/04/1965
Morte: 27/06/2020
Fra Narciso (Francesco Baisini) nacque a Borno, provincia de Brescia, Italia, il giorno 11 Novembre 1937. Era figlio di Matteo Baisini e Caterina Odelli. L’anno successivo fu battezzato nella chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista, a Borno, il 15 novembre. Ricevette la prima comunione a 7 anni dal suo parroco don Ernesto Belotti e a 8 anni fu cresimato dal vescovo di Brescia, Mons. Giacinto Tredici.
Il 29/09/1949, terminato il 5º anno del corso elementare, entrò nell’Ordine Cappuccino, prima a Genova, poi a Loano (Savona) e infine nel seminario di Albino. Nel 1952, ad Albino, ricevette il nome di Fra Narciso da Borno. Nel convento di Lovere fece il santo noviziato nel 1956. Il 4/10/1957 emise i voti di povertà, obbedienza e castità. Dal 1957 al 1960 risiedette a Cerro Maggiore, poi a Cremona e a Bergamo, frequentando il liceo classico e filosofia. Il 4 Ottobre 1960 emise i voti perpetui nelle mani di Fra Romano da Como, provinciale della Lombardia. Dal 1961 al 1965 nello studentato di Milano fece gli studi di teologia.
Fu ordinato sacerdote nella Basilica di Santo Ambrogio di Milano dal Vescovo ausiliare Mons. Oldani, il 3 aprile 1965. Quindici giorni dopo partì per il Brasile come missionario e sbarcò il 21 Ottobre all’aeroporto di Guararapes, a Recife. Il giorno seguente mise piede per la prima volta nel Convento del Carmine a São Luís do Maranhão, accolto dal padre custode Fra Arialdo Zambelli. Dopo tre mesi di adattamento cominciò la sua prima esperienza missionaria come vicario cooperatore nella parrocchia di Anil dove rimase un anno.
Nel 1967 fu inviato a Esperantinópolis con l’incarico di visitare le numerose comunità interiorane. In questo periodo contrasse la terribile malattia comune ai missionari, la malaria. Dovette andare a trattarsi a Grajaú sottostando per tre mesi alle cure mediche di Fra Alberto Beretta. Nel 1970 fu trasferito a Tuntum, sempre nel Maranhão, collaborando con Fra Dionisio e Fra Liberato per organizzare la pastorale della gioventù. Le sue doti di costruttore cominciarono a rivelarsi nella costruzione del salone parrocchiale e dello stadio sportivo a lato della parrocchia.
Nel 1971 fu destinato a Porto Franco come parroco. In questa città svolse con zelo il suo ministero costruendo alcune cappelle, la casa parrocchiale, ristrutturò la chiesa e avviò decine di giovani al seminario diocesano, a quello dei cappuccini e ad altre congregazioni religiose (quattro cappuccini, quattro diocesani, due religiose). Nel 1983 fu mandato a Imperatriz come parroco della Parrocchia di San Francesco. In questa residenza costruì una parte dell’attuale convento, una piccola policlinica per attendimento medico e la cappella del cimitero municipale.
Il 2 febbraio 1986 si stabilì finalmente nella città di Açailândia che all’epoca era un polo molto promettente del sud del Maranhão. Fra Narciso prese stabile dimora in questa regione e si mise a lavorare alacremente nella diffusione della fede cattolica. Durante il suo periodo di parroco riuscì a marcare profondamente una intera generazione attraverso un intenso apostolato tra i giovani e le famiglie. Nel 1987 costruì il semplice ma bel convento della Fraternità locale. L’anno successivo costruì con l’aiuto dei parrocchiani e di amici il Centro Pastorale, e contemporaneamente si lanciò ad evangelizzare la periferia della città che cresceva in maniera rapida e disorganizzata in conseguenza della immigrazione di molta gente che proveniva da diverse parti del Maranhão e del Brasile attratta dalla promessa di lavoro e impiego nelle numerose falegnamerie, del commercio del legname e negli stabilimenti siderurgici. Con l’aiuto dei vari confratelli che integrarono di volta in volta la fraternità di Açailandia durante quegli anni, e specialmente con il sostegno di Fra Gesualdo Lazzari, costruì cappelle e centri pastorali in quasi tutti i rioni della città.
