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Padre Defendente Rivadossi
Missionario Cappuccino in Amazzonia per 50 anni
- La mia vocazione
- La nostra patria: il mondo!
- Un missionario e la Principessa
- Sangue rosso a servizio del Re
- Imparando
- Mia mamma
- Anil
- Colonia do Prata
- Tuntum – Ma
- Nova Timboteua
- L’armadio assassino
- Nova Timboteua
- La Banda
- Nostalgia e addio
- Santana
- Il convento
- Ricordi
- Addio, Brasile!
- Per Concludere
Miei cari amici e amiche, una giovane maestra che si chiama LEIDIANE, mi ha chiesto che contassi la mia storia, dalla mia infanzia fino ai nostri giorni. E io un po’ alla volta ho iniziato a scrivere le mie memorie, perché lei ha trovato molto interessante e vuole pubblicare. Io potevo avere al massimo quattro anni e la mia santa mamma mi faceva ballare sulle ginocchia e così pregava: MADONNA SANTISSIMA, PRENDETE QUESTO MIO FIGLIO, E FATE DI LUI UN FIGLIO DI SAN FRANCESCO... Ricordo che io mi arrabbiavo e non avevo tanta voglia di pregare e di queste cose, perché a me piaceva giocare, e, come tutti i monelli della mia età, ne combinavo di tutti i colori. La mia famiglia era molto povera, eravamo otto fratelli, quattro maschi e quattro femmine.
Mio papà era un contadino all’antica, aveva fatto la prima guerra mondiale, come alpino, combattendo sull’Ortigara, il calvario degli alpini. Avevamo due o al massimo tre mucche, per avere un po’ di latte. Io sono cresciuto come tutti i monelli della mia età, ho frequentato il catechismo, ho fatto la Prima Comunione, Cresima, sono stato perfino un chierichetto della chiesa parrocchiale di BORNO, un piccolo e bellissimo paesello, situato nelle Alpi dell’Italia.
In quei giorni un frate andava da quelle parti, il suo nome, lo ricordo molto bene era BONASA, e trascinava al convento molti bambini con belle promesse.
Alcuni dei miei amici e compagni accettarono e entrarono nel seminario di Loano, in Liguria. E allora io pure ho sentito lo stesso desiderio e l’ho comunicato alla mia mamma. E lei è rimasta molto contenta e ha ringraziato la Madonna per la grazia ricevuta. Mio padre all’inizio assolutamente non voleva, ma un po’ alla volta tutte le difficoltà furono superate. I miei genitori prepararono per me le poche cose indispensabili e il giorno 11 ottobre del 1949 mi portarono al convento della SS. Annunciata. Avevo 11 anni, essendo nato il 2 marzo del 1938; era il giorno delle CENERI e la mia mamma mi diceva che ero nato per fare penitenza.
La prima tappa della mia vita in seminario è stata nel paese di ALBINO(BG), e subito sono stato rivestito con la tonaca di fratino, e il mio nome di battesimo, FERMO, è stato cambiato con quello di DEFENDENTE, che ancora oggi conservo. La vita in seminario non era facile ai quei tempi. Ricordo che un giorno sono andato a parlare col direttore, Padre Bentivoglio, che non ce la facevo più e volevo tornare a casa. Invece di consolarmi, me ne ha dette tante e così ha salvato la mia vocazione. Il Signore sia lodato!..
Sono entrato nel santo noviziato a Lovere, con l’età di 17 anni e il 15 agosto del 1956 ho emesso i primi voti, di obbedienza, povertà e castità. Avevo solamente 18 anni. L’Ordinazione sacerdotale avvenne il giorno 8 di giugno del 1963; il prossimo anno celebrerò le mie nozze d’oro sacerdotali qui nella parrocchia di San Pio da Pietrelcina, nella città di SANTANA. Sarà una festa molto bella e voi tutti siete invitati. Ritorniamo in Italia. Avevo già manifestato il mio desiderio di essere un missionario qui in Brasile. Ho ricevuto l’arma del GUERRIERO DEL SIGNORE il giorno 20 ottobre di quello stesso anno dalle mani del parroco del mio paese, Don Ernesto, di santa memoria. Qualcuno mi ha già chiesto che tipo di arma è questa... una mitragliatrice... un bazooka?... no, semplicemente il CROCIFISSO, che ancora oggi ho qui con me! Ho dato l’addio al mio paesello, ai miei genitori, famigliari, parenti e amici e il giorno 29 di ottobre sono partito con la nave PROVENCE, di origine francese, della stessa compagnia di navigazione della nave COSTA CONCORDIA, che è naufragata il mese scorso.
L’addio a mio padre è stato molto doloroso. Era molto ammalato e quando mi ha abbracciato, mi ha detto queste testuali parole, che non ho mai dimenticato: FIGLIO MIO, PARTI PURE, MA RICORDATI CHE NON CI VEDREMO MAI PIÙ SU QUESTA TERRA! Infatti dopo tre anni è morto, il giorno 11 maggio del 1966. Mia mamma mi ha consegnato una lettera, che io dovevo aprire solamente quando la nave avesse raggiunto l’oceano Atlantico. E qui termina il primo capitolo.
Primi anni in Brasile con altri missionari
Carissima amica Leidiane, sono ritornato dall’ospedale e ho consegnato il materiale della Campagna della Fraternità al Direttore; questa campagna che si fa tutti gli anni durante la Quaresima, quest’anno ha come tema: SALUTE PER TUTTI.
Adesso voglio continuare la mia storia. Ieri mi sono fermato all’episodio della lettera della mia mamma, che ho aperto il giorno 2 novembre. La nave aveva lasciato la città di Lisbona, capitale del Portogallo e navigava sulle acque dell’oceano Atlantico. Ho aperto la lettera della mia mamma e ho pianto molto, nascosto. Mi sono ricordato di tante cose, della visita alle scuole del mio paese. Dei bambini che mi chiedevano perché lasciavo il mio paese, mio padre ammalato, tante cose belle per mettermi in un mondo sconosciuto.
Molto emozionato ho detto ai bambini che guardassero il crocifisso affisso nella parete della scuola. E i bambini hanno guardato, e io ho chiesto: ma, cosa sta facendo in quella posizione? E subito i bambini mi hanno risposto: LUI É MORTO PER NOI!...Allora io ho insistito, per chi quel NOI? Per i bambini qui presenti o per i bambini del Brasile e di tutto il mondo? Questo stesso messaggio io l’ho lasciato nel mese di gennaio del 2009, quando ho dato l’addio alla comunità di Vila Timboteua. Il missionario è una persona universale, senza patria, la sua patria è il regno di Dio! Ritornando all’assunto del viaggio, sono state giornate lunghe, monotone, cielo e acqua.
Non avevo mai viaggiato in nave. C’era la cappella e si celebrava la Messa tutti i giorni. C’erano molti missionari che andavano in Brasile e in Argentina.
Noi eravamo quattro frati cappuccini: due sono già morti, padre Ermenegildo e Padre Felice Zanotti. Vive ancora Padre Elia, che ha compiuto i 92 anni il giorno 14 dicembre dell’anno scorso. Si incontra adesso nel nostro convento di Belem, ricco di anni, di santità e di molta esperienza. Arrivammo a Recife il giorno 9 novembre. Ci hanno portati in macchina fino a Fortaleza e dopo fino a Parnaiba nel Piauì. Ricordo che guardavo tutto, pensando di incontrare dappertutto grossi serpenti, tigri e indiani selvaggi... Niente di tutto questo.
Ho visitato i conventi dei frati brasiliani e ho sentito molta nostalgia dell’Italia e dei miei colleghi e amici. Da Parnaiba a San Luis siamo andati con l’aereo: è stata la prima volta. In San Luis ho iniziato la mia vita missionaria senza sapere una parola della lingua portoghese. Ma un po’ alla volta ho cominciato a parlare qualche parola e mi sono subito abituato all’ambiente. Andavo molto nelle città dell’interno per il ministero religioso.
1964: i muli come mezzo di trasporto
Siamo arrivati ieri alla fine del secondo capitolo, e oggi iniziamo il terzo. Stavo parlando del mio ministero religioso nelle città dell’interno maragnense. Ero pure vicario parrocchiale della parrocchia periferica della capitale del Maranhão, nel rione di ANIL. La parrocchia è dedicata alla Madonna Immacolata. Ho vissuto la settimana santa nella città di VITORIA DO MEARIM, e quando sono ritornato il giorno primo di aprile, ho saputo che in Brasile c’era stata la rivoluzione del 31 marzo del 1964. E per me pure c’è stata la rivoluzione, perché il superiore della missione, Frei Cosme Rinetti da Borno, ha detto che io dovevo andare nell’interno, come desobrigante della parrocchia di Carolina, nel sud del Maranhão. Carolina è una bella cittadina, situata in riva al grande fiume TOCANTINS ( 2.000 Km), è chiamata PRINCIPESSA DEL SERTÃO! Ricordo ancora il giorno del viaggio, 8 aprile del 1964. Il mio lavoro era quello di desobrigante, cioè missionario ambulante nell’interno della parrocchia. Il mezzo di trasporto era il mulo. Non ero mai andato a cavallo, ho dovuto imparare, ho fatto io pure molte cadute. Durante l’anno c’erano tre desobrighe da fare, de 40 a 50 giorni ognuna. La prima iniziava nel mese di maggio, la seconda nel mese di luglio-agosto, e la terza nel mese di novembre. Erano bei tempi quelli! Io ero giovane, avevo 26 anni, pieno di vita, di salute, e di coraggio.
La comitiva della desobriga era composta da tre animali, uno per me, l’altro per il sacrista, e il terzo per il carico. Si partiva dopo il pranzo, si camminava per tre ore o più per arrivare al posto dove si sarebbe celebrata la messa il giorno successivo. Alla sera c’era la recita del rosario, discorso, confessioni fino a tarda notte. Il luogo per dormire era in mezzo alla gente, con l’amaca, non c’era un comodo speciale, né bagno, né niente: l’acqua per prendere il bagno era nel torrente. Non c’era la cappella per celebrare la Messa, che era celebrata nella veranda, oppure sotto un tetto di paglia o sotto le piante. La povera gente era molto buona e cordiale. Ho fatto subito molte amicizie. Il giorno 18 maggio del 1964 ho celebrato il primo matrimonio della mia vita in un luogo chiamato BURITIZINHO, il nome della coppia di sposi, PEDRO e ALVINA.
Fra tutti i luoghi di desobriga quello che ha di più conquistato il mio cuore è Buritizinho. La mamma di Pedro aveva una nidiata di figli, una quindicina. Io la consideravo come una seconda mamma. Nella mia vita ogni tanto ritorno a Buritizininho per vincere la SAUDADE (nostalgia). L’ultima volta è stata il giorno 7 di settembre del 2011, quando sono stato a Carolina per celebrare il 50° di matrimonio di un’altra coppia amica, Arnolfo e Jovelina. Ma, state pur certi che il giorno 18 maggio del 2014 di nuovo mi troverò a Carolina per celebrare le nozze d’oro della coppia di Buritizinho.
Nel sertão di Carolina ho vissuto gli anni più belli della mia vita, la mia gioventù missionaria, 13 anni, dal 1964 al 1977. In questo primo anno di desobriga ho ricevuto il battesimo di tutti i missionari: la MALARIA. Quel 9 di novembre del 1964, un anno esatto dal mio arrivo in Brasile, dalla VEREDA BONITA fino al luogo chiamato ALTOS, non lo dimenticherò mai più. Cinque ore di viaggio, sotto il sole cocente, con i sintomi della terribile malattia... La malaria è appara ancora una volta nel 1968 e la terza volta nel 1970, nel mio primo viaggio in Italia, nel mese di ottobre di quell’anno a Borno.
Ho molti bellissimi ricordi di Carolina: Padre Paolino, il vescovo Mons. Cesario Minali, Mons. Marcellino, e tanti amici e amiche. Io ho una memoria fantastica, ricordo nomi e luoghi come se fosse oggi.
E qui voglio finire questo terzo capitolo, perché voglio dare molto spazio al IV, che inizierò domani, parlando delle comunità di Base: le CEBs.
Stavo parlando nel capitolo precedente, della mia vita come desobrigante nel sertão di Carolina. Ma c’erano anche altre cose nella città: le feste patronali, quella di Santa Teresina, il primo di ottobre e la grande festa del patrono della città, San Pietro di Alcantara, il giorno 19 di ottobre. Era un’animazione incredibile, con due opposte barracche: la barracca rossa e quella azzurra. Io sono sempre stato tifoso di quella rossa, perché il mio sangue è rosso e sono figlio di poveri, figlio di San Francesco, il padre dei poveri.
Interessante, a Nova Timboteua, dove ho esercitato il mio ministero per nove anni, dal 1999 al 2009, la gente di là mi ha coniato come PADRE DEI POVERI e qui nella città di Santana è la stessa cosa. Io non ho sangue azzurro, ma ero amico di tutta la gioventù della barracca azzurra. E allora ne nasceva una gelosia incredibile e qualcuno arrivò al punto di dire che il BECCO, bode, nella lingua portoghese (questo becco ero io perché avevo la barba rossiccia) era un traditore, era della barracca azzurra. Bei tempi quelli, quanta nostalgia!...
Ma ritorniamo a quello che è molto più serio: le comunità di base, le CEBs. L’evangelizzazione e la catechesi erano molto inconsistenti, molto precarie. Questo tipo di evangelizzazione era denominato di sacramentalizzazione.
Io stesso non ero soddisfatto. E allora entrò tutta la teologia del Concilio Vaticano Secondo. Nell’anno 1973 iniziammo la formazione dei laici e delle prime comunità di base. Con molta nostalgia e affetto ricordo alcune Suore cappuccine che mi aiutarono: Suor Margherita Paes, Suor Arlete, Suor Rachele, e altre. Il punto di forza di tutto questo era la parola meravigliosa di Mons. Marcellino, di santa memoria. Il sertão si trasformò spiritualmente.
La gente semplice arrivò al punto di scambiare le pistole per la Bibbia... Ci furono conversioni e molti frutti spirituali. Fra tutti il caso di Arnolfo, un ubriacone e violento, che in un corso di formazione arrivò al punto di dire che lui era un bandito, un ladro, peggio di Zaccheo, ma che da quell’ora in poi avrebbe cambiato vita e sarebbe diventato un’altra persona. E il risultato di tutto questo fu l’ottima educazione che diede ai suoi figli, due dei quali oggi sono sacerdoti. Ho già detto che nel mese di settembre dell’anno scorso sono andato a Carolina per celebrare le nozze d’oro della coppia Arnolfo e Jovelina, e i due figli sacerdoti hanno concelebrato con me, sotto le piante, perché in quel luogo non c’è la cappella, il giorno 6 di settembre.
Avrei molta cosa da contare, ma il tempo è poco... Questa avventura meravigliosa terminò nel mese di gennaio del 1977, quando sono stato trasferito alla città di Imperatriz, una città, anche lei, nel sud del Maranhão.
1970 via Gorizia: Padre Defendente con i suoi familiari
Nel mese di gennaio del 1977 ho lasciato la città di Carolina, che tanto amavo, perché è stato il primo amore della mia vita sacerdotale e missionaria. E il primo amore non si dimentica mai più... Dopo tanti anni, 35, ricordo ancora il nome delle persone e dei luoghi di desobriga. É mancata solo una cosa, di ricevere il titolo di cittadino onorario, come è avvenuto a Nova Timboteua, ma di questo parleremo più avanti. Nella città di Imperatriz, per circa due anni sono stato parroco della parrocchia di Santa Teresa d’Avila, patrona della città. Sono stato nominato parroco, la prima volta nella mia vita. Sono rimasto solo due anni, e nel mese di gennaio del 1979 sono stato trasferito nella città di Amarante do Maranhão. Non ho molte cose da raccontare di questo peroodo che ho vissuto nella città di Imperatriz. La parrocchia era molto piccola e a me piaceva fare scorribande nell’interno e, per questo motivo, quando ero a Carolina mi sono guadagnato il nomignolo di PADRE DELLA FORESTA. Nella città di Amarante sono vissuto per sette anni e ho avuto la collaborazione preziosa di una volontaria italiana, Anna Maria Pastorelli. La formazione dei laici e delle comunità di base fu portata avanti con molto successo. É stato il tempo della mia maturità umana e sacerdotale.
Anche in questa città mi sono fatto molte amicizie. La riforma della chiesa e di altre cose fu solo l’inizio di quello che negli anni successivi avrei fatto. Un piccolo asilo per i bambini fu la prima opera fatta. Stava per entrare nella mia testa la necessità di migliorare le strutture esistenti. Un po’ alla volta stavo diventando l’ARCHITETTO DEL SIGNORE... Amarante era una città di difficile accesso con strade pessime: durante il periodo delle piogge le poste rimasero chiuse per tre mesi, non ricordo l’anno. Durante questo periodo del 1986 avvenne la morte del Vescovo Mons. Marcellino (22–01–1980).
Al ritorno dal funerale ho pianto, mi sono sentito orfano, abbandonato. Ma la vita continuò. Fu eletto un altro vescovo, Mons. Alcimar, che ci diede il suo appoggio pieno. Gli anni di Amarante pure furono molto belli, ho dei bellissimi ricordi di questo tempo. Nel mese di gennaio del 1986 sono stato trasferito di nuovo, questa volta, alla capitale del Maranhão, San Luis.
Ma questa è già un’altra storia, un altro capitolo.
Fin adesso io ero considerato come il PADRE DELLA FORESTA.... Nel mese di gennaio del 1986 sono stato trasferito nella capitale del Maranhão, San Luis, come parroco della parrocchia della Immacolata Concezione, nel rione di Anil, nella periferia della città. L’inizio non è stato così facile. Io avevo il mio modo di fare un po’ contadinesco e le signore della società della capitale cominciarono a prendermi in giro: “Che male abbiamo noi fatto, per meritare un parroco abituato a trattare con tigri, contadini e selvaggi?” Nella parrocchia eravamo in tre. Io mi prendevo cura degli adulti, Padre Pierantonio della gioventù e Padre Franco Cuter della catechesi e dei bambini, un lavoro ben condiviso e fraterno. Io non avevo esperienza di coppie di adulti, (ECC Incontri di coppie con Cristo), ma un po’ alla volta ho imparato ed è stata una vera meraviglia... Quanti incontri nei sei anni che ho vissuto in quella parrocchia come parroco! Nacquero molte amicizie e ancora oggi c’è gente amica che viene a visitarmi, in qualunque luogo io mi trovi. L’ultima visita è stata alla fine del mese di ottobre dell’anno scorso.
Chi è venuto? Una grande amica, la signora Marina Faria. Quando io arrivavo in San Luis, o con l’aereo o di ônibus, lei, sapendo del mio arrivo, sempre veniva a prendermi per portarmi al convento del Carmine. Un’altra signora amica che non posso dimenticare è Marly Martins, della comunità di ANGELIM... e tante altre persone, fra tutte una ragazza, già un po’ attempata, molto viva e gelosa, Anailde. E non facciamo altri nomi...
Durante questo periodo avvenne anche la morte della mia cara e santa mamma, nel giorno 31 dicembre del 1986. Fine d’anno, trovare un posto sull’aereo e volare fino a San Paolo e poi fino in Italia è stato un vero miracolo. Sono arrivato al mio paese nel pomeriggio del primo giorno di gennaio del 1987 per celebrare la Messa di corpo presente nella casa paterna. Prima ancora che la cassa fosse chiusa per sempre, ho preso una forbice e ho tagliato un ciuffo di capelli della mia mamma, che ancora oggi conservo come una reliquia, un ricordo bellissimo. La mia mamma era molto ben voluta dalla gente di Carolina. Ricordo che nel viaggio che ho fatto nel 1975, ho portato con me un po’ di fotografie e dopo le ho distribuite agli amici delle comunità cristiane, perché loro volevano conoscere la mia mamma, almeno dalle foto.
Il funerale della mia mamma fu fatto il giorno seguente, 2 gennaio. Sono ritornato subito in Brasile, faceva molto freddo in Italia, stava nevicando.
Nella parrocchia di Anil il lavoro continuò e in una predica indimenticabile io ho detto che, essendo la mia mamma morta, assumevo la parrocchia come se fosse una seconda mamma... Potete immaginare lo shock che ha suscitato questa espressione!
Nell’anno 1988 ho celebrato le mie nozze d’argento: è stata una festa molto bella! Ricordo che nel momento di tagliare la torta, io dovevo tagliare il primo pezzo e darlo alla persona più amata che si incontrasse nel salone parrocchiale... Le signore della società erano ansiose e curiose di sapere cosa sarebbe successo... Mi ricordo che ho guardato in giro con lo sguardo birichino e poi, adagio, adagio, mi sono avvicinato a una vecchietta, che si chiamava Mundica Barbosa e ho dato a lei il primo pezzo della torta. Fu una salva di mani che non voleva finire... Tutti hanno capito che quello era un omaggio postumo alla mia santa mamma. Avrei molte cose da raccontare di questo periodo bellissimo della mia vita che ho vissuto nella parrocchia di Anil, ma vogliamo lasciarle al prossimo capitolo.
Stavo parlando del tempo della mia permanenza nella parrocchia di Anil. Sono stati anni molto belli. Ho realizzato molte costruzioni: la chiesa di San Pietro nel Planalto, il Centro Catechetico nel rione Santo Antonio e altri.
Parlando della chiesa del Planalto, ricordo che dall’Italia ho portato con me un sacchetto di terra del cimitero di Borno e l’ho interrato sotto l’altare che è come una piccola canoa. Il mio lavoro era più che altro con le coppie di sposi (ECC), quanti incontri... Io ero il Direttore spirituale di tutta la città di San Luis. C’era pure l’aiuto alla formazione spirituale dei postulanti cappuccini alla vita religiosa. Avevo la cura della Legione di Maria, dei Vicentini e di altri gruppi religiosi. Ho già parlato dei miei 25 anni di vita sacerdotale.
Ma in quell’anno di 1988, nel mese di maggio, avvenne un caso molto bello, forse il più bello di tutta la mia vita sacerdotale, la conversione di un massone sul letto di morte. L’uomo non voleva riconciliarsi né con Dio, né con la famiglia e stava per morire, per causa di un ictus alla bocca: sembrava una maschera. La sua sposa con le quattro figlie era rimasta fuori e mi pregava che io facessi qualcosa. Sono entrato nella sua stanza e mi sono avvicinato al suo letto. Mi riconobbe subito. Ho incominciato a parlare con lui di tante cose e poi gli ho detto che era giunto il momento di riconciliarsi col Signore... niente da fare! Con un ghigno mi rispose: “NON POSSO!” Sono uscito e ho detto, sconsolato, che non c’era nulla da fare. La signora, sua sposa, era molto religiosa e mi ha pregato di tentare ancora una volta. Sono entrato di nuovo tentando di fare qualcosa. “NON POSSO”. Ho avuto l’impressione che era il demonio che stava parlando... A un certo punto mi sono armato di coraggio, ho preso in mano il crocifisso del mio rosario e gli ho detto: “GESÙ É MORTO PER TUTTI!” Improvvisamente mi prese il piccolo crocifisso e gli diede un bacio e cominciò a piangere. Ho chiamato la sposa e le figlie di lui e qui avvenne il miracolo della riconciliazione: tutti piangevano di gioia, lacrime di perdono e di amore. Ho poi saputo che gli evangelici, quando vennero a conoscenza che la sua condizione era fatale, si sono avvicinati al suo letto, come tanti avvoltoi, per succhiare la sua anima. Lui li cacciò dicendo che se voleva pregare, c’era un amico con cui pregare... Ero io.
Tutte le domeniche, ritornando dalla Messa nella cappella di Santo Antonio, mi fermavo alla sua casa, prendevo una bibita, si parlava di sport, di caccia, di politica e mai di religione. Ancora oggi ringrazio il Signore per essere stato uno strumento di pace e di riconciliazione. L’addio nella parrocchia di Anil é stato molto emozionante. Mi ricordo di aver scritto una lettera che conservo ancora e che non ho avuto il coraggio di leggere. Ho chiesto che qualcuno la leggesse. L’addio ufficiale fu realizzato nel salone parrocchiale. Alcuni giorni prima, era un giorno di sabato, una turma di giovani stava facendo le pulizie nella chiesa parrocchiale. Un grande amico, il suo nome è Alvaro, mi diede un cesto di frutta, manga rosa, che io ho dato subito a quei ragazzi per la merenda. Ho raccomandato che non buttassero le bucce per terra, sulla porta della chiesa, come sempre facevano. “Sì, sì” risposero. Sono tornato dopo pochi minuti per vedere... Le bucce erano tutte per terra! .Mi ricordo che ho gridato ben forte: “PORCHETTE!” Molto bene, quando ci fu la festina di addio nel salone parrocchiale, tutte quelle ragazze erano presenti e con le lacrime agli occhi dissero queste parole: “FREI, GUARDA QUI, LE TUE PORCHETTE!” Potete immaginare l’emozione! Ancora al giorno d’oggi, dopo vent’anni, quando penso a quell’addio, mi emoziono... Qualcosa di simile è avvenuto pure il giorno 25 di gennaio del 2009, quando sono partito da Nova Timboteua per andare alla città di Santana. Il giorno 7 di febbraio del 1992 ho lasciato Anil per andare alla Colonia do Prata.
Come ho già detto, sono partito da Anil per andare alla Colonia do Prata il giorno 7 di febbraio del 1992. Il frate che mi portò alla nuova destinazione è stato Frei Antonio Pinto con la Toyota, sulla quale ha caricato le mie poche cose personali. Nella mia vita non ho mai posseduto grandi cose, ho sempre vissuto e vivo la povertà di San Francesco. La casa parrocchiale della Colonia do Prata era nel piccolo villaggio di San Giorgio, a due Km di distanza dal lebbrosario.
Nella Colonia do Prata c’erano ancora circa 500 malati (doentes), del terribile morbo de Hansen (lebbra). Ho incontrato una situazione di grande sconforto e ho incominciato a mettere in pratica quello che il crocifisso di San Damiano ha detto a San Francesco: “Francesco, vai, restaura la mia chiesa che sta cadendo in rovina”. E subito mi sono messo a restaurare gli edifici materiali, che stavano cadendo un po’ alla volta, principalmente la chiesa, una costruzione molto bella, ma in pessime condizioni. Fu eseguita la riforma completa del tetto coi soldi che nel mio viaggio in Italia, sono riuscito a raggranellare. Una cosa molto triste, il giorno 8 di luglio di quell’anno, quando ero pronto per andare a Belém per prendere l’aereo, alcuni ladri, durante la notte, rubarono la macchina della parrocchia, che non fu più incontrata. Ho vissuto sei anni nella Colonia do Prata, mio collega di lavoro era Padre Apollonio Troesi.
Oltre a dare l’assistenza ai lebbrosi, mi prendevo cura delle comunità rurali della parrocchia, fra tutte il CURY. La gente di San Giorgio aveva una grande rivalità con quella della Colonia do Prata e non ha mai capito che il motivo della nostra presenza in quella parrocchia non era il villaggio di San Giorgio, ma la Colonia do Prata, santificata dalla presenza di Padre Daniele da Samarate, che contrasse la terribile malattia nel 1909, quando aveva 33 anni. Gli anni che ho vissuto alla Colonia do Prata sono stati anni di molti sacrifici e di incomprensioni.
Nel 1995, il giorno 9 di luglio, un venerdì, ci fu il trasferimento dal villaggio di San Giorgio alla Colonia do Prata. La gente di San Giorgio si rivoltò, ci chiamò ladri e tante altre cose. L’ho già detto che il motivo della nostra presenza nella Colonia do Prata erano i lebbrosi e il fatto di trasferirci era per servire meglio i lebbrosi.... Ma la gente di San Giorgio non ha mai capito questo, o almeno, ha fatto intendere che non ha mai capito! Sono stati anni di molto lavoro, di molte riforme, i ricoveri, il refettorio e sopratutto il grande stabile della scuola, che ha queste misure: 18 metri di larghezza per 66 di lunghezza. Mai nella mia vita ho lavorato tanto come nei sei anni che ho vissuto alla Colonia do Prata. E a un certo punto mi sono stancato, frustrato, perché la gente non guardava al sacerdote come a un padre spirituale, guardava a lui come a una persona piena di soldi che doveva dare sempre. Mi ricordo che ho cercato di convincerli, realizzando opere a beneficio di tutta la comunità. Una delle cose più più belle è stata quella dei pozzi artesiani di Santo Isidoro. La gente beveva acqua sporca e io ho voluto migliorare la situazione dando acqua pulita. Adesso voglio parlare un po’ di questi pozzi. Era l’anno 1994 e la gente beveva acqua sporca.
Allora, oltre a tante altre cose, come le sedie a rotelle per tutti i lebbrosi, mi sono interessato dei pozzi. Ho chiamato una compagnia specializzata in queste cose e i pozzi sono stati fatti.
Mancava, però, la cosa più importante, l’energia elettrica potente per fare funzionare quei pozzi.
Allora ho fatto ricorso al governo dello stato del Parà, perché mettesse l’energia. Pensavo che non avrebbero fatto una cosa del genere e, invece, dopo alcuni mesi di pratiche burocratiche, l’energia potente è arrivata: un chilometro di pali e di fili. Così l’acqua ha cominciato a sgorgare dalle viscere della terra, 35.000 litri all’ora. Non ho molta nostalgia di quei tempi, furono anni di grande sofferenza, perché avevo anche calcoli renali e altre malattie. L’unica cosa che rallegrava il cuore del missionario erano le comunità rurali. Ho già parlato del Cury, ma c’erano anche altre belle comunità, come il Triangolo, Aparecida e altre.
La gente di queste comunità era molto buona e cordiale. Dopo sei anni ho chiesto ai superiori che mi mandassero in un altro posto e, nel mese di gennaio del 1998, sono stato trasferito a Tuntum nel Maranhão.
Sul finire del mese di gennaio del 1998 Frei Arimateia mi ha portato a Tuntum, una città all’interno del Maranhão, nella parrocchia di San Raimondo Nonnato, Diocesi di Grajaù. In questa parrocchia ho svolto il mio ministero come desobrigante, prendendo cura delle comunità di periferia e dell’interno.
Nella mia età di 60 anni sono ritornato a fare quello che facevo nella mia giovinezza, ma adesso non era più in lombo di mulo, ma con la Toyota, comprata con l’aiuto di un grande benefattore, lo stesso che mi aveva aiutato a restaurare la scuola della Colonia do Prata. Il suo nome è Dr.Luigi Camozzi.
Nella parrocchia di Tuntum sono rimasto fino alla fine del mese di agosto del 1999, quando fu eretta la nuova Provincia NOSSA SENHORA DO CARMO.
Allora sono stato trasferito di nuovo alla parrocchia di San Francesco nella città di NOVA TIMBOTEUA nello stato del Parà. Ma, parliamo adesso un po’ del mio lavoro a Tuntum, una parrocchia molto grande, un sertão (savana) come quello di Carolina. Ho organizzato le comunità, la liturgia con molto entusiasmo. La gente diceva che era stata necessaria la presenza di un missionario anziano per porre sangue nuovo nelle vene della chiesa.
Ho fatto molte amicizie nel breve periodo che ho vissuto a Tuntum, nella città, ma specialmente nella periferia e nell’interno. A me piaceva andare in giro con la Toyota piena di bambini che mi chiamavano NONNO. Una volta, mi ricordo molto bene, ne ho caricato 17! Potete immaginare che pazzie...
Ancora oggi, alla distanza di tanti anni, si ricordano di tutto questo.
Nella città visitavo i malati nelle case e nel piccolo ospedale locale. La gente di Tuntum è molto buona, ospitale. In quella parrocchia non ho fatto delle grandi costruzioni, solamente la cappella della Madonna Aparecida nel rione San Benedetto. Una costruzione ottagonale. Ricordo che gli evangelici dicevano che era una costruzione di ignoranti, perché il tetto era molto differente dai tetti comuni; non avevano mai visto una cosa del genere, perché era una costruzione quasi rotonda. Una costruzione come questa l’avevo già fatta a San Luis, la chiesa di San Pietro nel Planalto, e un’altra quasi identica più tardi nel villaggio di Vila Timboteua, nel Parà.
Una cosa molto interessante in Tuntum fu il mutirão (lavoro in comunità) per fabbricare mattoni nella periferia, in un rione poverissimo, il più povero di tutti. Dieci famiglie si riunirono per realizzare questo evento meraviglioso e dopo, un po’ alla volta, sempre insieme hanno incominciato a fare la riforma delle loro case che erano di fango e di paglia. Con molta nostalgia ricordo la signora Carmozina, lider di quella comunità.
L’obbedienza dei superiori per mezzo del primo provinciale della nuova Provincia NOSSA SENHORA DO CARMO, Frei Dourival Miranda, mi ha mandato a Nova Timboteua, nel Parà. Il viaggio fu nel giorno della patria, 7 di settembre. Chi mi ha portato a Nova Timboteua è stato Frai Luis Leitão.
Il giorno 7 del mese di settembre del 1999, dopo un addio molto emozionante nella chiesa di Tuntum, Frei Luis Leitão mi portò fino a Capanema nel Parà.
Sono rimasto in quella fraternità per alcuni giorni e dopo sono andato a Belém per aiutare nei lavori della festività di San Francesco. Nella città di Nova Timboteua stava svolgendo il ministero pastorale Frei Edoardo Stucchi, parroco della vicina parrocchia di Peixe Boi, e allo stesso tempo incaricato dell’amministrazione della parrocchia di San Francesco a Nova Timboteua.
L’ingresso nella nuova parrocchia avvenne in un giorno di sabato, 16 del mese di ottobre, con la presenza del Vescovo Mons. Carlo Verzelletti.
Era pure presente il compianto Antonio Della Fiore, grande amico del Vescovo, un grande lavoratore. Ha aiutato a costruire il Cenobio, la cattedrale e altre opere. Morì il giorno 2 di marzo del 2009. Ho incontrato la parrocchia semi abbandonata, tutto precario, senza casa parrocchiale, che fu venduta dal prete Don Cesare. L’abitazione del parroco era una spelonca dietro la chiesa.
Subito ho fatto mettere i servizi igienici, annessi alla spelonca, perché non c’erano ancora. E ho incominciato a lavorare, a organizzare la parrocchia e le comunità dell’interno, una quindicina. Ho incontrato nella parrocchia una persona meravigliosa, Sandra. Più avanti parleremo anche di lei.
In un giorno di domenica, era il 5 del mese di dicembre, fu collocata la prima pietra del Centro catechetico parrocchiale, e la madrina è stata la prima dama della città, la sig.ra Diana Bezerra, sposa del sindaco Manoel Nogueira.
Ella ci ha dato pure le 100 tuniche della Prima Comunione che avvenne il giorno dell’Immacolata Concezione, 8 dicembre. Bisogna capire bene il significato di queste tuniche. Nel primo mondo, nella parrocchia del mio paese, Borno, le tuniche della Prima Comunione sono date dalla parrocchia, tutte uguali, per evitare spese inutili e stravaganti.
Perché qui in Brasile con tanta povertà doveva avvenire il contrario? Quante famiglie povere erano obbligate a fare spese per non essere da meno delle altre famiglie meglio situate economicamente! Mi ricordo che qualche mamma che aveva più di un figlio per fare la Prima Comunione, è venuta poi a ringraziarmi. Io non avevo soldi e il Signore mi ha aiutato, perché dall’Italia vennero aiuti consistenti dal gruppo missionario di Borno, dal Card. Re e da altri. E fu con questi soldi che i lavori del centro catechetico furono portati avanti. L’inaugurazione avvenne nel mese di giugno del 2000. Ma, prima di arrivare al mese di giugno, vediamo di parlare un po’ di quello che è avvenuto in quel mese di dicembre del 1999.
Nel capitolo precedente stavo parlando delle tuniche della Prima Comunione. Dopo che furono usate e lavate, furono consegnate di nuovo alla parrocchia.
Ma, il problema era dove custodire quelle 100 tuniche. Ammucchiarle in quegli armadi giganti che si trovavano nella sacristia, neppure pensarlo... Io ho pensato che era meglio stendere delle corde e appendere quelle tuniche.
Ricordo ancora che sono andato a Castanhal per comprare gli attaccapanni. E allora è avvenuto l’incidente più grave della mia vita. Dopo aver comperato delle corde, ho legato una punta a una finestra e ho fissato l’altra punta con chiodi e martello a uno di quegli armadi giganti.
Io non sono mai stato una persona che dorme molto. Oggi è la stessa cosa.
A coloro che mi danno un consiglio di dormire un po’ di più, rispondo che per dormire c’è molto tempo: TUTTA L’ETERNITÀ! Molto bene, erano esattamente le 4,30 del mattino del giorno 21 dicembre del 1999 e a quell’ora io ero nella sacristia per appendere quelle tuniche della Prima Comunione, pensando ai bambini che le avrebbero usate il giorno 2 gennaio per partecipare al giubileo nella cattedrale di Belem. Mi ricordo ancora, come se fosse oggi, che ho cominciato ad appendere una, due, tre, quattro, cinque, sei, sette... e improvvisamente, senza che io potessi scappare, quell’armadio assassino è volato su di me e mi ha schiacciato per terra. Ho sentito dei dolori acutissimi, non so ancora come ho potuto uscire da quell’inferno...
Con molta difficoltà mi sono trascinato fino alla spelonca e ho chiamato Lauro, che dormiva anche lui in quella spelonca. I miei parrocchiani non volevano che io dormissi da solo in quell’antro nascosto, per paura di ladri e assalitori. Alla svelta Lauro corse a chiamare un infermiere che ha esaminato la mia colonna: i dolori erano acutissimi e io gridavo, gridavo.
Verso le 7,00 una signorina attempata, amica della parrocchia, IVETE, mi portò a Capanema, ma il caso era molto grave e il giorno 23 del mese di dicembre, antivigilia di Natale, l’ambulanza del municipio di Nova Timboteua mi portò a Belem. Fu fatta subito la risonanza magnetica e fu costatata la frattura della colonna vertebrale. Sono rimasto nel convento dei frati cappuccini, attendendo il giorno di essere ricoverato in un ospedale...
il che non era molto facile dato che era la fine dell’anno, il periodo delle feste natalizie. Ricordo che il giorno 2 gennaio la turma di Nova Timboteua, venuta per il Giubileo, è venuta a salutarmi e io piangevo... piangevo.... Il giorno 3 gennaio, un lunedì, mi hanno portato all’ospedale portoghese e il giorno 5 sono stato operato; l’operazione durò 5 ore.
Le infermiere cantavano una canzone del Rinnovamento dello Spirito: “Perché l’armadio è caduto sul padre, è per lodare il Signore, alleluia...” Furono giorni molto tristi, io dovevo avere pazienza e lasciare che facessero tutto su di me, come a un bambino appena nato. Gli studenti cappuccini a turno venivano a visitarmi. Mi ricordo di uno di loro, Fra Francesco Donesana, che dormiva, sdraiato per terra e roncava e le infermiere dovevano passare sopra il suo corpo, non piccolo, per poter avvicinarsi al mio letto. Padre Elia Baldelli veniva tutti i giorni a visitarmi e mi portava un po’ di conforto. Un santo, Fra Elia! Adesso si incontra nell’infermeria del nostro convento di Belem, con la bella età di 92 anni, ancora lucido e contento di una lunga vita, piena di opere buone. Sono rimasto nell’ospedale fino al giorno 18 di quel mese di gennaio, dopo sono stato trasportato al convento dei frati cappuccini e verso la fine del mese, esattamente il giorno 26, ho potuto ritornare a Nova Timboteua... Ho dovuto stare fermo ancora per un po’ di tempo, stare a letto.
Mi ricordo che, perché io non mi alzassi, mi nascondevano i sandali. Con molta difficoltà riuscivo a camminare e a celebrare la Messa. Ma, un po’ alla volta le cose sono andate per il meglio, ho incominciato a organizzare le Decime, le comunità dell’interno, ho dato impulso alla costruzione del Centro Catechetico. Il giorno 22, un martedì, sono andato al villaggio di Vila Timboteua per la posa della prima pietra della costruzione del piccolo santuario della Madonna del BUON VIAGGIO, forse la costruzione più bella di tutta la mia vita, anche se poi ne ho costruita un’altra a Santana, il bellissimo santuario di Santa Rita da Cascia.
Tonino uno dei bambini “speciali”, ora cresciuto, aiutato da Elena di Borno (foto del 2013)
Stavo parlando dell’inizio del mio lavoro a Nova Timboteua, di questa bellissima avventura della mia vita missionaria. Sono state molte le cose realizzate durante i nove anni vissuti, ben vissuti, in questa amata città che mi ha onorato col titolo di CITTADINO ONORARIO, per i miei servizi a favore dei poveri e bisognosi, ma, specialmente, a favore dei bambini disabili, “SPECIALI”, come si dice in Brasile, che prima erano chiamati deficienti. Il giorno esatto di questa onorificenza è stato il 16 del mese di dicembre. Qualcuno in questi ultimi giorni mi ha mandato un messaggio e mi ha chiamato CONTERRANEO!!!
Ma andiamo per tappe. Ho già parlato delle Decime. La camminata di questa pastorale è stata molto interessante e merita che racconti come è stata. Nel primo anno della mia permanenza, il 2000, le decime in tutto l’anno e in tutta la parrocchia diedero l’importo di R$ 7.500,00 e nel 2008, ultimo anno del mio ministero pastorale in quella amata parrocchia, la cifra salì a R$ 95.000,00!
L’impulso a un rinnovamento totale della parrocchia lo diede una Enciclica del Papa, il SINM, cioè ESSERE CHIESA NEL NUOVO MILLENNIO. Lo studio degli Atti degli Apostoli ha creato una nuova mentalità nella nostra gente. Le comunità si riunivano nel pomeriggio del sabato, sotto le piante, per studiare la Parola di Dio. Tutta la parrocchia ha sentito questo cambiamento.
Durante quell’anno del 2000 ho anche fatto il viaggio in Italia per le mie ferie, dopo quattro anni di assenza, per riposare e anche per raggranellare qualche soldo in più. Tutte le comunità hanno ricevuto il mio aiuto, chi più e chi meno, ma tutte hanno ricevuto qualcosa, e il numero salì a 16, senza contare le celebrazioni particolari.
Nel 2001 fu collocato il pavimento di granito nella chiesa parrocchiale e in seguito anche nel santuario della Madonna del Buon Viaggio nel villaggio di Vila Timboteua. Finalmente incominciò la parte più bella del mio lavoro missionario, l’aiuto ai bambini disabili, CRIANÇAS ESPECIAIS, fino al numero di 25. Persone buone e generose dall’Italia aiutavano mandando i soldi. Io abitavo sempre in quella spelonca dietro la chiesa; tutto programmato: prima il popolo con le sue necessità e dopo anche la casa parrocchiale nuova.
E fu così che nacque l’idea di costruire la nuova canonica, sul terreno che ho comperato nella piazza davanti alla chiesa (R$ 2000,00). Il fatto che più influenzò la costruzione della nuova casa parrocchiale è stato l’assalto avvenuto il giorno 13 del mese di aprile, nel pomeriggio, verso le ore 15,00, quando stavo contando i soldi della Campagna della Fraternità, dopo la Processione delle Palme, avvenuta al mattino. Io sono stato sempre un po’ imprudente nella mia vita, stavo contando i soldi nella veranda della casa, perché nella spelonca c’era molto caldo e molta oscurità. Stavo parlando dell’assalto: due uomini a piedi nudi, incappucciati, mi hanno rinchiuso nel bagno e poi hanno portato via tutti i soldi raccolti al mattino nella processione delle Palme.
Nel mese di maggio iniziammo la costruzione della nuova casa; la bellissima pianta è opera di un grande architetto, il Vescovo Mons. Carlo Verzeletti.
Parlando della Campagna della Fraternità, mi ricordo che uscivamo al mattino presto per fare la VIA CRUCIS, dopo aver suonato la grossa campana della chiesa, alle 4,30 per svegliare la gente dormigliona.... C’era sempre molta gente, da 100 a 200 persone! E questo fu fatto in tutti gli anni della mia permanenza a Nova Timboteua, con ottimi risultati sia spirituali che materiali. La colletta della Campagna era sempre alta, la maggiore di tutte le parrocchie dell’interno, inclusa Capanema. E non era solamente la colletta della campagna della Fraternità, era quella missionaria del mese di ottobre e quella dell’Evangelizzazione nel mese di dicembre. La gente di Nova Timboteua fu sempre molto generosa. Fin da quel tempo fu lanciato questo slogan (ritornello): NINGUÉM É TÃO POBRE QUE NãO TENHA ALGO PARA DAR... che in lingua italiana suona così: NESSUNO È COSÌ POVERO CHE NON ABBIA QUALCOSA DA DARE...
Nel mese di gennaio del 2003, esattamente il giorno 13, nacque la Banda di musica SAN FRANCESCO D’ASSISI, con gli strumenti che il municipio ci prestò. Con l’aiuto degli amici italiani ho comperato altri strumenti e con 30 persone abbiamo iniziato questa parte così bella della nostra storia.
Un maestro di Capanema veniva due volte alla settimana per insegnare, e nella processione della Madonna del mese di giugno la banda suonò per la prima volta i canti mariani: uno spettacolo molto emozionante! Ho visto diverse persone con gli occhi rossi di lacrime di gioia, non avrei mai pensato che una cosa come questa potesse avvenire... Le nostre feste patronali erano molto belle, senza bibite alcoliche, come è costume in Brasile.
Furono realizzate moltissime opere, basta ricordare il pavimento di granito nella chiesa parrocchiale, nel santuario della Madonna del Buon Viaggio e molte altre ancora, delle quali parleremo più avanti. Il progresso spirituale nelle comunità era visibile a occhio nudo. Tutto era ben organizzato quanto alla visita alle comunità e agli incontri che si realizzavano una volta al mese.
Il consiglio parrocchiale si riuniva ogni due mesi e quello delle comunità tutti i mesi: terminavano sempre con un pranzo molto frugale, ma sostanzioso, ben preparato dalla nostra segretaria Sandra che faceva tutto nella parrocchia: cucinava, lavava, puliva la casa... La pulizia della chiesa era fatta a turno dalle diverse equipe ed era sempre pulita, anche se la gente quando entrava in chiesa, veniva con le scarpe e i sandali sporchi di fango...
Fin dall’inizio incominciammo a organizzare la Messa della Solidarietà, una volta al mese, sempre nella prima domenica. La gente veniva in chiesa e portava generi alimentari per i poveri: riso, fagioli, pasta, zucchero, caffè...
Li depositavano ai piedi dell’altare, durante l’offertorio e dopo la Messa le signore dell’Apostolato della preghiera li distribuivano alle persone più povere della comunità, come facevano i primi cristiani degli Atti degli Apostoli. Fu costruito in quel tempo anche il Centro catechetico del rione Paraiso, che inizialmente è servito per alfabetizzare le persone più povere e bisognose.
La costruzione della casa parrocchiale terminò verso la fine dell’anno 2003, nella struttura principale e l’inaugurazione avvenne il giorno 2 di marzo, quando compivo i 66 anni. Fu una festa molto bella, molta gente partecipò, cibo per tutti. La comunità di 4 Bocas, con la sua comandante Carmen, arrivò un po’ in ritardo, con 16 persone, ma nessuno rimase a becco asciutto. In questo la gente di Nova Timboteua è sempre stata molto generosa.
Nel mese di maggio di quell’anno (2004) fu inaugurato il monumento a San Francesco di Assisi e la piazza davanti alla chiesa, che si chiamava Olavo Bilac, ricevette un nuovo nome: LARGO SÃO FRANCISCO. È in questo periodo che nella casa parrocchiale ebbe inizio il servizio di Alda, sorella di Sandra. Alda è rimasta per quattro anni, fino al mese di novembre del 2008, quando, avendo incontrato il suo principe azzurro, Salvatore Palumbo, si sposò con lui in Italia.
Io ho sentito molto la sua partenza, perché il rapporto con Alda è stato qualcosa di molto bello. Non ho mai considerato Alda come una funzionaria, ma come una figlia carissima.
Non c’erano segreti, lei sapeva tutto, discreta e molto efficiente. Mai un attrito o qualche parola in più. Compagna di molti viaggi: ricordo quello fino ad Açailandia nel 2007, una città del Maranhão, distante 450 Km. Trattava molto bene tutte le persone che da Belem andavano alle spiagge di Salinas, perché Nova Timboteua era a metà strada tra Belem e il mare. Per il fatto di trattare così bene gli ospiti si meritò il viaggio gratuito nella Terra Santa tra aprile e maggio del 2007. Ma, ritorniamo all’anno 2004. Banchi nuovi nella chiesa parrocchiale, di un legno molto pregiato, Ipê. C’erano già le porte, tutto dello stesso materiale, pesantissimo.
Nell’anno 2004 fu costruito pure l’arco in onore della Madonna del Buon Viaggio, 16 m. di larghezza per 10 m. di altezza e fu inaugurato il giorno 23 luglio, in piena estate, con un traffico molto intenso. Meno male che la polizia stradale è venuta in nostro aiuto, altrimenti sarebbe successo un caos.
Una vera pazzia!... Lavori nelle comunità, formazione di laici, vita spirituale, quante cose... È di questo periodo pure l’introduzione dell’adorazione silenziosa del SS. Sacramento al venerdì durante la mattinata e la preghiera delle Lodi col popolo alle 6,00 del mattino. Tutti i giorni la grossa campana della chiesa suonava alle 5,30 per svegliare i più sonnolenti alla preghiera.
Alla gente piaceva cantare e pregare con la chiesa i salmi del Signore. Una bellezza!