Il 14 ttobre 1991 pose le fondamenta della costruzione della nuova chiesa parrocchiale di San Francesco di Assisi e si recò in Italia per raccogliere fondi a questo scopo. Completò la costruzione in tempo record e ne celebrò la solenne dedicazione il 6 giugno del 1992, giorno anniversario dell’emancipazione della città, alla presenza dell’allora vescovo di Imperatriz, Mons. Afonso Gregory, dell’allora viceprovinciale Fra Franco Cuter e di varie autorità civili, militari e religiose. Il grandioso tempio è una delle maggiori chiese del Maranhão, capace di contenere anche 1500 persone.
Nel 1993, assieme al sindaco appena eletto Ildemar Gonçalves, e accogliendo l’appello della Campagna della Fraternità di quell’anno, “Fraternità e Abitazione”, rivendicò diecimila lotti di terreno per case popolari, dando origine al quartiere più grande di Açailândia, la “Vila Ildemar”. In questo quartiere ricevette in dono due terreni per la costruzione della Chiesa di San Sebastiano e del futuro ricovero per anziani. In quel periodo, per commemorare il centenario dell’arrivo dei cappuccini nel Maranhão, iniziò e concluse il ricovero per anziani, chiamato “Lar Frei Daniel”, in omaggio al Venerabile Fra Daniele da Samarate. Alla sua inaugurazione, avvenuta il 20/2/1994, si fece presente Fra Apollonio Troesi, a quel tempo Vicepostulatore della Causa di beatificazione di Fra Daniele.
Nel 1995 per decisione dei superiori della Vice Provincia, Fra Narciso continuò in Açailandia con l’incarico di vicario parrocchiale. Negli anni successivi si dedicò con grande impegno a portare avanti l’opera del ricovero Fra Daniele, soccorrendo gli anziani più bisognosi di Açailandia e della regione. Riuscì con l’aiuto di amici e di benefattori a migliorare diversi ambienti e situazioni nel ricovero. Su quel terreno costruì una bellissima chiesa in stile originale – forse la più bella della regione – dedicata alla Madonna, Regina della Pace. Fin dal 2006 Fra Narciso abitò in quel luogo in una modesta casa costruita a lato del ricovero, da lui chiamato Porziuncola Oasi Francescana, e lo era davvero, poiché tutti coloro che lo visitavano avvertivano nel cuore una pace non comune. Ormai con la sua salute compromessa per le fatiche di tanti anni di lavoro e con la bella età di 82 anni, Fra Narciso si preparò ad uscire dalla scena di questo mondo in un modo discreto per andare ad abitare nella casa dell’Altissimo (Salmo 90,1).
Della sua testimonianza fedele e seria si distaccano gli incontabili frutti del suo laborioso raccolto: le famiglie che ha seguito, i bambini, i giovani (specialmente coloro che entrarono nella Vigna del Signore) e gli anziani a favore dei quali profuse la maggior parte del suo ministero sacerdotale, gli ambienti che ha lasciato nei diversi luoghi dove è passato. Ricevette onori al merito nei vari municipi in cui lavorò, come quello di cittadino illustre. Insomma, fu un servo fedele che fece quello che doveva essere fatto (Lc 17,10). Fra Narciso d’ora in poi entra nella galleria degli illustri della “Província Nossa Senhora do Carmo” perché seppe veramente fare storia e il suo nome rimarrà eternamente scritto nei cuori di coloro che lo conobbero e ammirarono. Tutta la sua vita può essere riassunta in poche parole – caratteristica peculiare del suo modo di comunicare, breve e diretto: “Ho imparato a fare di tutto un po’, ma quello che so fare con amore e dedizione è essere sacerdote e religioso cappuccino, ieri, oggi e sempre! Il motto che imprime la mia vita è: se non è per fare storia, preferisco uscire dalla storia!”.