A Nova Timboteua ho vissuto gli anni più belli della mia vita missionaria, dopo i 13 anni passati a Carolina, come già detto. Il giorno 27 del mese di febbraio del 2005 fu eretta la Diocesi di Castanhal, smembrata dall’Arcidiocesi di Belem. Fu un momento molto forte nella storia di tutte le parrocchie e comunità rurali. La Diocesi incominciò a organizzare corsi di formazione teologica per i laici; l’anima di questa iniziativa era sempre il Vescovo Mons. Carlo Verzeletti e un prete milanese, che divenne poi un mio grande amico, Don Mario Antonelli di Monza.
La nostra parrocchia era quella che più primeggiava per la presenza nel CENOBIO, il meraviglioso centro spirituale, costruito dal Vescovo per accogliere i partecipanti ai corsi di formazione. Questo centro meraviglioso poteva accogliere fino a 300 persone per volta. Al venerdì pomeriggio il piccolo autobus di Hernandes e della compianta Soraia partiva da Nova Timboteua e ritornava domenica pomeriggio, dopo il pranzo. La parrocchia pagava il trasporto e ciascuno dei partecipanti pagava quello che mangiava.
A volte, ai più poveri pagavo anche quello che mangiavano. Mi ricordo che una volta il piccolo autobus si riempì fino all’inverosimile: 34 persone!
I frutti spirituali erano visibili a occhio nudo.
Nel 2007 ci fu pure la visita pastorale del vescovo Mons. Carlo Verzeletti e tutto ebbe un impulso ancora più bello. Dire di tutte le cose che sono avvenute in questi anni benedetti dal Signore è un compito un po’ impossibile. Mi ricordo della camminata penitenziale dei giovani, 30 Km, di notte, fino a Salinas, in riva al mare e l’adorazione al SS. Sacramento, all’aperto. E poi la confessione fatta da una ventina di sacerdoti sotto le piante di cocco.
I bambini “SPECIALI” ricevevano tutti i mesi i soldini che i padrini e le madrine mandavano dall’Italia, senza nessuna esclusione di credo, sia cattolici, sia evangelici. Ma, per causa di questo, una signora di Vila Timboteua che aveva una figlia molto SPECIALE, Laìs, è ritornata alla chiesa cattolica. La madrina di questa bambina, che poi io ho battezzato, è mia sorella Antonietta.
La vita era tranquilla, la gente molto religiosa. Nell’ultimo anno della mia permanenza a Nova Timboteua ci fu anche il Congresso dell’Apostolato della preghiera: questo evento fu realizzato nel Ginnasio coperto del municipio, con la presenza delle delegazioni delle 31 parrocchie della Diocesi di Castanhal.
La nostra banda era sempre presente in tutti questi eventi. Molti bambini dell’interno, specialmente della comunità della Sapucaia, venivano al sabato per partecipare alle lezioni di musica, con volontà di migliorare il tenore di vita del loro ambiente di contadini. Il coro dei bambini e degli adulti, tutti con la camicetta marrone di San Francesco, era qualcosa di molto bello. Le liturgie nella chiesa parrocchiale e nelle cappelle erano ben realizzate. Ai bambini e ai giovani piaceva cantare. Il piccolo coro di QUATRO BOCAS era il più bello di tutti, con circa 40 tra bambini e adolescenti.
Ma, tutto quello che è bello sempre ha la sua fine... L’inizio di tutto è stato il matrimonio di Alda col suo principe azzurro. Sandra, sua sorella, che è stata mia segretaria per molti anni, è ritornata a lavorare nella parrocchia, all’inizio del mese di novembre del 2008.
Nel mese di dicembre fu realizzato il Capitolo provinciale e già c’erano arie di cambiamento. Difatti fu ciò che avvenne. Nel mese di gennaio ci fu la visita del Ministro provinciale, Frei Rodrigo, il quale mi disse che, dopo nove anni, non potevo più rimanere a Nova Timboteua come parroco. E venne la nuova destinazione: Santana, nello stato di Amapà. Il giorno 25 del mese di gennaio del 2009 rimane per me come un giorno molto speciale nella mia vita. Samara organizzò con le altre ragazze un memorandum di tutto quello che io avevo fatto in questi nove anni a Nova Timboteua. Ci furono molte lacrime, molta emozione. Era volontà di Dio che io dovevo lasciare Nova Timboteua per venire in questa città sconosciuta, sulla sponda sinistra del grande fiume Amazonas, SANTANA! Ricordo che in quei giorni, all’inizio dell’anno, il canto responsoriale diceva così: “Ecco che vengo, o Signore, con piacere io faccio la vostra volontà”. La gente piangeva, piangeva, cantando questo salmo!
Offertorio di una Messa della solidarietà
Ho celebrato l’ultima Messa a Nova Timboteua il giorno 15 di febbraio del 2009, con la presenza del vescovo Mons. Carlo Verzeletti, venuto per darmi il saluto finale. Era pure la domenica delle Decime, molta gente in chiesa.
C’erano già state molte lacrime versate e non ci furono più pianti. Il giorno seguente è arrivato il nuovo parroco Frei Raimundo Pestana. Fu preparato un buon pranzo di ben venuto, carne allo spiedo col resto. Io avevo già preparato le mie valigie e tutto era pronto per la mia partenza definitiva, lasciare tutto quello che era stato mio per nove anni. Mi sono sentito escluso, abbandonato, con una voglia pazza di piangere, di fuggire...
Il giorno seguente al mattino presto, come sempre, l’ultima preghiera delle Lodi col popolo, gli ultimi abbracci, le ultime lacrime e dopo l’addio definitivo. Frei Raimundo Pestana e Frei Carlos mi accompagnarono fino a Belem e durante questo viaggio siamo andati a salutare il Vescovo Mons.
Carlo Verzeletti. A Belem ho preso l’aereo il giorno seguente, 18 di febbraio, alle 14,00 e così sono arrivato in questa terra sconosciuta.
All’aeroporto c’era il carnevale, un gruppo di persone con una fascia con la scritta: CARNAVALE NEL MEZZO DEL MONDO... perché a Macapà passa la linea immaginaria dell’equatore. Io nella mia ingenuità ho pensato che era per fare festa al mio arrivo... Meno male che sono stato ricevuto con festa...
Con la famiglia di Wilma
Frei Jamilson e le Piccole Apostole della Carità, una congregazione di persone consacrate, fondata dal beato Don Luigi Monza, sono venuti a prendermi per portarmi a destinazione, a SANTANA, a circa 20 Km di distanza. Ho trovato tutto differente da quello che pensavo, un mondo sconosciuto.
Ho subito fatto conoscenza con l’impiegata Wilma che aveva con se una delle quattro figlie, Karol o Caroline, alla quale diedi subito il fazzoletto del carnevale che ancora oggi conserva con molta gelosia delle altre tre sorelle.
Wilma, che è rimasta fino alla fine della mia permanenza in quella parrocchia dedicata a San Pio da Pietrelcina, nei prossimi quattro anni sarebbe diventata un’amica sincera come Alda, oltre che essere solamente una impiegata comune. Per alcuni mesi siamo stati ospiti della casa di appoggio delle Piccole Apostole della Carità, perché non c’era ancora la casa parrocchiale e così ho iniziato la mia avventura in questa terra.
All’inizio tutto bello, ma poi un po’ alla volta la dura realtà... Un po’ alla volta mi sono abituato e ho subito fatto amicizia con le tre comunità della periferia, San Benedetto, Santa Rita da Cascia e San Francesco, la più povera di tutte, che aveva tutta la preferenza del mio cuore, come se fosse l’ultimo figlio del mio lavoro missionario, la CAÇULA, come si dice in lingua portoghese.
Le cose buone che facevo a Nova Timboteua le ho subito introdotte anche qui: le Decime più organizzate e la Messa della Solidarietà. Ho subito fatto amicizia coi giovani che erano curiosi di conoscermi. È chiaro, non potevano pretendere di incontrare un sacerdote giovane. Avevo 71 anni e scherzando dicevo che ne avevo solamente 17 (basta mettere i numeri al contrario!). Ma, anche così mi sono letteralmente buttato con tutto il mio entusiasmo nella nuova realtà e la gente ha saputo subito capire e apprezzare il mio sacrificio e buona volontà.
Io penso che i superiori, sapendo della mia intraprendenza, giustamente mi hanno mandato in questa parrocchia, perché costruissi una casa per i missionari che non c’era ancora. Il giorno 19 del mese di agosto, quando le Piccole Apostole della Carità ricevettero la visita di un sacerdote milanese, noi abbiamo dovuto alloggiare nelle sale del catechismo della parrocchia, con una cucina dal calore infernale. Io ero senza soldi, e per cominciare a costruire una casa per i missionari, ci volevano molti soldi e questo si capisce subito. E un po’ alla volta la Provvidenza ci aiutò...
Ricordo che i primi soldi sono arrivati tramite un grande benefattore e amico, il Dr. Luigi Camozzi, che subito ci mandò la bellezza di 20.000,00 EURO.
Così il giorno 22 giugno di quell’anno 2009, un lunedì, abbiamo dato inizio alla costruzione della casa, che poi, è diventata un convento sullo stile del convento di San Damiano in Assisi. Furono sei mesi di lavori intensi, con una turma di 20 operai e dopo sei mesi esatti, il 22 del mese di dicembre, il piccolo convento era pronto: otto stanze, cappella, cucina, refettorio e un piccolo giardino con chiostro, colonne, come nei conventi dell’Italia. E così finalmente abbiamo potuto entrare nella nostra casa così bella e accogliente.
Ho ricevuto diverse visite dagli amici di Nova Timboteua, fra tutte quella dell’amica carissima, Leidiane, coi suoi genitori e tutta la famiglia. Suo papà era un bravissimo muratore e ha ammirato la costruzione del piccolo convento. Morì l’anno scorso per un incidente stradale.
Per il mio settantaduesimo compleanno, il 2 marzo del 2010, è venuta a trovarmi un’amica carissima, Samara. Quanta nostalgia! All’ora del pranzo con il flauto suonò l’orazione di San Francesco: “Signore, fammi strumento della tua pace...” Ogni tanto viene qualcuno per vedermi: Cristiane Vagalume, Marina e Anailde di San Luis nel Maranhão e altri.....
Un altro mio compito era quello di celebrare la Messa una volta alla settimana, al venerdì, al monastero delle Clarisse cappuccine e allo stesso tempo ogni tanto andare a Macapà, al Noviziato, per dare ai nostri novizi brasiliani un po’ di francescanesimo e raccontare le mie avventure e esperienze missionarie.
Nel 2010 sono ritornato in Italia per riposare, curare la mia salute (operazione della prostata) e raggranellare qualche soldino, come sempre. Da notare che già avevo un inizio di insufficienza renale e i medici stavano già minacciandomi con la dialisi e con la dieta! Anche se Ivana (un’infermiera di Borno) mi ha raccomandato di non ripartire per la missione, io, crapone come sempre, ho voluto ritornare perché avevo promesso di costruire il santuario di Santa Rita da Cascia.
Nel mese di dicembre di quell’anno 2010 fu costituita la nuova fraternità di Santana, Frei Jamilson parroco, Frei Denilson, superiore, e il sottoscritto come coadiutore. Coi soldini che sono riuscito a raggranellare in Italia, il giorno 11 di gennaio del 2011 abbiamo dato inizio alla costruzione del santuario di Santa Rita da Cascia, il CANTO DEL CIGNO della mia vita missionaria. I lavori non sono arrivati a termine per mancanza di fondi sufficienti e anche perché ho aiutato molti poveri e bambini disabili, SPECIALI, fra tutti Manoel Leão, un bambino completamente infermo e dipendente in tutto. Per lui ho comperato un computer speciale che ha imparato a usare col movimento degli occhi e della bocca, un vero miracolo della scienza, ma soprattutto frutto di tanto amore!
Un accenno alla chiesa santuario di Santa Rita, il CANTO DEL CIGNO delle mie opere missionarie... Qualcuno, giustamente, mi ha fatto osservare che una costruzione come questa doveva essere fatta con tutte le regole di sicurezza... La gente del Brasile sa fare queste cose? Vorrei invitare gli scettici per vedere...
Le ho contate io, ci sono quattro colonne orizzontali (vigas), e ventisei verticali, tutte di cemento armato! La forma del tetto è uno spettacolo da vedersi, interessante...
Ho mandato le foto di questa bellissima chiesa dedicata alla Santa delle cause impossibili in Italia, e il sindaco del mio paese, Antonella Rivadossi, mi ha fatto i complimenti e mi ha detto che questo santuario di Santa Rita sembra un po’ MEDJUGORJE!
Qui in Brasile anche le persone più qualificate l’hanno trovata una cosa eccezionale, tanto è vero che ne hanno perfino fatto un francobollo commemorativo! Qualcuno mi ha anche criticato: “Perché fare una cosa così bella in un ambiente così povero?” Io, subito, ho rimbeccato dicendo che anche Gesù è nato in mezzo ai poveri...
Tra i poveri che ho aiutato e sto aiutando
merita un accenno speciale la nostra cuoca Wilma, mamma di quattro
bellissime bambine, Tamile, Cristiane, Caroline e Thaìs, la più bella di tutte.
Non contenta di queste quattro figlie, ha adottato un’altra piccola creatura, di nome NICOLE, abbandonata da una mamma snaturata! È proprio vero che i poveri sanno aiutare i più poveri! Quanto ai bambini SPECIALI, ho ricevuto un bellissimo omaggio lo scorso anno, a Natale, un piccolo calendario murale con la mia foto e quella dei bambini disabili che sto aiutando. Sono andato diverse volte a trovare i bambini disabili nella scuola GENTILA, la cui direttrice, THEILA, è stata l’anima di questo omaggio.
Il giorno 15 di gennaio del 2012 è uscita la lista dei cambiamenti e trasferimenti, dopo il Capitolo provinciale del mese di dicembre del 2011.
Io, però, rimango ancora per tre anni qui a Santana.
Un grazie a te, carissima amica Leidiane, che ti considero come una figlia, dopo la morte del tuo papà. Senza il tuo incentivo non avrei mai pensato di scrivere tutto quello che ho collocato in questa storia della mia vita.
MUITO OBRIGADO!!!! Grazie mille!
Santana (Amazzonia), 02 di marzo del 2012
Questo capitolo lo sto scrivendo oggi, 12 luglio del 2013, qui all’infermeria del convento dei Frati Cappuccini di Bergamo, dove mi trovo da circa un mese.
Brevemente voglio riassumere quello che è successo dal mese di marzo del 2012 a questa parte. I lavori a Santa Rita continuarono: 36 banchi nuovi bellissimi, di materiale pregiato, pesantissimi, pavimento e pittura. La comunità di Santa Rita da Cascia, pur nella sua povertà, ha preso coraggio e ha assunto con molta responsabilità l’andamento delle cose del suo santuario.
È di quei giorni l’offerta di una casa attigua alla piccola cappella di San Francesco, una vera PORZIUNCULA. Mancavano, però, i soldi necessari per acquistarla e io, che ho maneggiato moltissimi soldi in questi 50 anni di vita missionaria, ho dovuto umiliarmi e chiedere alla comunità di San Benedetto i soldi necessari per l’acquisto. Subito mi sono stati prestati R$ 10.000,00, pari a quattro mila Euro, con l’impegno di restituirli il più presto possibile.
Da Milano è arrivata la provvidenza: il gruppo di amici della signora Laura Festa è riuscito a raggranellare i soldi necessari e altri ancora per abbattere quella casa e farne un salone ampio per la festa dei 150 bambini del rione che si è svolta il giorno 16 del mese di dicembre dell’anno 2012.
Questo salone adesso serve per la Messa domenicale, perché la piccola cappella non poteva più contenere la moltitudine di fedeli che con molta fedeltà frequentano quella chiesa.... Grazie, Laura e amici tutti di Milano!
Purtroppo la mia salute incominciò a preoccuparmi. La domenica ero io che preparavo il pranzo: mi alzavo alle 4,00 del mattino per preparare il sugo per la pasta e il resto del pranzo. Poi andavo a celebrare la Messa a Santa Rita e a San Benedetto, ritornavo e facevo la polenta. Ad un certo punto, a partire dal mese di luglio, ho cominciato a tralasciare queste cose, fra le quali anche un orticello, perché mi sentivo stanco, senza appetito e non riuscivo più a dormire né di giorno né di notte. Ogni tanto andavo dal medico a Macapà. Le sorelle del PAC (Piccole Apostole della Carità) erano molto preoccupate per la mia salute: le cose andavano peggiorando sempre più.
Venne il Natale, il viaggio a Castanhal per partecipare agli Esercizi Spirituali e il 2 marzo l’ultimo mio compleanno in Brasile: compivo 75 anni. Mi ricordo che non assaggiai quasi nessun cibo. Nonostante tutto, il giorno 6 di marzo andai a Macapà per fare il biglietto per l’Italia, andata e ritorno; sarei partito il giorno 13 luglio. Ho anche preso il biglietto per andare a Nova Timboteua il giorno 28 aprile, per celebrare il mio 50° e per San Luis, per celebrare anche là le mie nozze d’oro il giorno 8 giugno. Ma... l’uomo propone e Dio dispone, dice un antico proverbio. Il viaggio a Nova Timboteua lo feci, quello a San Luis, no.
A Nova Timboteua ci fu una festa meravigliosa, mai avrei pensato una cosa del genere. Sfilai per le strade della città, come se fossi il presidente della Repubblica! Mancavo da 4 anni da quella città tanto amata, della quale mi sento orgoglioso di essere un figlio onorario. Questa città ha sempre corrisposto al mio amore e, anche se mi sono allontanato per l’obbedienza ai superiori, non ho mai dimenticato i nove bellissimi anni vissuti a Nova Timboteua, i più belli della mia vita missionaria. CONTERRANEO!.. mi ha scritto un giorno Selma Amaral! A Nova Timboteua mi hanno fatto un sacco di regali, ma il più suggestivo di tutti fu una grossa gallina viva... Figuratevi, in quei giorni non assaggiai quasi nessun cibo e quel poco che mangiavo lo rigettavo.
Ricordo con molta nostalgia la partecipazione alla stupenda celebrazione di domenica sera, nonostante la pioggia incessante. Ritornando alla gallina, io non potevo certamente mangiarla e ho subito detto, tutto commosso, che accettavo ben volentieri quel bellissimo regalo, ma era meglio darlo a Gesù, cioè alla persona più povera e bisognosa della città di Nova Timboteua. Tutti i presenti rimasero senza parole!
Altri regali, come un bellissimo orologio, l’ho accettato e l’ho donato al marito della nostra cuoca Wilma. Io ho sempre fatto così e ho visto che più si dà, più si riceve. In quei giorni, senza quasi poter ingerire alimento, ho visitato quattro comunità dell’interno e ho anche celebrato dei battesimi a Vila Timboteua, la comunità che ha un bellissimo santuario e un arco in onore della Madonna del Buon Viaggio.
Sono ritornato a Belém per prendere l’aereo accompagnato da una meravigliosa coppia di sposi, Cleverson e Marielza. A Santana sono rimasto pochi giorni, il tempo necessario per mettere le cose un po’ a posto. Domenica 4 maggio ho fatto uno sforzo enorme per celebrare le tre Messe, nella comunità di Santa Rita, San Benedetto e San Francesco. In tutte e tre le comunità ho ricevuto manifestazioni di affetto, molte lacrime. Alla sera nella comunità di San Francesco ci fu il saluto finale con una bellissima cena comunitaria, organizzata dalla instancabile Neide, leader di quella poverissima comunità.
Il giorno dopo, lunedì, all’aeroporto la sorpresa finale: una moltitudine di gente, bambini, giovani e adulti che cantavano, ridevano e piangevano... Non ne potevo più! In quel momento mi sono ricordato di una poesia di Alessandro Manzoni: “Ei fu!”...
A Belem mi sono fermato per un mese, fino al giorno 5 giugno, nella nostra infermeria. E poi, accompagnato dal bravissimo infermiere Fra Aquilino, sono partito per l’aeroporto per prendere l’aereo per venire in Italia.
Quel giorno rimarrà per sempre nella mia memoria: “Ei fu!”... Un’altra volta!
Lasciavo per sempre il Brasile! Inaspettatamente ci fu la sorpresa finalissima: tre signore amiche da Nova Timboteua, distante 150 Km, vennero con il taxi per salutarmi. Non posso non ricordare i loro nomi, Marielza, Sandra e Cristiane Vagalume.
Nei 50 anni in Brasile ho fatto tantissime cose, ma la cosa più bella è essere riuscito a mettere nella testa di quella gente che NESSUNO É COSÌ POVERO DA NON AVERE QUALCOSA DA DARE! E così una volta al mese i nostri fedeli portano in chiesa i loro doni - riso, fagioli, ecc. - e al momento dell’offertorio depositano ai piedi dell’altare un po’ di quello che hanno ricevuto dal Signore, come facevano i primi cristiani degli Atti degli Apostoli...
Dopo la Messa, tutto è distribuito dalle signore dell’Apostolato della preghiera ai più poveri e bisognosi della comunità.
Avrei ancora tante cose da dire, ma penso che tutto quello che ho scritto sia sufficiente. Per poter capire l’anima di un missionario, che è l’anima di tutti i missionari, non c’è espressione migliore di una parola brasiliana intraducibile in italiano: S A U D A D E !!!!
Voglio ringraziare il Signore per il dono della vita e della vocazione missionaria. Voglio ringraziare la mia santa mamma Maria che mi ha consacrato quando ero ancora in tenera età alla Madonna Santissima.
Voglio ringraziare i miei superiori dell’Italia che mi hanno accolto con tanto amore. Voglio pure ringraziare i superiori del Brasile, specialmente il Padre Provinciale della Provincia Nossa Senhora do Carmo, Frei Deusivan. Chiedo perdono se nella mia irruenza ho offeso qualcuno. E alla gente del Brasile, questo popolo meraviglioso, dico un MUITO OBRIGADO, GRAZIE per avermi insegnato tante cose. Conservo nel mio cuore il ricordo bellissimo di tante persone che ho amato e che mi hanno amato.
CAROLINA è stata il PRIMO AMORE della mia vita missionaria, mentre SANTANA è stato l’ ULTIMO AMORE!
Questo ultimo amore per me è stato come la Sunnamita ABISAG nel suo rapporto con il re Davide, anziano e ammalato. In questo caso chi potrebbe essere la Sunnamita ABISAG? Certamente una donna di Santana.
Senza voler escludere nessuno, chi mai, meglio della nostra cuoca WILMA, che con tanto amore e fedeltà, pur sapendo delle mie condizioni di salute, non ha mai detto una parola per lamentarsi quando lavava le mie cose personali? Onore a questa santa donna: il Signore le dia sempre la sua benedizione e la sua pace!
Sono venuto via dal Brasile povero e mendicante, come ci insegna il nostro Serafico Padre San Francesco. Ho portato con me pochissime cose, ho lasciato tutto ai poveri, ma ho ricevuto qualcosa di più grande e meraviglioso: TANTO AMORE!!!
Adesso mi trovo nell’infermeria del nostro convento di Bergamo, ma mi sento ancora un missionario. Nella nostra infermeria abbiamo 21 malati e anziani, io sono il più giovane (75 anni). Otto dei frati qui degenti sono ex missionari che hanno dato una vita per il Regno di Dio e continuano a donarsi nel silenzio, nella preghiera e nel sacrificio. Sono ben curati da un gruppo di infermiere specializzate e da alcuni frati meravigliosi: Fra Andrea che è il direttore, Fra Paolo, Fra Stefano e Fra Maurizio.
C’è bisogno di tutto nell’infermeria. Tra le altre cose, qui a Bergamo, abbiamo anche la MENSA DEI POVERI dedicata a un grande ed eroico missionario, PADRE ALBERTO BERETTA, medico-missionario per molti anni in Brasile, fratello di Santa Gianna Beretta Molla e morto in concetto di santità alcuni anni fa.
Padre Defendente Rivadossi
missionario cappuccino in Amazzonia per 50 anni
Padre Defendente è morto il 25-9-2017 a Bergamo.
Pozzo (2009)
Epifania (2010)
Con Jasmin (2011)
Le Palme (2011)
Offertorio con Manoel (2011)
Catechisti (2011)
Compleanno (2011)
Presepio vivente (2011)
Borno, Ossimo e Lozio paesi di montagna sul versante occidentale della Valle Camonica (Brescia).
Borno visto da Ossimo Sup.
Borno: la piazza con la neve
Borno: panorame
Ossimo Superiore e Inferiore
Ossimo Superiore
Lozio: Chiesa di Villa
- Prefazione
- Presentazione
- Quel giorno a Borno
- Lo scorrere della vita
- Perchè queste righe
- Povertà e tanto amore
- Riconoscenza
- Genitori... permettete?
- Il battesimo
- Don Lorenzo
- Lo slittino galeotto
- La neve e la vita di ogni giorno
- Le streghe
- Stregoneria, fantasmi e diavolerie varie
- Il "Materia" messo in croce
- Abele
- Franceschino
- La guerra del 1915-28
- Gli arditi
- L'offensiva di giugno
- Il dopo-guerra
- Il nuovo parroco
- Il sacrista
- Mio padre
- A scuola
- Pastorello
- "Tantillus puer et tantus peccator"
- La conversione
- Il seminario
Appendice
- L'addio di don Ernesto ai diletti Borneso
- Un'amicizia che va oltre la tomba
- Il ricordo di una catechista
- Il Consiglio Comunale di Pisogne
Mons. Ernesto Belotti
Nato a Temù il 22-01-1912
Ordinato Sacerdote a Brescia il 27-06-1937
Vicerettore seminario maggiore dal 1937 al 1938
Vicario parrocchiale (curato) a Artogne dal 1938 al 1945
Vicario parrocchiale (curato) a Borno dal 1945 al 1950
Parroco a Borno dal 1950 al 1963
Parroco a Pisogne dal 1963 al 1978
Canonico della Cattedrale dal 1979 al 1982
Residente a Borno dal 1983
Morto a Borno il 22-02-2000
Funerato e sepolto a Borno il 24-02-2000
Credo fermamente in Dio e in tutte le verità da Lui rivelate e che la Santa Chiesa ci propone a credere. Ringrazio il Signore per tutto quelloche mi ha dato, come chiedo umilmente perdono per tutto quello che io ho fatto. Non ho nulla da perdonare a nessuno perché tutti sono stati buoni con me; che se io avessi offeso qualcuno gli chiedo umilmente perdono. La Madonna mi assista in morte come m'ha sempre assistito in vita. Desidero che il mio funerale sia il più povero possibile, come povero sono sempre stato. Se qualche soldo mi restasse in tasca, quello è dei poveri. Desidero pure di essere sepolto a Pisogne ove ho prestato il mio ultimo umile servizio e dove mi hanno preceduto la mamma e la sorella Angela.
Borno 8 settembre, festa della nascita di Maria SS., 1990
Don Ernesto
L'ultima frase del testamento è stata cancellata a penna, allegando un foglietto con la seguente annotazione:
1 Settembre 1993 É morto don Vanni. Decido di rimanere a Borno a fargli compagnia.
Nella letteratura e nell'arte sono celebri alcune opere incompiute; opere che i loro autori hanno incominciato lasciando in esse qualche traccia del loro genio, ma che non hanno potuto portare a termine. Basti pensare all'Incompiuta (sinfonia) di Schubert, alla Pietà Rondanini di Michelangelo, custodita nel Castello Sforzesco di Milano, all'Eneide di Virgilio, a "I miei ricordi" di Massimo d'Azeglio, ecc...
Anche don Ernesto Belotti, all'età di 70 anni e ormai ritornato a Bomo come "pensionato" in non florida salute, incominciò a scrivere le sue memorie, rievocando momenti e ricordi della sua vita che, come scrive nella presentazione, considera "piccole cose ignorate dalla storia", "frammenti lasciati sul campo dal mietitore".
Il progetto era di abbracciare l'intero arco della sua esistenza ma, per il declino delle forze e della memoria, di fatto si limita agli anni verdi della sua vita, anche se alcuni accenni e riflessioni si riferiscono agli anni della piena sua maturità. In breve, si tratta solo del primo capitolo; ne aveva previsti altri tre: uno per Artogne, uno per Borno, uno per Pisogne, i tre campi di lavoro a cui il Vescovo di Brescia lo destinò. È, pertanto, un'opera incompleta.
Esprimo grato apprezzamento a don Giuseppe Maffi, che è stato vicino a don Ernesto negli ultimi anni di vita, per aver fatto trascrivere e pubblicare in un volumetto i fogli stilati a mano da don Ernesto e trovati nella sua stanza.
È un'incompiuta, ma non priva di significato e di valore. Si tratta di pagine di facile lettura, piacevoli per lo stile limpido e scorrevole, che risultano ricche di saggezza e di insegnamenti, così come erano le prediche di don Ernesto. Riusciva, in effetti, a dire cose grandi con immagini semplici, ispirate spesso dall'ambiente dei paesi della Valcamonica.
Scorrendo il testo, l'attenzione si ferma là dove don Emesto scrive che gli anni passati a Borno come curato e poi come parroco sono stati i migliori o, almeno, i più fruttuosi della sua vita. Aggiunge: "Borno È un paese che ho amato sinceramente, senza risparmiare né tempo, né fatica, né denaro: non per nulla ho sofferto tanto nel congedarmene quell'8 dicembre del 1963.
Colpiscono le riflessioni sullo scorrere della vita, sulla povertà ed il grande amore dei suoi genitori, il senso della Provvidenza divina che guida la grande storia del mondo, ma anche la piccola storia di ogni vita, il desiderio di diventare prete, l'ingresso in Seminario.
Nel libro non manca nemmeno qualche pagina scherzosa, come quando rievoca che "nelle lunghe veglie invernali, raccolti in cucina attorno al fuoco o nella stalla a godersi il caratteristico tepore di quell'ambiente, l'argomento più interessante era quello delle streghe". I giovani di oggi giudicheranno strani e incomprensibili questi accenni, ma chi li ha già sentiti raccontare dalla viva voce di don Ernesto ricorderà le risate fatte in anni lontani.
La fantasia non È mai mancata a don Ernesto nei suoi racconti. Piccoli sprazzi fanno capolino anche nei riferimenti a birichinate di gioventù, che i giovani di un tempo lontano hanno sentito narrare più volte da lui e sempre con rinnovata creatività. Ad un nucleo vero, aggiungeva ogni volta qualche fiore in più per divertire i bambini, e insieme chi aveva qualche anno in più.
Il testo È uno specchio che riflette alcuni tratti della personalità di don Ernesto: uomo di fede e uomo di Dio, vicino alla gente e desideroso di fare del bene, eccellente confessore, buono e attento con tutti, pronto ad interpretare bene l'operato dei suoi parrocchiani, a perdonare, a comprendere ed a scusare, rimettendo sempre a Dio il giudizio su ogni persona. Io l'ho sentito dire: "Noi uomini non abbiamo tutti gli elementi per esprimere un giudizio su una persona che ha sbagliato; solo il Signore, che conosce i cuori, li ha: lasciamo a lui di giudicare".
Auspico di cuore che questa pubblicazione serva a ricordare con gratitudine don Ernesto: a Borno egli ha voluto bene e vi ha seminato tanto bene. Don Ernesto, che ha scelto di riposare nel cimitero di Borno, ha ancora qualche cosa da dire ai bornesi. Continua a parlare dal silenzio della sua tomba, indicando a tutti la via che conduce al cielo. L'opera "incompiuta" termina col racconto del desiderio di farsi sacerdote e l'ingresso in Seminario: se questo suscitasse qualche vocazione sacerdotale o religiosa, sarebbe senz'altro il premio più ambito da don Ernesto.
G.B. Re - Sostituto della Segreteria di Stato
Gentilissimo lettore,
questo non è un libro di storia, se per storia intendi un elenco di fatti importanti e di uomini illustri; qui si parla di piccole cose ignorate dalla storia, di frammenti lasciati sul campo dal mietitore, di usi, costumi e fatti di povera gente, disprezzata dal mondo ma tanto cara a Dio che non giudica gli uomini per quello che possiedono o per quello che sono ritenuti o credono di essere, ma per quello che sono realmente innanzi a Lui.
È un libro senza pretese, anche se può vantarsi di essere sincero e scrupolosamente oggettivo.
Don Ernesto
Il 22 gennaio dell'anno di grazia 1982 ho compiuto 70 anni. Mai come quel giorno mi resi conto di aver raggiunto un traguardo più che rispettabile. Mi ricordai del Salmo 89 che mi ritornò alla mente con voce autorevole e ammonitrice: «Gli anni della nostra vita sono 70, 80 per i più robusti, ma che in ogni caso passano presto e noi ci dileguiamo».
Quel giorno mi trovavo a Borno, un paese che mi È tanto caro perché vi ho passato 18 anni e più: i migliori o almeno i più fruttuosi della mia vita! Borno, un paese che ho amato sinceramente, senza risparmiare né tempo, né fatica, né denaro: non per nulla ho sofferto tanto nel congedarmene quell'8 dicembre del 1963.
In occasione del compleanno molti mi hanno fatto gli auguri come si suol fare in simili circostanze; e quanti di loro avevano letto "Anni difficili" - quel mio diario-racconto del periodo della Resistenza - presero l'occasione per dirmi che quel libro era piaciuto moltissimo e che si aspettavano da me qualche altra cosa.
A dire il vero non era la prima volta che me lo sentivo dire e per di più da persone qualificate come lo era, per esempio, l'indimenticabile don Albino BertÈ, insegnante di belle lettere nel nostro seminario, il quale venne a rintracciarmi per dirmi che lui pure aveva letto quel libro e che non solo l'aveva trovato interessante, ma anche piacevole per lo stile limpido e scorrevole, e aveva concluso dicendomi che dovevo riprendere la penna in mano e scrivere qualcosa. «Fallo - aggiunse - perché ne hai la stoffa; te lo dico io che me ne intendo. I doni di Dio - concluse - vanno trafficati».
Era evidentemente un complimento, dettato dalla sua grande bontà, ed io avrei dovuto saggiamente farne la tara. Invece abboccai come il merlo della favola che, invitato dalla volpe a cantare, mollò il formaggio e cantò. Così senza alcuna esitazione acconsentii.
Quando i capelli diventano bianchi e le forze vanno declinando, l'uomo sente il bisogno di rientrare in se stesso per interrogarsi sul cammino fatto e pensare a quanto, Dio e tempo permettendo, gli rimane da fare; né più né meno del viandante che, stanco del viaggio, si ferma per riprendere fiato e verificare, nel tempo stesso, se la strada che sta percorrendo È quella buona.
Si pensa al passato, a quanto si È visto, a quanto si È fatto e a quanto avremmo dovuto fare e non abbiamo fatto. È nostalgia? È compiacimento? È rimorso?... Forse È un po' di tutto questo insieme. Si rivedono i giorni sereni che ci hanno fatto pregustare le gioie del Paradiso e, accanto a quelli, certi giorni angosciosi, il ricordo dei quali neppure il tempo È riuscito a cancellare.
Fu la perdita di una persona cara, fu una grave difficoltà che ci appariva insormontabile, fu una maldicenza che ci ha fatto sanguinare il cuore, fu - causa non ultima - l'incomprensione di persone a noi particolarmente care che ci hanno ferito il cuore con atteggiamenti tutt'altro che benevoli e con quella abilità di chi sa dove, come e quando colpire, senza rendersi conto del male che ci fanno.
E intanto la strada s'È fatta lunga, gli anni son passati e noi caleremo presto in una tomba sulla quale scriveranno il nostro nome che ci ricorderà per qualche anno a quanti ci hanno conosciuto e ci hanno voluto bene, ma che ben presto non dirà più niente a nessuno, perché l'uomo È come un ruscello che, sgorgato dalla montagna, scende svelto, a volte chiassoso, e si immerge nel fiume per scomparirvi per sempre.
E con noi scomparirà anche il nostro mondo: quello nel quale siamo vissuti e che a noi fu tanto caro. Si perderà il ricordo degli usi, dei costumi, di tanti esempi ammirevoli di bontà, di generosità, di perdono, di fede, di altruismo: tutto un patrimonio prezioso che vale assai più dell'oro e dell'argento.
Ci saranno bensì gli storici che parleranno del nostro tempo, ma si occuperanno solo dei grandi avvenimenti e degli uomini che bene o male hanno fatto parlare di sé; ma per noi, povera gente, che abbiamo vissuto nell'ombra come umili cespugli fra i grandi alberi del bosco, non spenderanno neppure una parola.
Ecco perché mi sono deciso a scrivere qualcosa di quanto ho visto, di quanto ho sentito e che merita di essere ricordato. Sarà un piccolo contributo da aggiungere a quanto altri hanno scritto sull'argomento prima e meglio di me.
Il mio lavoro, che non ha nessunissima pretesa, avrà la forma di racconto o di diario, se così si vuol chiamare, perché È il genere letterario più consono ai miei gusti e alle mie possibilità. Vuol essere qualcosa di vivo, di caldo, di mio anche se rigoroso, oggettivo e sincero che serva a me di riflessione e possa giovare anche a quanti avranno la pazienza di leggerlo.
Di me parlerò il meno possibile e solo quando sarà necessario per conoscere i fatti accaduti e gli usi e costumi del tempo e del luogo in cui sono vissuto. Soprattutto non dirò mai nulla per lodare me stesso, il che sarebbe una stoltezza imperdonabile. Io so benissimo di non aver nulla da insegnare a nessuno e, viceversa, moltissimo da farmi perdonare. So anche che se qualcosa di buono ho fatto È tutta opera del Signore ed È, purtroppo, una piccola parte di quanto avrei dovuto fare.
Chi volesse vederci dell'esibizionismo sappia che È in errore: non È questo il mio difetto, tanto È vero che tra le mie preghiere di ogni giorno c'È sempre la preghiera di S. Agostino: «Ti ringrazio, Signore, di quello che È Tuo e ti domando perdono di quello che È mio».
Sono nato a Villa Dalegno, un piccolo e povero paesetto sperduto tra le montagne dell'alta Valle Camonica. Quando venni al mondo nessuno si È accorto di me all'infuori dei miei familiari. Niente festa, niente chiasso perché i poveri non disturbano nessuno, né quando nascono né quando muoiono.
La festa, la vera festa, l'hanno fatta i miei genitori che hanno cominciato a volermi bene ancor prima che nascessi e attendevano con ansia il giorno di potermi stringere fra le loro braccia. Ero il settimo di otto fratelli, ma non per questo meno atteso e ben voluto di quanti mi avevano preceduto, perché l'amore dei genitori non si esaurisce mai.
Manco a dirlo che per loro ero il bambino più bello e più caro del mondo perché È bello e buono ciò che si ama, e tanto più grande È l'amore tanto più bella e cara ci sembra la persona amata. Bisogna sentir le mamme quando ne parlano! Direi che sono ridicole e commoventi insieme. Per loro non c'È al mondo né un visino più bello, né una boccuccia più amabile, né un sorriso più splendido di quello del proprio bambino, senza parlare degli occhi che sono, per tutte, uno più bello dell'altro.
Povere mamme! Dio non voglia che i vostri tesorucci di oggi non siano la vostra croce di domani e che non vi facciano versare un fiume di lacrime, le più cocenti, le più amare, le più sconsolate che una mamma possa versare. Non cullatevi nei sogni e tenete d'occhio le vostre creature fin dai primi giorni della loro vita come tenere pianticelle che vanno sorrette e raddrizzate intanto che si È in tempo, domani sarà troppo tardi.
Quanto È grande l'amore dei genitori! Non c'È al mondo un amore più grande, né più sincero, né più completo, né più duraturo. Ai figli si vuol sempre bene: tanto se sono buoni quanto se sono cattivi; tanto se sono riconoscenti quanto se sono ingrati; tanto se sono sani quanto se sono ammalati; tanto se sono belli quanto se non lo sono. L'amore dei genitori non si arresta neppure di fronte a un figlio deforme o delinquente.
Anche l'amore degli sposi può essere grande e sincero, ma non altrettanto profondo, né altrettanto sicuro. È un amore che può conoscere ombre ed avere un tramonto perché, col passare degli anni, vengono a galla i limiti e i difetti che ognuno porta con sé, e non di rado l'amore cede il posto alla sopportazione.
Anche i figli, buoni e amati, vogliono bene ai loro genitori, ma È un bene diverso, non altrettanto caldo, né altrettanto grande e duraturo, né di tutti, perché l'amore, quello vero, cala dall'alto come la pioggia dalle nuvole e la luce e il calore dal sole. Tanto È vero che i figli, pur numerosi che siano, non sanno fare per i genitori quanto da loro hanno ricevuto. Se non fosse così non ci sarebbero tanti genitori abbandonati o messi in disparte come scope logore e fuori servizio.
POVERTÀ - È difficile parlare di povertà ai giovani di oggi senza farsi capire: chi ha la pancia piena non capisce chi ha lo stomaco vuoto; chi È coperto non può capire chi ha freddo; chi ha tutte le comodità che si possono desiderare non capisce chi ne È privo. Insomma per capire la povertà bisogna provarla e per capire i poveri averne compassione, senza "disprezzo" bisogna essere poveri.
Tu vivi in una bella casa, ove ci sono tutte le comodità: stanze ben fatte, lucide, arredate e riscaldate; hai una cucina comoda che si accende in pochi secondi; hai l'acqua corrente in casa, nei servizi; hai la luce elettrica e magari la radio, la televisione e forse anche il telefono e l'automobile. I nostri genitori non avevano nulla di tutto questo. Vivevano in vecchie e povere case, ereditate dai bisnonni... di generazione in generazione; si accontentavano di rabberciarle come si poteva, senza la possibilità di migliorarle. Case ove l'inverno regnava il freddo e l'umidità.
I contadini passavano gran parte del loro tempo nella stalla che era l'unico ambiente caldo. Le nostre mamme per preparare la pappa al bambino, fare un caffÈ o una camomilla per un ammalato di notte, dovevano accendere un lume (la luce non c'era), scendere in cucina e accendere il fuoco con la legna che non sempre era pronta. Il che voleva dire tempo, freddo, sonno: disagi di ogni genere.
Il vestito era povero e mal combinato finché le nostre povere mamme non avevano i soldi per comprare la stoffa e lo confezionavano come potevano. Cosa possono dire le signorine di oggi che vestono di lusso, cambiano vestito molto spesso per seguire la moda e non sono mai contente? E pensando alle loro mamme se ne vergognano, come se essere poveri fosse una colpa.
Nei nostri paesi, grazie a Dio, non si moriva di fame come muoiono in certi paesi dell'Africa, dell'Asia o del Sud America. Non si moriva di fame, ma non raramente di stenti: lavoro snervante e un tozzo di pane, non accompagnati che da una formidabile fame. I ragazzi di oggi buttano via quello che una volta si sarebbe considerato una vera provvidenza.
Nei nostri paesi il 40% dei bambini morivano al di sotto dei due anni per nutrimento inadeguato e per mancanza di igiene e di medicine. Che tragedia nelle famiglie!
Oggi abbiamo luce elettrica in ogni ambiente, il frigorifero, la lavatrice, il ferro da stiro, la radio, la televisione e tante altre cose. E quando ne manca una si fa una tragedia e non si pensa che i nostri genitori o i nostri nonni non le sognavano neppure.
La vita è un grande dono: se non fossimo riconoscenti a Dio che ce l'ha data ci macchieremmo di una colpa vergognosa e indegna di un uomo che si rispetti. E tanto più grande dev'essere la nostra riconoscenza se, con la vita, abbiamo avuto la completezza della mente e del corpo.
Ci vedi? Ci senti? Ragioni? Cammini? Sono doni che non tutti hanno avuto.
Anche ai genitori dobbiamo riconoscenza perché furono strumenti necessari nelle mani di Dio, ma soprattutto la dobbiamo a Dio perché è Lui che ha infuso il soffio vitale, è Lui che ha creato il cervello, il cuore, gli occhi e tutte le singole parti del corpo: così numerose che non riusciamo neppure a contarle e così meravigliose che non riusciamo a capirle.
Mamme non dite che i vostri figli sono vostri perché li avete fatti voi! Commettereste la corbelleria del pennello che si vantasse di aver dipinto la celeberrima "Cena" del grande Leonardo perché ne fu strumento nelle sue mani. Accontentatevi di essere state collaboratrici nelle sapientissime mani di Dio e di essere perciò stesso meritevoli di ammirazione e di incondizionata riconoscenza.
Non legate le mani a Dio, impedendogli di dar la vita a tante creature, destinate a dargli gloria e a diventare cittadini del Paradiso.
Paternità responsabile sì, ma senza grettezza, senza calcoli egoistici. Se i seminari, i conventi sono vuoti è perché non ci sono più famiglie numerose alle quali il Signore possa attingere vocazioni. Domani mancheranno sacerdoti nelle parrocchie, suore negli ospedali, negli asili, nei ricoveri, come verranno a mancare i missionari, gli eroici soldati della prima linea.
I figli costano? E chi non lo sa? Costano soprattutto alle mamme che danno ad ogni figlio parte di se stesse: non per nulla la parola "mamma" è la prima che si impara e l'ultima che si pronuncia. D'altra parte anche le nostre mamme hanno accettato serenamente i sacrifici inerenti al loro sublime compito, pensando alla gioia della maternità e al premio del paradiso.
In quanto alle possibilità economiche... non ingannate voi stessi! I nostri genitori, nella loro povertà, sono riusciti a mantenere una famiglia numerosa, senza lasciare mancare il necessario. Oggi basterebbe rinunciare ad una parte del superfluo per far fronte al bisogno. Meno lusso in casa, meno varietà nel vestito, meno spreco nel divertimento, più parsimonia a tavola e avreste il necessario per i vostri figli, anche se numerosi, col vantaggio di crescerli più temprati al sacrificio, al risparmio e al senso di responsabilità.
Quando penso ai miei genitori, alla loro disponibilità e generosità, mi commuovo. Se non si fossero fidati della Provvidenza di Dio io, che sono il settimo dei loro figli, non ci sarei: la Chiesa avrebbe un sacerdote di meno e a loro sarebbe mancata la gioia di vedermi salire l'altare.
Il papà è morto prima che io fossi nella possibilità di compensarlo in qualche modo, ma la mamma, che ha toccato i 90 anni, ebbe la gioia di passare gli ultimi 20 anni con me, attorniata da tutte le premure e l'affetto che potesse desiderare.
Sono trascorsi tanti anni dacché sono morti, ma non passa giorno che io non li ricordi, con tanta riconoscenza, nella mia preghiera.
Il battesimo - chi non lo sa? - è una seconda nascita: quella alla vita soprannaturale. Ma, nonostante la sua importanza, a me fu conferito all'insegna della più grande semplicità: niente campane, niente organo, niente copertine di lusso; un po' d'acqua benedetta, molto sale - che anche allora costava poco - e una candela per vedere dove avevo la testa e dove i piedi: della luce elettrica, a quei tempi non se ne parlava ancora.
Col Parroco - che allora lo chiamavano "Curato" come lo si chiama in Francia - c'era mia sorella Maria, il padrino e la sacrestana. Altri nessuno, all'infuori del mio Angelo Custode. I miei genitori ci avevano pensato per tempo, vollero che mi chiamassi "Ernesto", nome che mi fu sempre tanto caro, ma il signor curato, convinto che quel nome non fosse sufficientemente ortodosso, volle aggiungervi anche quello di Vincenzo, il Santo del giorno.
Don Lorenzo - così si chiamava - guardò quel musetto piagnucoloso e sostò un momento in silenzio come se ascoltasse una voce misteriosa e poi disse ai presenti: «Questo bambino diverrà prete».
è indubbiamente un fatto strano, ma assolutamente vero. Fatto grandicello e in grado di capire, quelle parole mi furono ripetute innumerevoli volte sia dalla sacrestana che dal padrino: due degnissime persone al di sopra di ogni sospetto. Si trattò di una battuta qualsiasi? Fu una vera ispirazione? Ognuno la pensi come vuole: a me basta segnalare quanto avvenne e ringraziare il Signore che mi ha prediletto fin dal primo giorno di vita.
Il signor Curato non mi perse più di vista, tanto doveva essere convinto del suo presagio. Burbero per natura, aveva per me una predilezione particolare e veniva spesso a cercarmi perché io - bambino di due, tre, quattro anni - gli frugassi nelle tasche dove metteva di proposito una castagna, una noce, un confetto o qualche altra cosa che potesse farmi gola.
Povero sant'uomo! Di caramelle non ne trovai mai; di quelle, a quei tempi, non se ne parlava neppure e forse non sapeva neppure lui come erano fatte.
Da questo non vogliate credere che don Lorenzo fosse un molle ed uno sdolcinato. Era anzi di tutt'altra stoffa. Aveva un carattere rude e irascibile. Pochi durante i quarant'anni di sua permanenza in paese, cappellano prima e curato poi, potevano vantarsi di non aver buscato qualche scappellotto, non esclusi i più buoni per non far torto a nessuno.
Genuino rappresentante del tempo antico, lui stesso si sentiva carabiniere, giudice e giustiziere: uno di quelli che prima picchiano e poi discutono. Ciò nonostante i suoi parrocchiani, gente alla buona e piena di fede, lo rispettavano e vedevano in lui la persona sacra che ha il compito di pregare, di celebrare la messa e dispensare la Parola di Dio; ma in quanto a rapporti umani preferivano levarsi il cappello da lontano e starsene alla larga.