Fra Narciso Baisini, grazie infinite!
Frei Joacy Fernandes, OFM Cap
Belém do Pará, 27/6/2020
Nomi e Volti
Giulia Oliva
di Luca e Maria Chiappini
Borno 28 giugno 2020
Filippo Isonni
di Riccardo e Debora Avanzini
Borno 12 luglio 2020
Alessandro Farisè
di Giuseppe e Francesca Andreoli
Borno 25 luglio 2020
Rebecca Belotti
di Stefano e Adriana Borserini
Ossimo Inf. 19 luglio 2020
Nomi e Volti
Noemi Anna Martinelli
12-3-1950 + 16-3-2020
(Lugano)
Franca Cottarelli
1-9-1946 + 18-3-2020
Giorgio Bianchi
19-1-1937 + 4-4-2020
Norma Dicomi
17-1-1933 + 5-4-2020
Emilia Pandocchi
22-8-1924 + 15-4-2020
Emilia Zerla
18-10-1933 + 15-4-2020
Giovanni Martinelli
20-8-1940 + 16-4-2020
Bortolo Pietro Damasi
14-2-1940 + 18-4-2020
Francesca Rivadossi
27-5-1933 + 27-4-2020
Maffeo Felice Rivadossi
28-11-1929 + 2-5-2020
Lorenzo Sarna
10-1-1944 + 6-5-2020
Francesco Peci
10-3-1946 + 10-5-2020
Pierina Corbelli
23-9-1929 + 14-5-2020
Domenica Ghitti
29-8-1926 + 15-5-2020
Maria Andreoli
12-3-1933 + 17-5-2020
(mamma di don Giovanni)
Maria Lenzi
16-2-1923 + 25-5-2020
Francesca Scalvinoni
18-6-1926 + 30-5-2020
Caterina Baisini
7-10-1939 + 23-6-2020
Albino Rivadossi
25-6-1955 + 5-7-2020
Giuseppina Avanzini
11-6-1938 + 8-7-2020
Martino Corbelli
3-11-1927 + 9-7-2020
Giorgio Andrea Franzoni
25-4-1945 + 12-7-2020
Faustino Martinelli
29-3-1938 + 22-7-2020
Giacomina Sarna
26-4-1941 + 25-7-2020
Maurizio Rizzieri
frà Giorgio
10-2-1923 + 30-3-2020
Maria Giacomelli
1-11-1937 + 5-4-2020
Anna Maddalena Andreoli
30-7-1940 + 26-4-2020
Matteo Francesco Rigali
30-10-1937 + 3-5-2020
Veronica Tadea Zani
1-12-1932 + 25-5-2020
Giancarla Franzoni
21-3-1962 + 27-5-2020
Alessandrina Rizzieri
14-4-1930 + 6-4-2020
Margherita Andreoli
15-11-1943 + 23-4-2020
Martino Innoc. Bottichio
3-3-1939 + 18-5-2020
Aldina Leschiutta
11-9-1933 + 12-7-2020
Un grazie anche a chi ha abbellito e si prende cura di questo spazio del camposanto di Borno, dove da alcuni anni vengono sepolti i bambini mai nati.
Anche questo è un atto di fiducia nell'amore e nella vita eterna.
Nomi e Volti
Auguri vivissimi a
Franca Ghidini
e
Sergio Baisotti
di Borno
che il 14 giugno 2020
hanno festeggiato il notevole traguardo.
Tanti auguri
a
nonna Maria
di Ossimo Inferiore
che il 21 maggio 2020 ha compiuto 98 anni.
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