Eppure quel prete così rustico da sembrare un orso aveva un cuore d'oro e voleva bene alla sua gente: lo dimostrò durante la guerra e la "spagnola" di cui avremo modo di parlarne più avanti. Ora dico soltanto che, finita la guerra, non appena si accorse che il suo compito era finito e che la Parrocchia aveva bisogno di una guida più aggiornata, rinunciò eroicamente al suo mandato e partì povero come povero aveva vissuto, per passare gli ultimi suoi anni a Monti di Berzo, un paesino della Media Valle, ancor più povero di quello che aveva lasciato, vivendo di ricordi e di nostalgia, pensando ai suoi parrocchiani per i quali aveva speso tutta la sua vita.
Io purtroppo non lo rividi più, ma so che lui non mi ha mai dimenticato, e quando seppe che ero entrato in seminario si commosse. So che mi avrebbe rivisto volentieri come io, a mia volta, desideravo incontrarlo, anche solo per ringraziarlo del bene che mi ha voluto. Ma come avrei potuto farlo con i mezzi di quel tempo?
Quando seppi che era morto ne soffrii non poco e mi è sempre rimasto il rammarico di non aver potuto dargli quella più che legittima soddisfazione. Ma la povertà di quegli anni esigeva anche di questi sacrifici.
Mio padre, che era un ottimo narratore, facile e piacevole, ci raccontò, non una sola volta, una sua avventura di quando lui era ragazzo e don Lorenzo un giovane sacerdote. Si tratta dunque di un episodio che risale, pressappoco, a un secolo fa.
S'era d'inverno, un inverno particolarmente rigido, e la neve era caduta abbondante fin dal novembre a dispetto degli anziani e a delizia dei ragazzi. Chi non aveva la slitta se l'era procurata e si diede il via al più bel divertimento che si potesse desiderare.
La pista più bella, liscia e ghiacciata, passava davanti alla chiesa e attraversava con notevole pendenza quasi tutto l'intero paese: un vero gioiello. Ma le donne che andavano a messa quand'era ancor buio e al rosario a sera avanzata, non la pensavano così e protestarono.
Don Lorenzo si assunse il compito di sgominare la banda e di metter fine a quel misfatto. Fu così che quella sera si portò per tempo in un punto strategico e si nascose dietro un muretto. Quando gli parve che fosse arrivato il momento giusto, balzò all'assalto. I ragazzi, che erano già sulla slitta pronti a partire, lo videro o lo intravvidero e, protetti dalle tenebre, se la svignarono non riconosciuti, mentre il povero don Lorenzo, perduto l'equilibrio, si trovò sulla slitta che partì come un razzo e non gli restò altro da fare che seguire anche lui la solita pista tra lo stupore dei parrocchiani che l'aiutarono poi, pietosamente, a ricuperare la berretta e le ciabatte perdute.
Il giorno dopo il maestro, che era anche il sindaco del paese, salì in cattedra e, con o senza fascia tricolore, protestò solennemente contro l'attentato all'autorità religiosa, ma i colpevoli non si scoprirono mai e il delitto rimase impunito. Manco a dirlo che la slitta fu recuperata e il gioco riprese con più gusto di prima.
L'episodio dello slittino mi porta a parlare della neve. Tutti sappiamo che da qualche anno viene copiosa nel meridione, dove prima non veniva affatto, e non viene da noi, mentre prima veniva abbondante.
è un fenomeno strano che reca notevole danno al sud d'Italia come al nord. La neve e il gelo in Sicilia danneggiano le coltivazioni di frutta e verdura; mentre se manca da noi restano penalizzati gli impianti sportivi invernali. A Ponte di Legno si sono ridotti a portare la neve da quote più alte; a Monte Campione si industriano a fabbricarla; a Borno si è arrivati, certi anni, a cancellare la stagione invernale con grave danno economico.
Una volta non era così. Quando io ero in Seminario, a Brescia e dintorni venivano 30-40 centimetri di neve e veniva presto. Nei 18 anni di mia permanenza a Borno, nel giorno dei morti, al cimitero si trovava sempre la neve. Non parliamo dell'alta Valle Camonica!
Prima di andare in Seminario, quando anch'io potevo scorrazzare a piacimento, la neve veniva così abbondante che noi ragazzi potevamo farci le gallerie: se non ne veniva un metro, poco ce ne mancava. Ricordo le scorribande, i castelli, i fantocci, le palle di neve con relative finestre rotte e qualche scappellotto da parte di chi non desiderava far da bersaglio.
Ogni mattino gli uomini erano impegnati a far la strada alle donne che andavano alla messa e alle bestie all'abbeveratoio. Di tanto in tanto era necessario salire sui tetti a buttar giù la neve diventata troppo pesante e pericolosa.
Bloccati dalla neve la sera si finiva tutti nelle stalle con parenti e amici a parlare del tempo e a commentare le poche notizie che circolavano in quei giorni, ad ascoltare le storie di chi sapeva raccontarle e, non di raro, a cantare qualche vecchia canzone, di quelle che si prestavano a fare lunghe code a due voci e durante le quali ognuno dava il meglio di sé.
Prima di andare a letto la nonna, la zia o la mamma incominciava il S. Rosario a recitare il quale tutti, a modo loro, partecipavano. Al Rosario la nonna ci attaccava poi una sfilza di altre preghiere che né gli stilisti né i teologi avrebbero approvato, ma il Signore sì, perché ne vedeva la fede e la buona intenzione.
Le notizie di un piccolo paese di quel tempo, dal quale nessuno usciva e nessuno vi entrava, non potevano essere che locali o di qualche paese vicino, raccontate da chi le aveva sentite a sua volta di seconda o terza mano e non potevano essere che incomplete, ampliate o deformate, e su quelle informazioni si facevano congetture, aggiungendo qualche fronzolo e finalmente sbandierate il giorno dopo cosa certa per averla sentita da persona sicura.
Non era malizia, ma la conseguenza di una vita chiusa, senza un giornale e tanto meno senza radio o televisione che non erano ancora nate. Oggi questi mezzi di comunicazione ti portano il mondo in casa, frastornandoti con tante notizie belle e meno belle.
Il mondo di allora era così diverso che oggi si stenta ad immaginarlo. Ignoravano, è vero, tante cose, ma possedevano una scienza che noi oggi ignoriamo: quella di trovarsi insieme, di conoscersi, di conversare e di volersi bene.
Nelle lunghe veglie invernali, raccolti in cucina intorno al fuoco o nella stalla a godersi il caratteristico tepore di quell'ambiente, l'argomento più interessante era quello delle streghe. E non poteva essere diversamente. Scarseggiando le notizie di fatti veri e controllati, trionfava la fantasia. Tanto più che, sia pure confusamente, era ancora viva la memoria di fatti e storie dei secoli passati, quando per i popolani delle città e soprattutto delle campagne l'esistenza delle streghe era un dogma: una credenza così incarnata nella mentalità del popolo che era un'offesa metterla in dubbio.
Alle streghe si addossavano le colpe più incredibili. C'era una peste, una moria nel bestiame, una grandinata, la guerra, la siccità?... la colpa era delle streghe, cioè di quelle povere donne, in gran parte anziane che avevano qualcosa di singolare, di strano nel corpo, nel modo di vestirsi, di parlare o di comportarsi. Su quelle si puntavano i sospetti, le denunce, gli arresti ai quali seguivano interrogatori e torture in tribunali appositamente istituiti, le condanne e i roghi.
Tali superstizioni e nefandezze trionfarono soprattutto nel 1500. Sembra impossibile che il glorioso Rinascimento, in mezzo al trionfo della pittura, della scultura e architettura, dato che ci onora in tutto il mondo, avesse questi risvolti di autentica barbarie. Ma fu così e non solo in Italia, ma in tutta Europa.
La Val Camonica non ne fu esente, e si rese tristemente famosa nel 1500. L'ignoranza, il fanatismo, la suggestione collettiva spinsero le autorità a istituire un tribunale, che ebbe sede a Milano, con facoltà di pena di morte per quelle disgraziate che furono giudicate colpevoli di stregoneria e di misfatti a loro attribuiti.
Durante quel secolo in Valle Camonica furono 60 le cosiddette streghe arse vive. Nella sola Pisogne ne furono bruciate vive 8, il che avvenne precisamente il 18 luglio 1518. Venne perfino stampato un libro dal titolo "Le streghe del Tonale" col quale si metteva in guardia il popolo da queste portatrici di disgrazie e di misfatti. Si diceva, tuttavia, che il famoso "Concilio di Trento" (1545-1563) avesse provveduto a confinarle nel Pisgana: una località tetra e impervia a monte di Ponte di Legno, incuneata tra il Castellaccio e il Pian di Neve; e che da lassù, tuttavia, si facessero sentire con tuoni e lampi durante temporali particolarmente violenti.
Al tempo della mia infanzia di streghe vere e proprie in carne e ossa non ce n'erano più, ma al tempo dei miei genitori qualche guizzo c'era ancora. A farne le spese ci fu tra gli altri un mio zio, innocente come l'acqua dei nostri monti. In paese c'erano due sorelle che io ho conosciuto tanti anni dopo, le quali avevano una modestissima botteguccia con un piccolo forno che scodellava di quando in quando qualche pane un po' diverso da quello delle altre case. Avevano anche una stalla dove tenevano conigli, galline e un porcellino.
Cos'è, cosa non è, il porcellino si ammalò. Di cosa non si sa. Una donna più anziana di loro sentenziò che il porcellino era stregato e che per guarirlo fosse necessario che il colpevole venisse a disfare il mal fatto. Ma chi era il colpevole? Semplicissimo: far bollire i peli del maialino. Il primo che capitava in seguito, quello era il colpevole del misfatto. Caso volle che dopo un quarto d'ora di bollitura capitasse un mio zio. Il resto lo lascio pensare a voi: io so soltanto che non l'hanno messo al rogo, ma che ne nacque un pasticcio di accuse e battibecchi.
Povero zio, per evitare il peggio rinunciò all'acquisto del maialino e se ne andò per raccontare poi agli amici la brutta avventura, aggiungendovi naturalmente fronzoli necessari a farne un gustosissimo racconto. Frattanto il maialino guarì e le due sorelle poterono affermare che era stato stregato e vantarsi di aver trovato il colpevole e di averlo costretto a riparare il malfatto.
Come è vero che da almeno un secolo alle streghe vere e proprie, in carne e ossa, non ci si crede più, è altrettanto vero che abbondavano racconti di stregonerie, di fantasmi, di apparizione di morti, di fatti inspiegabili.
Non c'è da meravigliarsene se in quel mondo chiuso, ove le poche notizie che si potevano avere arrivavano di terza o quarta mano, a distanza di mesi se non di anni addirittura, la fantasia avesse buon gioco.
Si raccontava che il tale avesse visto apparire una mummia morta da tempo per ammonire un figlio che era su una cattiva strada; che un tal'altro era stato ammonito di restituire il mal tolto e di far giustizia. Si diceva che in quella casa si sentivano degli strani rumori, o che si sentivano persone invisibili passeggiare e che non cessavano se non quando erano stati suffragati i poveri morti.
Si diceva per certo che sul castello, un promontorio a monte del paese, fosse apparsa di notte una donna che certamente aveva aiutato una giovinetta che si trovava in difficoltà e che l'abbia poi ammonita a non andarsene da sola, soprattutto di notte.
Di fatti misteriosi e umanamente inspiegabili se ne contavano molti, frutto in gran parte di fantasie festive o di ignoranza; ma di fare d'ogni erba un fascio e condannare tutto in blocco non mi sembra giusto, soprattutto quando le fonti sono persone miti, intelligenti e scevre di ogni interesse.
Mio padre era un uomo intelligente e serio, privo di facili suggestioni e assolutamente incapace di mentire. Raccontava di aver trovato una mattina due mucche legate con un'unica catena con la lingua fuori bocca e sul punto di soffocare. Che ciò sia avvenuto a caso è assolutamente impossibile.
Non moltissimi anni fa successe ripetutamente un fatto strano. Un maiale chiuso a chiave nel suo porcile, si trovava regolarmente in strada a passeggiare per il paese, mentre la chiave scompariva. E ciò avvenne per molti giorni finché una bambina di quella rispettabilissima famiglia, incontrò una gentilissima signora che la bambina non conobbe, ma che dalla minuziosa descrizione fattane risultò senza alcun dubbio che doveva trattarsi di sua madre, morta alcuni anni prima. La signora misteriosa disse: «Dì a tuo padre che le chiavi perdute si trovano nel tal posto... » ove realmente furono trovate. La donna cercata affannosamente e subito, non fu più trovata; nessuno l'aveva incontrata.
Sono fatti assolutamente fuori dalla norma e che si stenta a credere. Ma so di altri fatti altrettanto strani e che non posso negare. Conosco un signore, un mio amico, che seduto per il suo mestiere accusava disturbi continui e misteriosi. Un giorno si è deciso a recarsi presso un sacerdote per chiedere consigli e farsi dare una benedizione. Quello che gli disse risultò vero. Sul cuscino della sedia c'era una corona di fili fatta in modo meraviglioso, levata la quale tutto tornò normale.
Un fatto simile ci fu raccontato in seminario dal nostro insegnante di morale, un uomo di criterio e superiore ad ogni suggestione, che dopo non molto fu consacrato vescovo e inviato a regger una diocesi dell'Italia centrale. Chi non ammette nulla di tutto questo, legga la vita di Don Bruno o del Curato d'Ars, e incontrerà molto spesso fatti sorprendenti che onestamente non siamo autorizzati a negare.
Ma lasciate che vi racconti un fatto di cui io stesso fui ,se pur marginalmente, testimone. Un giorno ho confessato e comunicato un giovane. Ricordo ancora la sua devozione. Il mattino dopo fu trovato morto sul suo letto. Improvvisamente arrivò anche la notizia che suo fratello era dichiarato disperso in guerra. Da allora in casa non c'era più pace: ogni notte sul ballatoio e nelle stanze si sentiva un passo d'uomo, e le porte aprirsi e chiudersi. Il fenomeno era avvertito marcatamente da una famiglia vicina e soprattutto dalla mamma e dalla sorella laureanda che si dava un po' l'aria di superdonna che non voleva arrendersi neppure all'evidenza. Ma un giorno credettero all'evidenza e vennero da me per chiedermi una benedizione.
Mi recai in casa, chiesi ed ottenni una bella sommetta per un'opera buona che si stava facendo. Mi feci promettere che sarebbero andate alla messa e diedi la benedizione con tutto il fervore possibile. Da allora tutto tornò normale.
L'avventura, spericolata ma a lieto fine, che sto per raccontare risale pressappoco agli anni dello "slittino galeotto". S'era nella Settimana Santa e un gruppo di ragazzi dell'età scolare ebbe l'idea, più o meno geniale, di ripetere la "Passione del Signore".
A farne le spese fu un poveraccio assai più grande di loro ma non altrettanto furbo che, chissà perché, lo chiamavano "Materia".
A mezzogiorno o poco dopo si avviarono tutti assieme per una strada pianeggiante che, dopo il mulino del torrente "Rio", portava nel bosco. Era, a quei tempi, una stradetta di campagna che più tardi, in vista della guerra imminente, venne allargata e sistemata così da divenire una importante strada militare, percorsa da camion adibiti al trasporto di cannoni, di munizioni e di tutto quel materiale che era necessario alla costruzione di fortini, di trincee e di sbarramenti in vista di una eventuale offensiva che venisse dal Tonale o dal Montozzo.
I ragazzi si inoltrarono un bel pezzo, quanto era necessario per sottrarsi ad occhi indiscreti e per giocare indisturbati. A monte e a valle della strada c'erano prati e cascine; in fondo il fiume Oglio, che appena appena si poteva scorgere, e di fronte e in alto la stupenda e grandiosa catena che dal Tonale scorre ininterrotta fino all'Adamello; oltre uno scenario meraviglioso che incanta quanti hanno il gusto del bello e del maestoso.
Ma i ragazzi non erano in viaggio per contemplare il panorama, ma unicamente per divertirsi. Arrivati in un certo posto che sembrò loro il più adatto, diedero inizio allo spettacolo. Già durante il viaggio avevano fissato il ruolo di ciascuno: scelti i soldati, scelti i giudei, scelto Pilato che era il capo della banda. Il Cristo era già designato ancor prima di partire nella persona del "Materia", il quale era orgoglioso e felicissimo di assumere nientemeno che il ruolo di primo attore.
Si iniziò con la sentenza di condanna di Cristo, pronunciata da Pilato e ottenuta dai Giudei che lo volevano morto ad ogni costo. Seguì la flagellazione, che non fu soltanto simbolica; poi iniziò il viaggio al Calvario con il pesante legno della croce e finalmente lo spettacolo più atteso: la crocifissione.
Il povero "Materia" si distese docile e fiducioso, con le gambe unite e le braccia distese, mentre i soldati provvedevano a legargli mani e piedi, gambe e braccia in modo tale che non potesse più muoversi. Dopo di che lo trascinarono verso una buca che c'era nelle vicinanze e si accinsero a rizzarlo in piedi. Non fu una impresa facile, ma con il concorso di tutti, giudei e soldati, e con l'incoraggiamento del "povero Cristo", finalmente ci riuscirono. La posizione del crocifisso era tutt'altro che comoda ma non si lamentava, pensando al dramma ben più grave del vero Calvario.
I ragazzi, felicissimi dell'impresa ben riuscita, si accingevano a far festa con evviva e urrà quando, improvvisa e minacciosa, udirono in lontananza, fioca ma solenne, la campana della scuola. Fu come un fulmine nella notte: il pensiero di uno fu il pensiero di tutti e nella mente di ognuno apparve lo spettro burbero del maestro, al quale avrebbero dovuto rendere conto di una eventuale assenza o anche solo del ritardo.
Pensarono che anche il Curato ne sarebbe stato informato e che avrebbe aggiunto "il resto del Carlino". Non ci fu bisogno di intese: ognuno pensò ai casi propri... e via tutti a gambe levate come un stormo di passeri all'apparire del nibbio.
Il povero crocifisso restò solo a gridare e a invocare aiuto, ma inutilmente perché nessuno poteva sentirlo in quel luogo solitario; dovette starsene lì a dimenarsi e a sgambettare con lo spettro della notte che avanzava sempre più paurosa e preoccupante.
Nel frattempo né i giudei né i soldati avevano il cuor tranquillo. Quelle due ore di scuola sembrò loro che non finissero più e il maestro non riusciva a rendersi conto della loro particolare distrazione. Ma per una evidente ragione nessuno fiatò. Soltanto a sera inoltrata uno di loro, Pietro per l'esattezza, trovò il coraggio di parlarne in famiglia e ne fu dato l'allarme.
Era notte fonda quando un gruppo di volontari, lanterne alla mano, arrivò sul posto della crocifissione. Il povero "Cristo" continuava ancora a sgambettare e a invocare, ma la voce s'era fatta fioca e le forze erano all'estremo. Tornato a casa il malcapitato giurò, e possiamo credergli, che di croce non ne avrebbe più parlato. Il giorno dopo tutto il paese era in subbuglio e ognuno commentava il fatto a modo suo, mentre i crocifissori, mogi mogi, dovettero tornare a scuola rassegnati a prendere la grandine come il cielo l'avrebbe mandata.
Buon per loro che sia il maestro che il signor Curato trovarono l'avventura così buffa che si accontentarono di una solenne sgridata e di un severo ammonimento. Dopo tutto, pensarono, le intenzioni erano buone e le buone intenzioni vanno rispettate.
IL "MATERIA" CONTRABBANDIERE - Prima della guerra del 1915-18 il Tonale, il Montozzo e tutta la catena montuosa che unisce i due passi segnavano il confine tra l'Italia e la Provincia di Trento che apparteneva ancora all'Impero Austro-ungarico, ed è perciò comprensibile che nei paesi dell'alta Valle fiorisse il contrabbando.
Dall'Austria si importava il tabacco, il caffè e altre merci che offrissero, rivendendole, un guadagno facilitato dal fatto che costavano meno. Si trattava di defraudare il dazio e lo Stato italiano. C'erano le guardie di finanza italiane che facevano buona guardia, ma i contrabbandieri evitavano le strade battute e seguivano sentieri di montagna, malagevoli sì, ma assai più sicuri.
Il piccolo contrabbando dell'operaio che, tornando dal lavoro a fine settimana, si riempiva le tasche si tollerava. Ma non si tollerava il grande contrabbando di professionisti che trasportavano quintali di merce con l'aiuto degli spalloni assoldati per l'occasione: si trattava di gente robusta, coraggiosa e pratica del posto che conosceva i vari sentieri della montagna.
Nella bella stagione si trattava solo di fatica e di destrezza per evitare i rigori della legge che prevedeva confisca, multa e arresto. Ma d'inverno a tutto questo si aggiungeva il dover superare l'ostacolo della neve, che in montagna poteva raggiungere il metro e più, col pericolo che valanghe o bufere improvvise li potessero seppellire.
C'erano gli spalloni addetti al trasporto nei punti più difficili, altri di manovalanza ordinaria che si sostituivano a fare la parte più agevole: il trasporto dai piedi della montagna al posto dello smercio. Anche il nostro "Materia" si arruolò negli spalloni di ordinaria amministrazione, ingolosito dalla paga che, per quanto modesta, gli serviva a sbarcare il lunario.
Si viaggiava di notte, in gruppo di 10-15 uomini, dalla tarda sera all'alba del mattino dopo. Doti necessarie: buone spalle, coraggio, destrezza e molta prudenza. In quanto a spalle il nostro campione ne aveva da vendere; nel resto era piuttosto scarso per non dire mancante affatto.
Tre anni dopo la mia nascita venne al mondo un fratellino che chiamarono Abele, ma tredici mesi dopo il Signore lo volle con sé. è uno dei miei primi ricordi. A me sembrava bello come un angelo e divenne, naturalmente, il coccolino di tutti. Era un bambinone apparentemente sano, ma durante una violenta crisi di tosse trattenne il respiro e non si riebbe più.
Ricordo ancora il dolore del papà che lo cullava in braccio e, baciandolo, piangeva e non si rassegnava a vederlo morire. Una buona donna, con la più retta intenzione del mondo, lo esortava a rassegnarsi, suggerendogli che da quel giorno aveva in Paradiso un angioletto di più che pregava per tutti.
Ma il papà si ribellò e vedo ancora la sua reazione, garbata ma decisa, rispondendo che era facile per lei parlare così perché si trattava di un bambino che non era suo, e che quell'angioletto avrebbe preferito tenerlo con sé.
Dopo tanti anni ne parlava ancora, e solo durante l'ultima guerra si persuase che, piuttosto che saperlo al fronte, era meglio saperlo in Paradiso.
Fino alla Prima Guerra Mondiale, quella del 1915-18, erano ancora in corso i centesimi: una minuscola monetina che valeva la centesima parte della lira. Con pochi centesimi si comperava il tabacco per la nonna, il sigaro per il nonno, il sale e i fiammiferi per la mamma, i quaderni e i pennini per gli alunni e tante altre piccole cose vitali e necessarie. Ma di centesimi ce n'erano pochi ed era difficile guadagnarli.
è di quegli anni un episodio che ha tutto il sapore di barzelletta, ma che barzelletta non è e che vale la pena di essere raccontato perché getta uno spiraglio di luce su usi e costumi del tempo.
Al mio paese chi serviva la S. Messa aveva un compenso: cinque centesimi in un primo tempo, addirittura dieci qualche anno dopo: una vera e propria cuccagna. Da questo si deduce che, anche allora, era in atto l'inflazione. Ma fare il chierichetto era meno facile di quanto si possa credere. Prima di tutto bisognava conoscere bene le varie cerimonie della Messa, e poi sapere a menadito il salmo iniziale e tutto il resto in latino, che era anche allora un osso duro da masticare e ancor più da digerire.
Ogni piccolo errore era inammissibile se non si voleva fare i conti col "Signor Curato", che era lo spauracchio dei piccoli e dei grandi. C'era di più: il diritto di servire la Messa era di chi arrivava per primo ad occupare il posto. Come si vede, c'era anche allora la corsa al primo posto, come lo è ora per le prime poltrone nel Parlamento.
In gara ce n'erano molti e tutti intenzionati ad arrivarci. Tra questi c'erano anche mio fratello Omobono che aveva 9 anni più di me, un nostro cugino e un loro amico. I tre fecero, da buoni amici, un vero e proprio concordato: servire la Messa una volta ciascuno. Si trattava di alzarsi presto per sbarrare il passo a qualsiasi altro. Ma, come vedremo, avevano fatto i conti senza l'oste.
La Messa, a quel tempo, si celebrava prestissimo, sia d'estate che d'inverno, per dare la comodità ai contadini di dar da mangiare alle bestie, portare il latte al caseificio e, nel contempo, la possibilità alle mamme di occuparsi degli uomini che, all'alba, andavano a lavorare e di preparare i bambini per la scuola.
Il primo dei tre, quello che aveva estratto la paglia più lunga, arrivò sulla porta della chiesa al tocco dell'Ave Maria ma, con sua grande sorpresa, vi trovò Franceschino che era un ragazzetto alto come un soldo di cacio, ma vispo come un pesce e tenace come un mulo. Il secondo pensò giustamente di anticipare ed arrivò prima che si aprisse la porta della chiesa, ma ad attendere c'era già Franceschino. Il terzo anticipò a sua volta di un'altra mezz'ora, ma prima di lui era arrivato il solito Franceschino. Per quanto anticipassero trovavano sempre quel maledetto Franceschino il quale, per non correre rischi, si presentava a notte fonda e se ne stava lì intirizzito dal freddo, seduto sulla neve.
I tre non si diedero per vinti. Fecero una specie di concilio e, dopo innumerevoli proposte e controproposte, decisero di ricorrere a un mezzo radicale. Avrebbero sacrificato una notte, aspettando le ore piccole nella stalla che era di fronte e a pochi metri dalla porta principale della chiesa. Uno di loro si sarebbe armato di campanelli e di campanacci, un altro di "tole" e di coperchi atti a far baccano; il terzo si sarebbe vestito da spettro per comparire, a tempo opportuno, e agitarsi e urlare a più non posso. E così fu fatto.
La prima parte della notte la passarono a mettere a punto il piano strategico e verso le primissime ore del mattino si nascosero dietro la grande fontana che da tempo immemorabile fa bella mostra di sé e che, d'inverno, circondata da candelotti di ghiaccio, rappresenta una grande attrattiva per i bambini. Lì, avvolti in coperte, attesero con pazienza l'arrivo di Franceschino. Lo lasciarono rannicchiarsi sui gradini della chiesa e, ad un segnale convenuto, i tre entrarono in azione.
L'effetto lo lascio immaginare a voi. Il poveretto scattò in piedi e, gridando come un'aquila ferita, partì con la velocità di un razzo a tal punto che, arrivato sulla porta di casa che era lungo la strada in discesa, non riuscì a fermarsi.
La Messa fu celebrata alla solita ora e tutto andò come doveva andare; se non ché, rientrati in sacrestia, arrivò, con un diavolo per capello, la mamma del malcapitato a raccontare al "Signor Curato" quanto era accaduto, aggiungendo che il suo povero Franceschino dovette rimettersi a letto per disturbi intestinali. Il chierichetto, che era uno dei tre, quella mattina non aspettò le due "palanche", ma pensò di mettersi in salvo intanto che era in tempo.
Povero Franceschino! Ci volle molto tempo prima di vincere la paura e sfidare gli spettri. Pochi anni dopo, nell'immediato dopoguerra, trovandosi in un bosco si incuriosì di un oggetto che luccicava in mezzo all'erba, lo prese in mano e lo percosse con un sasso. Era una bomba a mano che, scoppiando, lo dilaniò. Riuscirono tuttavia a salvarlo e Franceschino, sia pure malridotto, campò molti anni ancora e divenne sposo e padre di un'ottima famiglia.
VALORE DELLA MONETA - L'episodio di Franceschino mi porta a dire una parola sul valore della moneta. La guerra è costata moltissimo e le casse dei vari stati belligeranti sono rimaste vuote o quasi, e di conseguenza ci fu la svalutazione della moneta.
In Germania, dopo la guerra, andavano a far la spesa con una sporta di denaro. Un chilogrammo di pane, per esempio, costava alcuni milioni. L'Italia, a sua volta, uscì dalla guerra viva, ma con le ossa rotte. Scomparse le monetine dei centesimi, rimasero i cinque, i dieci, i venti, i cinquanta centesimi che avevano ancora un certo valore fino alla Seconda Guerra Mondiale.
Per intenderci alcuni esempi: la retta del seminario negli anni '20 e '30 era di 6 lire al giorno e non era poco. Se si pensa al guadagno degli operai, chi trovava un posto allo stabilimento poteva anche guadagnare 18 lire al giorno, ma tale fortuna era dei pochi raccomandati del regime fascista; gli altri dovevano rassegnarsi a qualsiasi lavoro e accettare quel che il padrone dava. Dopo dieci ore di lavoro la retribuzione poteva essere di 10 lire e anche meno.
Negli anni più magri, '28-'30, mio fratello Omobono, che era un bravo falegname, ha lavorato un inverno intero per 7 lire al giorno. In quegli anni i contadini vendevano il burro ai villeggianti di Ponte di Legno a 5 lire il chilogrammo e anche a meno pur di avere il denaro per pagare le tasse e l'indispensabile come il sale, le medicine, le scarpe, un indumento qualsiasi.
Negli anni '30-'40 in qualsiasi pensione di Brescia si poteva mangiare un pasto, povero ma sufficiente, con 4 lire e cinquanta centesimi. L'Oratorio di Artogne, un grande stabile di abitazione circondato da un brolo di migliaia di metri quadrati, l'abbiamo comprato nel 1941 a lire 67.000, casa e brolo situato sotto l'ombra del campanile. Quella medesima proprietà era in vendita anni prima a 40.000 lire e nessuno aveva i soldi e il coraggio di comprarla. Tutti collaborarono a pagarla con l'offerta media di 20 centesimi alla settimana.
Quello che diede il crollo al valore della moneta fu la Seconda Guerra Mondiale, quella del 1940-45. Le solite scarpe che nel 40-42 compravo a Darfo per 60 lire, nella primavera del '45 le ho pagate 3.000 lire.
Da allora l'inflazione ha galoppato: c'era un'Italia distrutta da ricostruire; c'erano esigenze sempre crescenti, il denaro non bastava mai e s'è buttato sul mercato moneta sempre più abbondante con un valore sempre minore. I terreni, le case, il vestiario, il cibo hanno continuato a costare sempre di più e non sappiamo dove si andrà a finire.
Nel gennaio 1982 ho incontrato a Borno il mio vecchio e caro amico "Maì", che di buon mattino tornava già dal bosco con un bel fascio di legna, e ci siamo fermati a fare quattro chiacchiere. «L'altro ieri - mi disse - sono stato a farmi tagliare i capelli, quei quattro che mi sono rimasti, ed ho pagato 5.000 lire; per di più l'ho ringraziato. Pensi - continuò - che 45 anni fa, quando mi sono sposato, ho comprato la mobilia di casa con 400 lire: l'arredamento della cucina al completo, compreso il mattarello ricurvo per far polenta, soggiorno, stanza da letto, tavolo e sedie. Tutto con 400 lire, mobilia solida, fatta da un falegname come Papà Matteo che continua a far il falegname ancora, nonostante abbia un figlio monsignore, che è una personalità di spicco in Vaticano. Quella mobilia l'ho ancora come nuova e penso che mi rimarrà fin che campo».
Quando la guerra iniziò io avevo tre anni, troppo poco per capire qualcosa di quel grande dramma che coinvolse uomini e cose del mondo intero. Troppo pochi per capire, sufficienti per subirne un dramma che mi accompagnò per tutta la vita.
Non s'era in zona di guerra, però di fronte a noi c'erano l'Adamello, il Pian di Neve, il Pisgana, il Castellaccio, i Monticelli, il Passo Paradiso e il Tonale: luoghi ove si fronteggiavano i due eserciti nemici: l'austriaco e l'italiano. Su quelle montagne, in mezzo ai ghiacci e a nevi perenni, centinaia e centinaia di soldati hanno passato tre lunghissimi inverni. Di tutto quel dramma ovviamente io ricordo soltanto ciò che mi ha fatto particolare impressione.
Di giorno e di notte si sentiva il rombo del cannone. C'era il coprifuoco: proibito ogni spostamento, proibitissimi ogni fuoco, ogni luce che potevano essere bersagli da colpire o segnalazioni di spie. Di militari ce n'erano dappertutto: nelle case, nelle stalle, nei fienili, in ogni buco, ovunque c'era un tetto. Alcuni erano lì per un breve riposo, altri, di fresco arrivati, erano in attesa di partire per il fronte. I più erano anzianotti, addetti ai lavori di retrovia: tracciavano strade nuove, sistemavano quelle vecchie per renderle agevoli al passaggio dei camion che dal fondo valle arrivassero alla Valmassa e alla Cima Bley a portare bombe, cannoni e altro materiale di guerra. Altri scavavano trincee, camminamenti, costruivano fortini, sbarramenti con filo spinato, tutto in previsione di un'offensiva dal Passo del Tonale.
Ricordo i grandi marmittoni della pastasciutta, dei fagioli, dei piselli, di ogni ben di Dio. Vedo ancora le gavette del rancio, i gavettini del caffè. Al contrario dei soldati austriaci che morivano di fame, i nostri avevano più del necessario, roba che l'America mandava a piene mani. Della loro abbondanza ne avvantaggiavano i civili che accorrevano con scodelle e pentolini. Qualche volta ci andavo anch'io non tanto perché ne avessi bisogno, quanto perché, come sempre succede, la roba degli altri sembra sempre più buona.
I militari che si fermavano a lungo, familiarizzavano con la gente del posto: chi aveva bisogno di farsi lavare qualcosa, chi di farsi attaccare un bottone, chi di farsi leggere o scrivere una lettera, chi infine di prepararsi una bella polenta tanto per cambiare dal solito rancio.
Ricordo particolarmente un soldato veneto che passava con noi la sera e, da buon narratore che era, ci raccontava lunghe storie e ci parlava della sua famiglia, della sua sposa, dei suoi bambini e dei suoi vecchi genitori che si trovavano nella zona invasa dal nemico e soffrivano la fame, mentre lui nuotava nell'abbondanza senza poter far nulla per loro. Alcuni anni dopo la fine della guerra ritornò per ringraziare e si meravigliò di trovarci così cresciuti.
Tra le centinaia di soldati, fanti in gran parte, c'era un gruppo di militari scelti come truppe d'assalto. Erano gli "arditi" che venivano impiegati per un colpo di mano, per occupare un caposaldo, per far brillare una mina, per togliere un reticolato o per altre operazioni pericolose che richiedevano destrezza e molto coraggio.
Erano volontari che avevano fatto quella scelta o perché amanti del rischio e dell'avventura, o perché erano bramosi di un riconoscimento o di un premio. Erano anche quelli che avevano scelto quel ruolo per redimersi da qualche marachella che avevano commesso.
Dopo qualche azione particolarmente rischiosa avevano diritto a qualche giorno di riposo e di libertà per riprendere fiato e ritrovar le forze. Erano giovani spregiudicati, pieni di vita e dotati di un appetito formidabile, soprattutto quando tornavano dal fronte. In quei giorni non tutte le galline tornavano nel pollaio.
Un giorno si presentò all'ufficiale responsabile una donnetta a reclamare per una gallina che era scomparsa. Il capitano, che probabilmente l'aveva mangiata assieme ai suoi soldati, per salvare l'onore dell'arma inscenò la farsa dello schieramento e della perquisizione, minacciando castighi apocalittici per il colpevole che, naturalmente, non si trovò.
Il compito di mantenere l'ordine e di far rispettare il coprifuoco era affidato ai Carabinieri, il comandante dei quali, sia detto con tutto il rispetto dell'Arma, era un autentico lavativo che usava ed abusava dell'autorità che gli veniva da quello stato di emergenza. Ricattava, arrestava, sequestrava a piacimento. La povera gente, per quanto indispettita, si limitava a brontolare e intanto consegnava senza replicare burro, formaggio e qualsiasi altra cosa fosse richiesta. Solo gli arditi potevano e osavano ribellarsi.
Una sera un gruppo di loro, arrivati da poco dal fronte stanchi e affamati, s'erano attardati oltre l'ora del coprifuoco. Il Comandante dei Carabinieri intimò loro di ritirarsi; non obbedito ripeté l'ordine con arroganza e con tono autoritario. La terza volta non poté ripeterlo perché è rotolato lungo le scale e buon per lui che, coperto dalle tenebre, riuscì a svignarsela. E non pensate che abbia protestato o reclamato perché agli Arditi, lontano dal fronte, non comandava nessuno.
Nel giugno del 1918 sul Tonale si scatenò l'offensiva attesa e temuta insieme. Gli austriaci erano decisi a sfondare e puntavano su Milano attraverso la Val Camonica e la Valtellina. Gli ufficiali avevano in tasca l'itinerario da seguire.
Furono 24 ore d'inferno: la zona illuminata a giorno dai fari e dalle granate in partenza e in arrivo. Si sentiva un rombo continuo di centinaia di cannoni, sistemati al di là del Passo. L'offensiva fallì, ma i morti furono molti da ambo le parti come attestano i nomi scolpiti sul monumento del Tonale, che fu costruito in seguito per ricordare quelle terribili giornate di sangue.
Ponte di Legno era in fiamme e noi ricevemmo l'ordine di fuggire sui monti, ovunque purché si fosse fuori del tiro dei cannoni. Ricordo bene quella notte perché nel frattempo avevo 6 anni. Ricordo lo spavento e la confusione delle mamme che scappavano con i loro bambini, portando con sé quel poco che potevano, spaventate per i pericoli del presente e preoccupate per l'incognita del domani.
Noi, dico la mia famiglia, siamo andati in una nostra cascina, la più lontana che avevamo sul versante del monte che guarda a sera. Quella cascina, abbastanza capace, si riempì ben presto di gente. Nella stalla s'era insediata la "Fureria", un ufficio amministrativo militare, e sopra una confusione di nonne, di mamme e di bambini che facevano un chiasso indiavolato. Io ero contento dell'ospitalità dei miei familiari, ma non potevo sopportare il lamento continuo di una povera donna anziana e paralitica che non taceva né di giorno né di notte, mi procurava una vera angoscia e mi costringeva a scappare nei prati e nei boschi vicini.
Spesso arrivavo fino alle "Paoline", un posto meraviglioso ove i militari avevano preparato un ampio spiazzo per dar modo ai militari stessi di addestrarsi, con i loro magnifici cavalli, al salto agli ostacoli. è inutile dirvi che io me ne stavo lì delle ore, estatico ad ammirare.
Ho già detto che io ero troppo bambino per capire tante cose, ma non ero troppo piccolo per non soffrire. Quelle scene di terrore, quei bombardamenti, quei lampi, quel fuggire, quel sentire parlare di guerra, di sciagure, di bombe, di pericoli, di morti, di feriti, quel trovarsi per anni in mezzo a gente che viveva nell'angoscia pensando ai loro mariti, ai loro figli al fronte, quell'attesa spasmodica di notizie che non venivano mai, quegli annunzi terribili di familiari che non sarebbero più tornati, tutto questo ha lasciato profonde impressioni nel mio cuore, privandomi di quella serenità tanto necessaria nei primi anni dell'esistenza, rendendomi timido, insicuro ed estremamente vulnerabile.
DANNI DELLA GUERRA - La guerra del 1915-18 fu la causa in Italia di 600.000 morti, più altrettanti feriti e ammalati, senza contare la distruzione di ospedali, fabbriche, scuole, chiese, ponti, strade. Non parliamo poi delle spese militari per armi, fortificazioni, ecc.
Perdite più elevate e danni maggiori ci furono in Austria, Germania, Francia e altre nazioni, ove i morti si contarono a milioni. Altrettanto gravi se non maggiori furono i danni morali: esistenze sconvolte, la vita umana considerata un nulla: se non bastavano cento uomini per un'azione pericolosa, se ne impegnavano 200, purché ci fosse maggior risparmio di muli che costavano di più.
Evidente fu l'inutilità della guerra: ingiustizie più di prima, odi, divisioni. Si è fatta la guerra con l'intento di fare giustizia e si è lasciata un'ingiustizia maggiore, con inevitabili discordie e odi.
Quando s'è trattato di tracciare i confini e di dividersi le colonie la parte del leone l'hanno fatta i vincitori e i più forti: alla povera Italia fu lasciato soltanto un po' di sabbia in Africa perché non faceva gola a nessuno.
LA SPAGNOLA - La guerra ha lasciato per di più una triste eredità: la cosiddetta "spagnola", un terribile contagio che si è diffuso in tutta l'Europa, così terribile e così micidiale da far pensare alla peste dei secoli passati, certamente il flagello più micidiale del secolo. Quanti furono i morti in Italia non lo so; c'è chi afferma che la "spagnola" avrebbe fatto più vittime della stessa guerra.
Colpiva uomini e donne, vecchi e bambini: ogni famiglia ne era colpita, ogni paese aveva i suoi morti. Si racconta che in un grosso paese della nostra Valle il seppellitore, che prendeva un compenso per ogni tomba che scavava, era soddisfattissimo del suo guadagno e sperava che durasse a lungo, ma non so se lui stesso l'abbia scampata.
Era un morbo violento, sconosciuto e mortale. Non c'erano né medicine, né trattamenti particolari che potessero aiutare: hanno resistito i più robusti e quelli che il Signore volle salvare. Io e tutti i miei siamo rimasti colpiti e ricordo che veniva da Ponte di Legno un medico con un cavallo bianco per suggerirci qualche impiastro e prescrivere dieta assoluta. Per fortuna una mia zia, rimasta immune, si affrettò a fare esattamente il contrario. Della mia famiglia non morì nessuno e non ci restò che ringraziare il Signore.
IL PROGRESSO - La guerra è quel gran male che sappiamo, ma la guerra fu l'occasione di un grande progresso nella tecnica. Tutti volevano vincere e ricorrevano a tutti i mezzi conosciuti e in cerca affannosa di altri mezzi nuovi, con la speranza di arrivare per primi per sopraffare gli altri.
Le necessità aguzzano l'ingegno e la guerra fu l'occasione di un balzo in avanti nella tecnica: comparvero, purtroppo, nuove armi più micidiali come le mitragliatrici, comparvero nuovi mezzi di trasporto come automobili e camion. C'erano anche prima, ma molto rari e rudimentali. Quando arrivò la prima macchina nei nostri paesi, passando per quelle strade strette, tortuose e polverose, tutti andavano a vedere quel portento: una carrozza senza cavalli che correva nientemeno che alla velocità di 30-40 chilometri all'ora. Chi l'aveva vista per primo non poteva far a meno di parlarne agli altri che rimanevano tuttavia increduli, come se si trattasse di una cosa impossibile.
L'ultimo anno di guerra s'è visto il primo aeroplano. Mio zio diceva che era opera di stregoneria: era una carriola volante, un baracchino che non si sa bene come stesse in aria. Non aveva lo scopo offensivo: serviva soltanto per buttare volantini di propaganda e per spiare le postazioni nemiche. Famosissima fu l'impresa del grande pilota Baracca che si spinse fino a Vienna, come sfida al nemico; ma s'era agli ultimi mesi e certamente si trattava di un apparecchio specialissimo, tenuto apposta per lo scopo.
Ricordo ancora quando ho visto il primo aereo, ma non ho capito niente di quella grande invenzione e mi meravigliavo nel vedere il mio maestro correre da matto per raccogliere i volantini che cadevano dall'alto.
Grande stupore ci fu anche quando, terminata la guerra, nelle nostre case arrivò la luce elettrica: quelle lampade che illuminavano senza olio, senza petrolio, che si accendevano senza fiammiferi, non finivano di stupire. Se n'era sentito parlare, ma una cosa è sentirne parlare come di cose lontane e non fatte per i nostri paesini, e un'altra cosa è averla sotto gli occhi e vederne l'effetto e i vantaggi. Mio zio non volle crederci fino a che non poté toccarla con mano; ma era tanto lontano dal capirne qualcosa che la prima sera, volendo spegnere quel lume prima di andare a letto, cominciò a soffiarci sopra, stupito che quella diavoleria non si spegnesse come faceva il lume e la lucerna. E chissà quanto avrebbe soffiato impaziente e stupito se non fosse intervenuta mia mamma a girare l'interruttore.
Quel fatto di mio zio fa ridere davvero, ma tu che usi la luce elettrica dacché sei nato, hai mai pensato al mistero di quella grande conquista? Una energia che viene prodotta in modo misterioso a 100 o mille chilometri di distanza, che corre in un filo alla velocità di 300.000 Km. al secondo e ti arriva in casa a portarti luce e calore. Quando accendi o spegni una lampada pensi qualche volta a questo prodigio, trovato dagli uomini ma creato da Dio? Se non ci pensi mai, come puoi ringraziare Dio del dono che ci ha dato ed essere ammirato e riconoscente verso gli studiosi che l'hanno scoperto?
Quella medesima ammirazione dobbiamo averla ancor più per la radio e la televisione che portano la voce e l'immagine da un continente all'altro, annullando il tempo e le distanze. Pensaci qualche volta e non cessare mai di stupirti di fronte a queste leggi ed invenzioni che godiamo senza capirle.
Il 4 novembre del 1918 le campane del mio paese suonarono a festa per dare l'annuncio, e a gran voce, che la guerra era finita. Fu un tripudio generale. Non solo non avremmo più sentito tuonare il cannone, ma avremmo visto tornare a casa i nostri uomini. Non più il coprifuoco, non più quella disciplina opprimente, quegli spaventi improvvisi, né quei timori del peggio, non più quei discorsi e quelle notizie funeree che eravamo soliti sentire; e noi ragazzi avremmo avuto la libertà di correre e divertirci a nostro piacimento.
Considerazioni, queste, che io, bambino di sei anni, non potevo fare da solo, ma le sentivo fare dagli altri, dentro o fuori di famiglia. Ma nessuno quel giorno né subito dopo comprese che quell'annuncio solenne segnava la fine di un'era per far posto ad un'altra nuova.
In quel giorno mi accontentai di bearmi del suono delle nostre magnifiche campane che sentivo per la prima volta perché, durante la guerra, erano rimaste mute per non essere un segnale al nemico. Quel suono mi scendeva nel cuore come una voce misteriosa che mi procurava una grande gioia.
Purtroppo non tutti gli uomini tornarono a casa. Il monumento ai caduti che sorse in seguito porta ancora il nome di quei poverini che non sono tornati: tanti, se teniamo conto dell'esiguo numero degli abitanti. Quelli che sono tornati, i reduci, di tutta Italia non erano più quelli di prima: docili, rassegnati nella loro povertà.
La guerra con le sue sofferenze, con i suoi orrori li aveva trasformati come i metalli nel crogiolo. Troppo avevano sofferto. Troppe cose avevano visto e ancor più ne avevano sentite per rassegnarsi a vivere poveri come prima. Tanto più che la guerra l'avevano fatta i poveri: i ricchi, i figli di papà, erano rimasti a casa a scrivere e a parlare di patria e di patriottismo. Anche allora, come sempre, era attuale il detto messo in bocca ai signori: "Armiamoci e partite!". Si voleva un po' di giustizia. Gli operai reclamavano una retribuzione migliore, i contadini non volevano più essere servi della gleba. E sia gli uni che gli altri volevano uscire dalle tante case in cui avevano vissuto fino allora e avere una casa decente.
Sorsero nuovi partiti: i cattolici convinti si ispirarono ai principi della Chiesa, già espressi una trentina di anni prima in quella meravigliosa enciclica sociale del grande Papa Leone XIII. Altri, invece, si ispirarono alla dottrina di Carlo Marx. Sorsero le discussioni, i comizi, giornali nuovi e bandiere bianche e rosse. C'era insomma un clima nuovo con sentimenti diversi; il povero non era più disposto a levarsi rispettosamente il cappello di fronte ai ricchi e neppure era ancora disposto a ringraziarli delle briciole da loro ricevute, chiedeva giustizia.
Anche nel nostro paese il vecchio parroco capì che la sua missione di sacerdote e pastore all'antica era finita e che doveva cedere il timone della barca a un altro più giovane e più aggiornato di lui. S'era nel giugno del 1919. Il distacco fu drammatico per lui e per tutti. Si trattava di staccarsi definitivamente da una popolazione con la quale aveva vissuto per tutta la vita e che lui aveva amato con tutta l'anima, dando loro il meglio di sé stesso. Di quella gente i più li aveva visti nascere, crescere e diventare adulti. Con loro aveva condiviso gioie e dolori.
Era la ragione di un padre che, per il bene stesso dei suoi figli, deve lasciarli. Con i vivi lasciava anche i morti che riposavano al cimitero al quale lui stesso li aveva accompagnati, mescolando le sue lacrime con quelle dei familiari.
Era venuto giovane, partiva vecchio su un carretto sul quale aveva messo le sue povere cose. Fu un vero giorno di lutto: piangeva lui e piangevano tutti. Non c'era bisogno di far discorsi per dire il suo dolore e il dolore di tutti. Io vedevo stupito, senza rendermi conto di quanta sofferenza ci fosse nel cuore di tutti; vedendo tante lacrime mi domandavo il perché.
Qualche mese dopo ed esattamente il 28 ottobre 1919 arrivò il nuovo Parroco o Curato, come lassù lo si chiamava. Era atteso da tutti con ansia. Nei nostri paesini di montagna, almeno a quei tempi, il Parroco era tutto: in lui si vedeva l'uomo di Dio, l'esempio da imitare, il consigliere, il pacere e soprattutto l'intercessore presso Dio e presso gli uomini.
Non c'era una bega in famiglia o tra famiglie che non finisse in parrocchia. E la parola del Parroco metteva pace fra i contendenti evitando di ricorrere agli avvocati che, sia detto sottovoce, danno sempre ragione a chi li paga di più.
Al suo ingresso io fui scelto per recitare la poesia di benvenuto, non perché fossi il più bravo, ma perché ero il più bambino tra i bambini e soprattutto perché ero figlio di genitori buoni e stimati. Siamo andati ad incontrarlo in fondo al paese, ove inizia la strada che collega alla statale. C'era un freddo da Siberia e scendevano alcuni minuscoli fiocchi di neve, portati dal vento.
Il nuovo Curato non deluse: fu davvero un grande dono di Dio e un grande regalo del Vescovo. Si disse che a favorirne la nomina sia stato un suo zio, o pro zio, vicario generale della Diocesi che portava il suo nome.
Don Giovan Battista Pedrotti, così si chiamava, era un pretino di trent'anni o poco più, piccolo, vivace, zelantissimo. Ci fu chi disse che lo fosse fin troppo in quanto pretendeva che il paese diventasse un convento. Si alzava prestissimo: al tocco dell'Ave Maria entrava in chiesa, quando non era lui stesso ad aprirne la porta. Si inginocchiava in un banchino di fianco all'altare a recitare l'ufficio e a fare la meditazione. E il suo slancio e il suo fervore lo pretendeva da tutti.
Sorgeva in quegli anni l'Azione Cattolica, organizzazione che si coprì di meriti negli anni trascorsi tra le due guerre. Se l'Italia si salvò dall'ateismo del dopo-guerra, se ci furono degli uomini validi e convinti, che hanno saputo battersi con coraggio in favore della fede e della Chiesa, lo dobbiamo all'Azione Cattolica.
Il nuovo Curato vi si buttò mani e piedi realizzando tutte le istruzioni che venivano dall'alto e fu veramente di esempio anche alle Parrocchie vicine. Assiduo al confessionale, al capezzale degli infermi, zelantissimo nel dispensare la Parola di Dio, fu veramente prete e Pastore del piccolo gregge che gli fu affidato.
In seguito a tanti strapazzi si ammalò ai polmoni, ma con una cura energica e coraggiosa si riprese e fu promosso arciprete di Esine, ma si dice che il cuore, almeno per qualche tempo, l'abbia lasciato al mio paesetto perché il primo amore non si può scordare.
All'arrivo del nuovo Parroco il sacrista era mio zio Piero, una degnissima persona, aiutato efficacemente dalla sorella Vittoria, della quale ebbi già modo di parlare in occasione del mio battesimo. Servì la chiesa con amore e disinteresse per una quarantina d'anni.
Arrivato il nuovo Parroco e cresciute le esigenze del culto, dopo qualche anno credette bene di ritirarsi per lasciare il posto a un giovane il quale, poveretto anche lui, fece del suo meglio per fare quello che c'era da fare.
Non gli mancava la volontà, ma fare il sacrista non era il suo mestiere. Tuttavia tirò avanti per qualche tempo, finché si ammalò. Il problema più grosso per lui era quello di svegliarsi al mattino per suonare l'"Ave Maria" che a quei tempi era prestissimo. Il suono dell'Ave Maria nei nostri paesi di montagna era, a quel tempo, una cosa importante perché dava inizio alla giornata come la tromba per i militari e la campana per il convento.
I contadini a quell'ora si alzavano per dar da mangiare alle bestie e per far tutto il resto. Tanto è vero che in un paese che io conosco, una mattina d'inverno il sacrista svegliatosi di soprassalto credette che fosse ora e suonò la campana alle 2 di notte. Una povera donna, come era solita fare al tocco dell'Ave Maria, andò nella stalla per mungere la sua mucca, ma la mucca si rifiutò di dare il latte ed ebbe, poveraccia, un sacco di bastonate.
Non so che dire: pochi avevano l'orologio in casa e tanto meno in tasca, e si regolavano con l'orologio del campanile.
Anche il nostro Emilio non faceva eccezione e doveva regolarsi lui pure con l'orologio del campanile. Era perciò costretto a dormire con un occhio solo. Una volta gli parve che fosse tardi e corse verso la chiesa, ma arrivato sulla porta sentì suonare le ore 2. Che fare? C'era la neve alta; tornare indietro, oltre al disagio, era quanto dire non svegliarsi in tempo; pensò bene di andare in sacrestia, di mettersi in un cassetto e di coprirsi con il pesante manto nero che serviva a coprire la bara dei morti, e lì si addormentò profondamente sognando non so che cosa.
Alla solita ora il signor Curato arrivato in chiesa, la trovò aperta e con le luci spente. Entrò e non trovò nessuno; entrò in sacrestia, silenzio; ma guardandosi attorno vide la sagoma di un uomo coperto da lutto. Lascio pensare a voi lo svolgimento di quella scena! Il curato spaventato, il sacrista ancor di più.
Fu allora che il sacrista ebbe in dono una sveglia tascabile che gli fosse di aiuto. Ma il povero Emilio, non pratico di quell'arnese, la caricava spesso a casaccio e non di rado gli suonava in tasca durante le prediche, con sorpresa e ilarità dei fedeli.
Povero Emilio! Era nato per soffrire: povero e non compreso in casa, lavorava sodo contentandosi di un pezzo di pane, senza un soldo in tasca e non sufficientemente coperto durante gli inverni rigidi e interminabili. Fatto sta che si buscò una bronchitaccia che, non sufficientemente curata, finì in tisia, allora inguaribile. Io lo ricordo ancora, seduto sui gradini della chiesa a prendere un po' di sole, che mi guardava con due occhi tristi e rassegnati, come chi aspetta solo la fine.
Di lui, come della mamma, ho un ricordo meraviglioso. Non aveva fatto studi particolari, ma era intelligente e capace. Scriveva dalla Svizzera lunghe lettere affettuose alla mamma e ai suoi tutti, senza un errore di grammatica o di sintassi, più e meglio di quanto sapesse fare un liceale.
Andò in Svizzera per 30 anni, iniziando quando era poco più di un ragazzo. Lavorava da falegname a Davos, ove era apprezzatissimo per la sua abilità e la sua onestà. Durante il mese che passava ogni anno a casa (sempre d'inverno) riceveva continue sollecitazioni perché partisse, come se non si potesse fare a meno di lui.
Così partiva in pieno inverno, con la neve alta e con la valigia in spalla, molto spesso a piedi o perché mancavano i mezzi di trasporto, o perché non funzionavano a causa del gelo. Ricordo quanto ci diceva delle difficoltà e dei pericoli che incontrava lungo il viaggio, soprattutto sul Bernina e sul Fluela, passi obbligati per arrivare a destinazione.
Era un uomo distinto nel portamento e piacevole nella conversazione. Da lui ho imparato tante cose, soprattutto ad essere di parola, costi quel che costi, e a non dire bugie per nessunissimo motivo. Io non l'ho mai sentito dire una parola meno che corretta, né a fare discussioni con la mamma, con la quale era sempre in perfetto accordo: lui non faceva mai niente senza di lei, né lei senza di lui.
Aveva anche l'arte di farsi obbedire e di farsi amare. Non l'ho mai sentito ad alzar la voce e tanto meno a minacciar castighi; io non ricordo d'avergli disobbedito sia pure una volta sola. Gli volevo bene e non gli avrei dato un dispiacere nemmeno per tutto l'oro del mondo.
Frattanto io, come tutti i miei coetanei, ho varcato le porte della scuola. Fin dal primo anno, e nei seguenti sempre più, risultò che ero un bambino immaturo, come quegli uccellini che cascano dal nido prima del tempo: timido, incapace di contraddire, arrendevole fin troppo come un giardino aperto a tutti.
La maestra del primo anno, la maestra Ferrari, religiosissima, paziente, matura e preparata, fu una benedizione per me e non l'ho più scordata perché mi ha fatto da mamma e mi insegnò tante belle cose, e con la parola e con l'esempio. Ma la scuola non è sempre quell'ambiente ideale che dovrebbe essere; a scuola si è in tanti e ci sono i buoni e i meno buoni, e la convivenza finisce per livellare: non sono le mele buone che rendono buone quelle che non lo sono, ma sono le mele marce che corrompono quelle buone. Non è che i miei compagni fossero cattivi, ma i difetti di singoli finiscono col tempo per diventare i difetti di tutti, e si sa che le piccole gocce messe assieme a molte altre diventano un rigagnolo e che scorrendo per terra formano le pozzanghere. Le esperienze di ognuno diventano le esperienze di tutti e si finisce per imparare anche quello che sarebbe meglio non sapere.
Si impara a disobbedire, a ribellarsi, si impara insomma a fare quello che non si era mai fatto, non foss'altro che per non essere meno dei compagni. Fatto sta che da monello che ero lo divenni ancor di più. Di quegli anni ricordo un fatto che ho raccontato ai bambini di Borno, quelli di un tempo che oggi sono diventati uomini che mi fanno sussiego: l'ho raccontato per confortarli, per dir loro di farsi animo perché anch'io, alla loro età, ero un monello come e più di loro. Quel fatto l'ho poi scritto sulla "Voce di Borno" (Maggio 1958 - n. 38) dalla quale lo tolgo tale e quale com'è.
QUAND'ERO RAGAZZO - È un'ora che me ne sto qui con la penna in mano, indeciso come l'asino di Buridano ; contarla o non contarla? Si tratta della storia del topolino. Ma procediamo con ordine.
Quei pochi episodi della mia fanciullezza ch'ebbi il candore di rivelare suscitarono le reazioni più disparate. Una buona donna - Dio la benedica - mi assicurava della sua incredulità: io - secondo lei - dovevo essere fin d'allora un angelo caduto dal cielo per il troppo peso. Invece i ragazzi mi hanno creduto subito e come! E mi dissero chiaro e tondo di raccontare... il resto. Il che io mi decido finalmente a fare sicuro della vostra benevolenza.
Era arrivata lassù, in supplenza, una maestrina... di lusso, sui diciott'anni, che veniva dalla città e parlava sempre in italiano. La poveraccia era alla sua prima esperienza di insegnamento. A noi scolari di 4^ classe non piaceva affatto con quel cappellino civettuolo, con quei tacchetti a spillo, con quella «conserva» in viso e quella vocina aguzza e tagliente, che a noi - abituati alla voce di un uomo - pareva uno scherzo. Per di più non trovava in noi niente di buono: noi disordinati, noi zucconi, noi fannulloni. No, così non poteva andare e ci sembrava necessario reagire, correre ai ripari, fare qualche cosa insomma. Una sera, dopo la scuola, il caporione - ogni classe ha il suo - mostrò a tutti apertamente il suo disappunto. No, quella maestrina non faceva per noi. E dopo tanti progetti fatti e scartati venne fuori finalmente l'idea geniale: quella del topo.
Il compito di catturarlo fu affidato a me, e non passarono molti giorni che il topo c'era in carne ed ossa, vivo fin troppo e svelto come un pesce. Quando capitai nell'atrio della scuola con la scatola di cartone sotto il braccio fu un applauso generale che - voglio essere sincero - fu forse l'unico che ho ricevuto in vita mia. Quella mattina c'era interrogazione e la signorina aveva promesso di farci sentire il sapore della sua bacchetta. Il ché fece per davvero. E fu appunto allora che ricevetti l'ordine di «mollare». Il topolino saltò fuori d'un balzo e, fatto un giro per la scuola, si ficcò sotto la cattedra della Maestra. Il finimondo che ne seguì lo lascio immaginare a voi. «Il topo, il topo! Dalli al topo!».
Armati di righe, di libri, di zoccoli si corse all'assalto. La maestrina, presa dal panico, saltò sulla sedia e dalla sedia sul tavolo, pallida e tremante, invocando aiuto. Dopo una lunga maratona il topo fu preso e giustiziato, ma quella mattina, di scuola non se ne parlò più e la signorina pensò sempre più con nostalgia alla mamma lontana finché un giorno fece le valigie, per sempre. Non diversamente dal capitano che - smarrito e confuso - torna sconfitto dalla battaglia alla quale si era avviato sicuro e baldanzoso.
E poiché siamo in vena di confidenze, lasciatemi che ve ne faccia,un'altra: ché quella è proprio roba mia, unicamente mia.
I «buli» ci sono sempre stati: quei ragazzi cioè che, arrivati ai quattordici anni e sentendosi già mezzo uomini, cominciano a darsi arie, a disprezzare e a maltrattare quelli più giovani e più deboli di loro. Era precisamente ciò che faceva Pippo il quale - essendo uno degli alunni più alti e più anziani - si teneva in diritto di far soprusi a danno degli altri. Così stando le cose un ripiego bisognava mettercelo e la giustizia doveva essere fatta. Così pensavo io, almanaccando nel mio cervello. Ma cosa avrei potuto fare? Pensa e ripensa l'idea venne e - non faccio per dire - ma fu geniale per davvero. Un'idea che se non era fondata sul coraggio, rivelava almeno parecchia astuzia. L'arma fu un bel cartoccio di tabacco da fiuto, il complice, un compagno fedele, che aveva dei conti lui pure da regolare, e Pippo fu servito di barba e capelli. Una sera lo andammo a trovare nel suo stesso regno e subito l'attaccammo. Il compagno aveva il compito di distrarlo esponendogli un progetto allettante: al resto pensavo io. Difatti quando l'attenzione del «socio» fu completamente assorbita io, che gli stavo dietro, gli misi fulmineamente una mano sulla bocca, tappandogliela, e il cartoccio aperto sotto il naso. Il disgraziato se non volle soffocare dovette rassegnarsi a tirar su un mezzo pugno di tabacco, pestifero più dell'aglio. Eravamo già lontani e Pippo continuava ancora a starnutire disperatamente, sguaiatamente facendo certe facce e certi inchini belli a vedersi.
Pensandoci ora mi vien da ridere e non posso che condannarmi. Però... non voglio esagerare, ché la benevolenza sta bene anche con se stessi. Quell'episodio - con qualche errore... ammetto - non era altro, in fondo, che una ribellione contro i prepotenti a difesa dei deboli. Il ché fu poi sempre una delle note dominanti della mia vita.
Terminata la scuola, ogni anno, ancor giovanissimo, andavo in cascina, quella più lontana che era al limite del bosco e parzialmente nascosta tra gli alberi. Non ci andavo per divertirmi, ma per accompagnare al pascolo le mucche e le pecore di nostra proprietà.
Il mio compito di pastorello era quello di tenerle lontano dai luoghi pericolosi e di condurle alla fontana o al Rio per abbeverarle. Il "Rio" era, come lo è tuttora, un magnifico ruscello che sgorgava, limpido e freschissimo, da una roccia sotto i nostri occhi e scendeva poi rumoreggiando tra i sassi ad azionare due mulini del paese e ad irrigare la campagna sottostante. Quel ruscello esercitava su di noi pastorelli un fascino particolare e ci si sguazzava dentro che era un piacere.
Pensando a quegli anni lontani mi rivedo ancora: un pane di segale in tasca, un giubbetto sulle spalle, un paio di pantaloni né lunghi né corti come quelli di Pinocchio, un berettino in testa e l'immancabile bastone che era simbolo del comando.
Volevo bene alle mie mucche e guai a chi me le toccava. Io ne ero orgoglioso anche perché, a mio parere, erano le più belle che ci fossero nella zona. Ciascuna aveva un nome e di ciascuna conoscevo pregi e difetti. C'erano le prepotenti, le irascibili, le timide che si rifiutavano di combattere e scappavano sempre; c'erano, infine, le puntigliose che non cedevano mai. Io le accarezzavo, davo loro di tanto in tanto un pizzico di sale, di cui erano golosissime, e loro contraccambiavano le mie premure obbedendomi e seguendomi docilmente.
La mucca più bella e più forte, la regina del gruppo, faceva da capitano, un posto che si era guadagnata combattendo e, come è giusto, portava al collo la campana più grossa di cui si serviva con fierezza per imporre a tutte le altre la sua autorità.
La sera, prima che il sole si nascondesse dietro il monte, ci si avviava verso casa seguendo il sentiero ben noto a tutte loro. In testa, come si addice a un condottiero, c'era sempre la regina che camminava maestosa e in modo da far suonare continuamente la sua campana. Io me ne stavo naturalmente in coda, che è il posto del timoniere, e camminavo fischiettando, contento come un capitano che si avvia al riposo dopo aver vinto la sua battaglia.
A casa c'era la mamma, arrivata dal paese appena in tempo per aprire la stalla, mungere le mucche e preparare la cena, mentre io portavo il latte al caseificio. Dopo la frugalissima cena, la mamma mi faceva recitar le preghiere, quelle che io conoscevo, alle quali lei aggiungeva le sue che aveva imparato da bambina, semplici ma pervase da tanta poesia e ricche di tanta fede. Poi ci si sedeva accanto al fuoco e mi parlava delle difficoltà e delle preoccupazioni della famiglia, mi parlava di Dio, della sua provvidenza; mi diceva che ogni bambino nasce col suo cestino; mi parlava del Paradiso e dell'Inferno, della Madonna e dell'Angelo Custode.
Infine mi parlava del papà, soprattutto del papà che era in Svizzera a lavorare per noi, che ci voleva tanto bene e che io dovevo essere buono per corrispondere ai suoi sacrifici. Quando il sonno mi aveva chiuso gli occhi mi accompagnava a letto: dormivo sodo e sognavo.
"Piccolo ragazzo e gran peccatore". Era quanto diceva di sé stesso S. Agostino pensando alla sua giovinezza. Non so se quel santo lo dicesse solo per umiltà. Io di me stesso lo potevo dire davvero. Parlo dei primi anni della mia vita di pastorello, quando al seminario non ci pensavo affatto e mi comportavo come un cavallo selvaggio che scorribanda nelle praterie.
Durante le lunghe giornate di luglio e di agosto passavo gran parte del tempo a giocare con i compagni, pastorelli anche loro. Si faceva a chi correva di più, a chi era il più forte, a chi era il più bravo a colpire un bersaglio, a chi lanciava il sasso più lontano e qualche volta, purtroppo, a fare dispetti a "Lilli", il cagnolino pestifero della signorina "Ghita", che era una vecchia zitella che brontolava sempre attribuendoci anche quelle poche colpe che non avevamo commesso. Il resto del tempo lo si passava a rincorrerci a rompicollo, giocando al cane e alla lepre, al ladro e alle guardie.
Non c'era un angolo, un buco, un sentiero, una pianta che non conoscessi. Sapevo dove il tordo, il merlo, il fringuello avevano il nido: degli uccelli della nostra zona sapevo tutto; ne conoscevo il canto, la forma del nido, la grandezza e il colore delle uova; conoscevo anche le loro abitudini e li seguivo per carpirne tutti i segreti.
Nei momenti di calma, soprattutto alla sera, pensavo con rimorso al male fatto e me ne pentivo. Pensavo a Dio che vede tutto, al mio Angelo Custode che mi seguiva sempre e che era scontento di me. Pensavo al diavolo che mi aspettava sulla porta dell'Inferno con un ghigno beffardo e con un forcone in mano, in attesa che io morissi, e allora mi toccavo il polso per controllare se batteva ancora e funzionava bene.
Il pensiero del diavolo mi tornava spesso, soprattutto quando combinavo qualcosa di grosso, e un giorno l'ho proprio visto in carne ed ossa facendomi prendere uno spavento che non vi so dire. Mi trovavo sulla sommità del "Dosso del vento" là dove inizia il vasto pianoro del "Coleazzo". è un posto meraviglioso, uno dei più belli che io abbia mai visto. Di fronte l'Adamello con tutte le montagne che lo fiancheggiano, il Pian di Neve che si estende maestoso per chilometri e chilometri, il Castellaccio, il Pisgana, il Tonale e in basso tutta l'Alta Valle da Ponte di Legno all'Aprica e, nel fondo della valle, il fiume Oglio che, visto dall'alto, sembra un nastro d'argento.
Ero salito lassù in cerca di stelle alpine quando, improvvisamente, mi compare il diavolo. Aveva due grandi corna, due occhi di brace, una barbetta misera ma lunga come i cinesi. Era lì a pochi passi e mi fissava immobile e silenzioso. Non persi un istante: mi voltai di scatto e, preso in mano il mio berettino, mi precipitai verso il basso scavalcando cespugli e pianticelle per andarmene lontano nel più breve tempo possibile. Nessun atleta, bravo che fosse, avrebbe potuto raggiungermi. Penso che neanche il diavolo ci sarebbe riuscito.
Corsi finché le gambe mi ressero, poi mi guardai intorno: il diavolo non c'era e in quel silenzio di tomba non sentivo che il battito del mio cuore. Ci volle tempo prima che mi riavessi un poco e che la mia mente cominciasse a funzionare. Allora mi ricordai che nel vasto pianoro del Coleazzo c'era una malga con mucche, pecore e capre, e dopo non poche esitazioni mi decisi a tornare sui miei passi per fare un sopraluogo.
Arrivai col fiato lungo e stanco morto, le gambe mi tremavano ancora e il cuore mi batteva forte. Non era il diavolo ma un maledetto caprone che s'era staccato dal branco in cerca di un'erba migliore, poi, soddisfatto, s'era sdraiato in una piccola buca di carbonaio, dalla quale non avanzava che la testa.
Potete credermi che quel giorno ne abbia fatto di propositi! Ma furono, come sempre, propositi da marinaio: di quei propositi che si fanno mentre infuria la burrasca, ma che si dimenticano appena quella è passata.
Ero monello sì, ma non cattivo. Assieme a un fardello di colpe e a un groviglio di cose storte, avevo anche dei buoni sentimenti che attendevano soltanto di essere scoperti e coltivati. Tutti i ragazzi, anche i più discoli, hanno nel cuore qualcosa di buono.
Un sabato sera, durante la confessione dei miei peccati, che erano molti e sempre quelli, nonostante i propositi che rinnovavo sempre ma non mantenevo mai, il Signor Curato che mi conosceva più e meglio di quanto io pensassi, mi guardò bene in faccia e mi fece una paternale che non ho più dimenticato.
«Caro Ernestino - mi disse - hai già compiuto gli undici anni ed è ora di far giudizio se vuoi entrare in seminario. Lascia da parte i compagni meno buoni, sii più obbediente in casa e più composto e rispettoso fuori. Studia con più impegno, recita sempre le tue preghiere, confessati tutte le settimane e ascolta la messa tutti i giorni facendo ogni volta la S. Comunione perché il seminario è un luogo santo, nel quale non possono entrare che i ragazzi buoni che desiderano diventare preti».
Fu una vera mazzata in testa. Il pensiero del seminario non mi era affatto nuovo, anche perché la Signorina Vittoria - la sacrestana - mi ricordava spesso la profezia del vecchio Curato. Ma come faceva il nuovo Curato a saperlo dal momento che quel mio segreto lo custodivo gelosamente nel cuore e non l'avevo mai svelato a nessuno? Per di più il seminario lo immaginavo qualcosa di aereo, di paradisiaco, di irraggiungibile. Mi immaginavo che i superiori non fossero preti come gli altri, ma diversi e al di sopra di tutti, abituati a vedere e a sentire soltanto cose belle, e che i seminaristi a loro volta fossero simili agli angeli e molto diversi da me.
Così ogni volta che ci pensavo finivo sempre per concludere che il seminario non era fatto per me. Ma dopo quelle parole, rivolte a me con quella sicurezza che non ammetteva né dubbi né tentennamenti, il seminario divenne d'un tratto una cosa concreta, una meta possibile anche se difficile a raggiungersi; mi è sembrato di trovarmi improvvisamente ai piedi di un'altissima montagna, ripida e scabrosa, che dovevo scalare ad ogni costo perché lassù mi si aspettava.
Da quel giorno ce la misi tutta. Ogni giorno la Messa e la Comunione, le mie preghiere mattino e sera, la Confessione frequente con i relativi propositi sinceri anche se non riuscivo sempre a mantenerli; ma dalli oggi dalli domani qualcosa riuscivo a cambiare.
PERPLESSITÀ - Finita la scuola anche quell'anno tornai in cascina per svolgere il mio solito compito di pastorello, ma la mia condotta non era più quella di prima. Il pensiero del seminario mi impegnava tutto il tempo nello sforzo continuo di colmare il grande divario che c'era tra quello che ero e quello che avrei dovuto essere.
Il diavolo, nel frattempo, non mi dava tregua assalendomi con mille dubbi e perplessità. Non si trattava di dubbi sulla mia vocazione, perché di questi dubbi non ne ebbi mai né allora, né più tardi, né mai. La chiamata al sacerdozio mi sembrava così chiara e così sicura da non mettersi neppure in discussione. Si trattava di altri dubbi che sorgevano dalla consapevolezza dei miei limiti. Il seminario! Ne ero degno io con tutti i miei difetti? E i superiori, conoscendomi, mi avrebbero accettato? E i miei compagni come mi avrebbero accolto? Non mi avrebbero considerato come un asino tra le pecore? E se non fossi riuscito nello studio e fossi stato costretto a tornarmene a casa come uno sconfitto, come un fallito? Nel qual caso mi sembrava che avrei dovuto rimanermene sempre con gli occhi bassi per non incontrare quelli degli altri che, pensavo, mi avrebbero guardato con disprezzo.
E la fantasia galoppava ogni giorno di più, senza darmi tregua. Tutto questo non era umiltà (quella importantissima e simpaticissima virtù che è fondamentale a tutte le altre e che piace tanto a Dio e agli uomini), ma un pasticcio di timidezza e orgoglio. Era la paura esagerata di sbagliare, di fare brutta figura, di fare un passo falso; paura che genera incertezza, sfiducia in sé stessi, privandoti di quel coraggio che è tanto necessario nella vita.
Ero uno di quelli che hanno assoluto bisogno di qualcuno che li aiuti, che li incoraggi e che li difenda: una critica maligna ed insistente tarpa loro le ali e li mette nella condizione di chi è costretto a camminare con una palla di piombo al piede. Ero, in una parola, come una pianta troppo esile, che non si regge se non ha un sostegno.
ALTRE DIFFICOLTÀ - Ad aggravare le cose c'era la mia sensibilità che, quando è ben dosata, è un dono di Dio perché aiuta a comprendere e a condividere le sofferenze e le difficoltà del prossimo, ma quando è esagerata diventa un pericolo ed è fonte di tante sofferenze. Basta una parola pungente, uno sguardo, un sorriso che attendi e ti viene negato, una notizia triste o sgradita per toglierti la pace e crearti l'angoscia. Anche un fiume è una benedizione di Dio fino a quando rimane entro i suoi argini, perché porta vita e benessere, ma se si gonfia e sconfina semina distruzione e morte.
Quanto è misterioso il cuore dell'uomo! S. Agostino, da quel grande conoscitore del mondo, diceva che il cuore dell'uomo è come una grande caverna inesplorata, così grande e così tenebrosa che più ti inoltri, più ti sorprende e ti accorgi che non finisce mai.
Io non sono un filosofo, tanto meno lo ero allora, ma pensando a me stesso e osservando le cose che mi circondavano facevo anch'io qualche considerazione. Mi sembrava, a volte, di essere simile all'asino che ha due grandi orecchie: una per sentire e l'altra per lasciar passare; a volte, invece, mi sembrava di essere più simile al cavallo, nervoso e inquieto, più adatto a correre che a tirare il carro, più bisognoso del freno che della frusta.
Oltre a queste difficoltà più immaginarie che reali, ce n'era un'altra più vera e più concreta: quella economica. Per andare in seminario occorrevano i soldi e noi eravamo poveri. Come avrei potuto chiedere alla mia famiglia altri sacrifici oltre a quelli che già faceva? Gli anni 1925-35 furono anni di profonda crisi economica. Non c'era un posto di lavoro, non la possibilità di guadagnare un soldo. Per di più c'erano tasse pesanti e sproporzionate alla possibilità dei contribuenti. Lo Stato aveva bisogno di soldi, di molti soldi. Oltre alle spese ordinarie si stava preparando la guerra dell'Abissinia e della Spagna prima, e della grande guerra poi. Più che sugli operai lo Stato metteva le mani su chi aveva qualcosa al sole: tasse sulle case, sui terreni, sul bestiame, su ogni cosa, perfino sul carretto che serviva nella campagna.
A sua volta il regime fascista per accaparrarsi le simpatie delle masse era cargo di favori e di pacchi-dono ai nullatenenti, alcuni dei quali meno bisognosi dei poveri contadini della montagna, che lavoravano dalle stelle alle stelle per sopravvivere.
Io vedevo i sacrifici dei miei familiari e mi piangeva il cuore. Mio padre, che io adoravo, rinunciava al caffè che era abituato a bere nei 30 anni trascorsi in Svizzera, rinunciava al bicchiere di vino e perfino al vizietto della pipa, perché nulla mancasse a noi. Noi, a nostra volta, ci si accontentava dello stretto necessario per non aggravare il bilancio familiare: niente lusso, niente "gola"; il necessario e niente più.
In queste ristrettezze come era possibile parlarne ai miei familiari?
IL COLPO DI SCENA - Un giorno andai a trovare mio padre nella sua botteguccia di falegname, ove stava piallando non so che cosa. Non avevo niente da fare né da dire. Ero andato soltanto per fargli compagnia e lui, dopo avermi parlato affettuosamente di tante cose, mi rivolse quella classica domanda dalla quale sarebbe dipeso il mio avvenire. «Che mestiere ti piacerebbe fare quando sarai più grande? Il falegname no, perché è un mestiere pesante e non adatto per te che sei troppo mingherlino. Che cosa ti piacerebbe fare?».
Io divenni rosso come un peperone e tenendo gli occhi bassi risposi: «Io vorrei andare in seminario per farmi prete». E lui che doveva essere già al corrente della mia aspirazione, mi disse: «Tu lo sai che noi siamo poveri, ma se il Signore ti chiamasse davvero io ne sarei contento: la Provvidenza ci aiuterà. Ma sei proprio sicuro che quella è la tua strada?».
Io tutto confuso, ma senza alcuna esitazione risposi di sì. Il grande passo era fatto e a me non restava che di intensificare i miei sforzi e prepararmi al grande giorno.
S'era nell'anno 1925; il giorno dell'entrata era fissato per il 17 ottobre. Gli ultimi mesi furono tranquilli e sereni. I dubbi erano scomparsi ed io non pensavo ad altro che al seminario che mi aspettava.
Il distacco dai familiari non mi è costato un granché: li avrei rivisti dopo non molti mesi e intanto avrei pregato per loro. L'unica persona che mi ha fatto piangere fu la zia Giovanna, sorella di mio padre, la quale tanto disse e tanto pianse da costringere anche me ad imitarla. Mi diceva che lei era vecchia e che non mi avrebbe più rivisto, e ciò me lo ripeteva ogni anno al momento del distacco. Al contrario ebbe la gioia di vedermi prete e curato ad Artogne, l'amarezza di sapermi in carcere e, infine, curato a Borno. Morì nel 1946.
Era una donna fatta su a suo modo. Attaccatissima al passato, non volle mai in casa l'impianto della luce elettrica per non far torto al suo povero marito che morì senza quella diavoleria o lusso che fosse, e usava un piccolo lume che trasportava dalla cucina alla camera. Religiosissima più di quanto voleva far credere, nel pomeriggio della Domenica si chiudeva in casa e, dopo aver pregato a lungo con la corona del rosario e con un libriccino di devozioni logoro e ingiallito che usava da chissà quanti anni, cantava tutta sola i vespri, all'antica s'intende, e con un latino che solo il Padre Eterno poteva intendere; Lui di strafalcioni ne sente tanti ma, quando son pronunciati con fede e convinzione, li ascolta e li apprezza più di quanto non faccia con le preghiere e i canti dei monaci in convento. Apparentemente scorbutica si trovava a suo agio con lo zio Bortolo, suo fratello, che si divertiva un mondo a stuzzicarla per aver l'occasione di bisticciare un po': un modo come un altro per dirsi che si volevano bene.
Arrivò finalmente il fatidico giorno: quell'anno eravamo in due del paese ad andare in seminario. Ci accompagnò naturalmente il Signor Curato che ci aveva preparato al grande passo. Del viaggio non ricordo nulla. Ricordo solo, e come non potrebbe esserlo, che prima di consegnarci al seminario ci portò al Santuario delle Grazie, ove si pregò. Ricordo anche il punto esatto in cui ci siamo inginocchiati, e ogni tanto ci ritorno per riandare col pensiero a quel tempo, per ringraziare e raccomandarmi per l'avvenire.
Consegnatici ai superiori, preparato il letto, il posto in chiesa, a scuola, nel refettorio, il Signor Curato ci abbracciò e, dopo averci fatto le ultime raccomandazioni e averci assicurato che sarebbe ritornato prestissimo, partì. Noi rimanemmo lì, spaesati, confusi; ci vollero alcuni giorni prima di acclimatarci, come pianticelle strappate dal bosco e trapiantate in un giardino.
Parlare del seminario è un'impresa ardua per non dire impossibile. Si tratta di 12 anni che per me diventarono 13 per la ragione che vi dirò. Parlare di tutti i singoli anni ad uno ad uno sarebbe una cosa noiosa. Parlarne in blocco è una stoltezza. Un conto è essere ragazzi, altro è essere uomini. Sono diverse le difficoltà, diversi i problemi. Dirò soltanto qualcosa di quanto si può dire, con quella prudenza che l'argomento richiede.
Era un ex convento costruito parecchi secoli fa, con uno stile più che rispettabile. In seguito erano state fatte molte modifiche, aggiungendo o togliendo secondo le esigenze e i gusti del momento, alterandone lo stile e riducendolo a un vero baraccone. Solo pochi anni fa le "Belle Arti" ci hanno messo mano restituendogli il primitivo splendore.
Bello o no, al mio seminario io volevo bene perché vi ho passato anni impegnativi e fervorosi, forse i più fervorosi della mia vita. Volevo riuscire ad ogni costo e ai sacrifici che la vita del seminario richiedeva, ne aggiungevo degli altri ancor più gravosi. Il seminario era povero: povero a tavola, ancor più povero nelle aule scolastiche e nelle camerate ove si gelava dal freddo. La mattina per lavarsi la faccia si doveva rompere il ghiaccio del catino. E questo non avvenne soltanto nel famoso inverno 1928-29, durante il quale scoppiarono le piante e che fu considerato uno dei più terribili a ricordo d'uomo, ma sempre.
Ciò nonostante ogni mattina, alle 6 in punto, quando suonava la campana della sveglia, mi bagnavo i piedi per svegliarmi bene e incominciare con fervore la mia giornata. E l'estate, quando faceva quel caldo afoso - perché allora l'inverno era veramente inverno e l'estate lo era per davvero - mi ero imposto di non bere né acqua, né vino, né latte. Un sacrificio vero e proprio; a volte mi portavo istintivamente vicino alla fontana. Ci fu anche dell'altro, ma non lo dico perché non si creda che fossi matto.
Ho fatto male, ma lo confessi soltanto quando la salute è ormai compromessa. Allora mi sembrava che fosse necessario per domare il mio corpo, che si poteva paragonare a quei cavalli focosi che hanno bisogno del morso perché non vadano nel fosso a rompersi l'osso del collo.
Il seminario offre tanti aiuti, ma la virtù è una conquista personale. Anche nelle gare ciclistiche ci sono le macchine al seguito pronte a dare una mano quando ce ne fosse bisogno, ma le scalate, anche le più gravose, le deve fare il ciclista, impegnando tutte le sue forze. Per camminare occorrono due gambe; così per riuscire non bastano i propri sforzi, ma occorre l'aiuto della grazia che si ottiene pregando.
Ricordo ancora le visite frequenti all'altare della Madonna, alla quale chiedevo con insistenza che mi desse una mano.
Chi è pratico di seminari e conventi non si meraviglia di tutto questo perché sa che il demonio non si ferma sulla soglia, ma entra e fa del suo meglio per distogliere dal bene. Se è difficile per un giovane mantenersi buono nel mondo, lo è ancor di più per un seminarista. Se il demonio si considera soddisfatto a corrompere un giovane qualsiasi, impedire che un seminarista arrivi al sacerdozio è una grande vittoria: il primo è un soldato, il secondo sta preparandosi a diventare un capo, un nemico dichiarato.
La formazione morale e spirituale è indubbiamente l'impegno principale per il sacerdote che è destinato a salvare le anime. Ma il sacerdote deve farsi anche la cultura necessaria per il suo ministero. Per questo al seminarista si richiede anche lo studio che, vi assicuro, è molto impegnativo.
Così la vita del seminario non è una vita facile: ogni giorno 5 ore di scuola, due di studio e due all'incirca in chiesa. Per capire non basta essere presenti a scuola, ma bisogna stare attenti e seguire le lezioni; per imparare non bastano i libri, ma bisogna studiarli; per fare i compiti non bastano carta, penna e calamaio, ma bisogna pensare a ciò che si deve scrivere. Così dicasi della preghiera: bisogna saper quello che si dice e quello che si ascolta; anche la Parola di Dio richiede il suo impegno.
I superiori mi hanno sempre voluto bene, ed io ho sempre corrisposto con altrettanto affetto. Tuttavia qualche incomprensione c'è pure stata. In 3^ ginnasio, per esempio, l'insegnante di lettere mi aveva probabilmente sopravvalutato, pretendeva da me più di quanto potevo dare e di conseguenza mi trattava con durezza. Io ce la misi tutta, al punto che mi ero ridotto come un limone spremuto; nonostante ciò non riuscii ad accontentarlo.
Alla fine dell'anno sentivo un prepotente bisogno d'un sorriso o di una parola buona per sollevarmi da quell'angoscia che era andata accumulandosi, giorno per giorno, nel corso dell'anno, ma quella parola tanto attesa mi fu negata. All'esame finale, che per altro era andato benissimo, mi congedò in tono di rimprovero e senza aggiungere altro: «Va pure, ma sappi che avresti dovuto fare di più».
Quel rimprovero fu la classica goccia che fece traboccare il vaso. Andai in chiesa e, nascosto nell'angolo più nascosto e più buio, scoppiai in un pianto angoscioso, senza ritegno, accompagnato da lacrime abbondanti e da singulti con tale violenza da non riuscire più a porvi termine. A mezzogiorno, non vedendomi comparire a tavola, vennero a cercarmi e a dirmi una parola di conforto.
Un pianto così amaro non l'ebbi più se non molti anni dopo in carcere, quando mi dissero dell'arresto di "Ogna" perché era in gioco la nostra vita, e più tardi a Vestone, quando mi comunicarono che era morto mio fratello Omobono.
(dalla "Voce di Borno" del 1963)
Si sa dove si è nati, ma non sappiamo dove moriremo. Ed io che speravo di poter riposare - quando a Dio fosse piaciuto - accanto ai vostri morti, che mi sono tanto cari, avrò invece un'altra dimora.
«Partire è un po' morire» perché è simile a quel distacco definitivo e totale che ci imporrà la morte. è certamente doloroso per voi che mi avete voluto più bene di quanto non meritassi, ma lo è forse ancor più per me. La Parrocchia di Borno era ormai da tanti anni la mia seconda famiglia alla quale volevo più bene di quanto ne volessi a me stesso: un bene incondizionato, senza calcoli di tempo, di interessi personali, di comodi o di sacrifici. Ho voluto bene al paese, alla chiesa, ai vostri morti, ai vostri poveri, ai vostri ammalati, ai vostri bambini ai quali ho donato la parte migliore di me stesso; ho voluto bene a tutti, senza alcuna eccezione partecipando con tutto il cuore alle gioie e ai dolori, alle delusioni e alle speranze di ciascuno.
Non sono mancati in questi anni i giorni di soffocante solitudine, di preoccupazione, di intima sofferenza e di vera angoscia che ho sempre tenuto per me, riservando per voi ovunque e sempre il più schietto sorriso. Perdono tanto volentieri e di gran cuore quelli che, più o meno consapevolmente, ne fossero stati la causa, come chiedo umilmente perdono a quanti avessi offeso o fatto soffrire, sia pure senza volerlo. E di tutto questo non rammarichiamoci troppo: la sofferenza è il Provvidenziale scalpello che dirozza la nostra anima e la rende degna dei Paradiso.
Sento il dovere di ringraziarvi dei vostri buoni esempi che furono molti e grandi soprattutto nel campo della fede e della generosità, che io non dimenticherò e di cui anzi vi sarò riconoscente fino alla morte. Ricorderò voi, i vostri morti, il vostro caro e bel paese nel quale io ho trascorso gli anni migliori della mia vita e al quale mi sento legato da troppi ricordi.
Continuate a fare il bene, ad essere profondamente religiosi ed onesti. In Paradiso non porteremo che le opere buone, accumulate con sacrificio, lungo il corso della vita. Il resto - tutto quello per cui i più si affannano - lo dovremo lasciare.
Il nuovo Parroco è molto buono e molto bravo, e mi tengo sicuro che saprà anche volervi bene quanto ve ne ho voluto io. Voi vogliategliene molto e sappiate anche manifestarglielo: anche il prete è un uomo e l'uomo non vive di solo pane; soprattutto ascoltatelo e aiutatelo con tutte le vostre possibilità.
Ed ora ci salutiamo con tanta semplicità e serenità, fiduciosi come dobbiamo essere della Provvidenza di Dio.
Un giorno il ministro delle finanze piemontesi, preoccupato com'era del futuro della «Piccola Casa della Provvidenza», mandò a chiamare il Gottolengo e gli chiese chi - dopo di lui - avrebbe pensato a tutti quei poveri infelici; e il santo, accennando alla guardia della Caserma vicina, rispose: «Vede quella sentinella? Fra poco ci sarà il cambio e il servizio continua». Così è della vostra Parrocchia: oggi c'è il cambio della guardia, ma la vita della Parrocchia continua. Gli uomini scompaiono ma le istituzioni rimangono.
Pregate per me. lo - ve lo prometto - lo farò per voi oggi e sempre.
Don Ernesto
Don Ernesto Belotti merita di essere ricordato con la riconoscenza che si deve a un Sacerdote che ha amato Borno e che, soprattutto, vi ha seminato tanto bene. Nel nostro paese esercitò il ministero sacerdotale per 19 anni (5 anni e mezzo come Curato e poi come Parroco), ed a Borno si ritirò negli ultimi anni, al tramonto della sua vita, quando ormai le sue forze e le sue energie incominciavano a declinare.
Quando giunse a Borno, nel luglio del 1945, suscitò subito, soprattutto fra i giovani, grande simpatia per la sua vicinanza alla gente, per la sua ricca umanità e per le prime iniziative che intraprese, accolte tutte con apprezzamento.
Da qualcuno fu qualificato come un “prete moderno”, perché il suo stile era un po' diverso da quello di don Andrea Pinotti e di don Domenico Moreschi (due figure sacerdotali molto amate dalla gente). Ma, nella sostanza, egli era un prete “all'antica”, un vero uomo di Dio, preoccupato dell'autentico bene delle anime e della loro salvezza eterna, In pari tempo don Ernesto era aperto e molto sensibile alle esigenze dei nuovi tempi.
Prete attento alle esigenze dei giovani - Introdusse subito la “Messa dei Fanciulli” e incominciò ad organizzare l'insegnamento del catechismo. Formò un bel Gruppo di catechisti ed ogni migliore energia fu posta al servizio di una ben solida formazione catechistica dei ragazzi e delle ragazze.
Gli venne poi l'idea della costruzione di un cinema parrocchiale, per il quale incontrò non solo difficoltà finanziarie ma anche “ideologiche”. Non pochi, infatti, vedevano solo gli aspetti negativi, e sottovalutavano quelli positivi che stavano a cuore don Ernesto. Sua intenzione era di offrire alla gioventù film buoni, divertenti ed edificanti, per impedire che essa scendesse giù in Valle, attratta da spettacoli diseducativi.
Parroco benvoluto - Quando morì don Moreschi, il Vescovo di Brescia nominò come nuovo Parroco don Ernesto. Il paese ne fu lietissimo: era la nomina desiderata da tutti i bornesi e che tutti si aspettavano.
Sua preoccupazione principale fu sempre quella religiosa e spirituale. Curò con passione le celebrazioni liturgiche. Le sue omelie ed i discorsi si ascoltavano volentieri, perché pronunciati con stile chiaro e semplice, non privi di battute dì spirito e conditi di grande saggezza. Il suo linguaggio era evangelico.
Si prodigò per promuovere l'Azione Cattolica nei suoi vari rami e fu uomo di dialogo. Per raggiungere anche quanti normalmente non venivano in chiesa, diede origine alla Voce di Borno, bollettino parrocchiale che “usciva come e quando poteva”.
Sacerdote dal cuore grande - Don Ernesto cercava di avvicinare tutti, rivolgendo a tutti una parola cordiale ed interessandosi ai problemi di ciascuno. Ebbe sempre un cuore grande, convinto che il sacerdote deve essere di tutti e deve tendere a tutti una mano amica.
Fu sacerdote buono e comprensivo, di indole più pratico intuitiva che teorico speculativa; era cioè più portato a cogliere i problemi delle singole persone che a valutare le correnti di pensiero o i movimenti intellettuali o i trattati di filosofia.
In occasione del 250 di sacerdozio celebrato a Borno, don Ernesto affermò che la vita del prete è bella e che, se avesse potuto tornare indietro, avrebbe sempre scelto di fare il prete, anche se non era una vita facile con i problemi e le esigenze dei nuovi tempi.
Dando l'addio a Borno sul finire del 1963, don Ernesto disse: «Ho voluto bene al paese, alla chiesa, ai vostri morti, ai vostri poveri, ai vostri ammalati, ai vostri bmibini ai quali ho donato la parte migliore di me stesso; ho voluto bene a tutti, senza alcuna eccezione, partecipando con. tutto il cuore alle gioie e ai dolori, alle delusioni e alle speranze di ciascuno». (Voce di Borno, dicembre 1963).
Oltre che della salvezza delle anime, don Ernesto si preoccupò dei bene e dello sviluppo del paese, promuovendone ed auspicandone la crescita e la trasformazione in un centro turistico. Si diede da fare con ogni mezzo e stimolò il contributo di tutti perché fosse valorizzato al meglio il patrimonio di bellezze dell'ambiente e delle pinete di Borno.
Un'amicizia che va oltre la tomba - Personalmente ho un debito di gratitudine verso don Ernesto, proprio perché mi ha accompagnato con affetto e con premura negli anni della mia preparazione al sacerdozio. La mia vocazione è sbocciata nell'ultimo anno del Curato don Andrea Pinotti, ma se sono potuto salire all'Altare, lo devo anche a don Ernesto che, giunto a Borno un paio di mesi prima che io entrassi in seminario, mi è stato costantemente vicino.
In quegli anni eravamo un buon gruppo in seminario (Franco Rivadossi, Vanni Gheza, Battista Sanzogni, io, Pietro Ferrari e, alcuni anni più tardi, si aggiunsero Giacomo Rigali, Pierino Re ecc.) e con don Ernesto si stabili un rapporto profondo di vera amicizia: egli fu per noi una guida saggia ed amica.
Da quando (fine del 1963) Don Ernesto lasciò Borno perché nominato Parroco di Pisogne, non sono passati molti anni, ma quel periodo sembra ora lontano, perché in questi ultimi decenni sono cambiate tante cose: siamo cambiati noi, è cambiata l'Italia, è cambiato il mondo. Ma il ricordo del. bene seminato da don Ernesto resta inciso nella memoria dei giovani di allora e fa parte di quel filone della storia dì Borno che è iscritta nei cuori con i caratteri indelebili della gratitudine.
La memoria di don Ernesto rimanga come testimonianza dei valori che danno senso all'esistenza e come richiamo al pensiero della vita che non muore.
+ G.B. Re
Sostituto della Segreteria di Stato
Appena terminata la Seconda Guerra Mondiale l'arrivo di don Ernesto ha portato una ventata di rinnovamento perché si è messo subito ad incontrare molte persone, ma soprattutto ragazzi e giovani, ai quali ha donato le sue migliori energie.
Dopo aver formato con incontri settimanali un gruppo ben nutrito di catechisti, ha affidato loro le classi della scuola elementare perché, nel periodo scolastico (ottobre-giugno), ogni mattina si fosse presenti in chiesa per la messa (ore 7,30) e per una mezz'ora di catechismo nelle aule scolastiche prima dell'inizio delle lezioni.
Don Ernesto era sempre disponibile ad accogliere in casa sua, sia di pomeriggio che di sera, i ragazzi e i giovani che si trovavano per stare insieme, ma anche per avere da lui consigli di vario genere. Gli confidarono problemi di natura spirituale, ma anche incertezze per il lavoro o la formazione di una famiglia. Don Ernesto sapeva ascoltare ed incoraggiare, come pure “premiare” i suoi collaboratori con cenette a base di ravioli (fatti da alcune ragazze volenterose), qualche fetta di salame, castagne e noci.
Proverbiali erano i suoi scherzi, in primis l'arrivo dei “fantasmi” nella Casa delle Suore Dorotee dopo un incontro con le catechiste!
Anche da parroco ha sempre mantenuto un costante rapporto con i giovani e i bambini, per i quali aveva fatto mettere dei giochi al campo sportivo e, più tardi, realizzato la costruzione del Cinema Pineta, che era tra i più belli della nostra Valle. A quei tempi le galline hanno sfornato uova a tutto spiano per far fronte alle notevoli spese per la realizzazione del cinema a cui, proprio mediante la vendita delle uova, tutta la popolazione ha generosamente contribuito.
I bornesi poi lo sentirono vicino anche negli anni del suo soggiorno in Casa Albergo e gli hanno sempre dimostrato un'affettuosa riconoscenza, rammaricandosi per il suo progressivo declino, dovuto all'età ed ai vari malanni.
Andando al cimitero per la visita ai propri defunti, molti passeranno nella Cappella pe ricordarlo con un fiore o una preghiera, come del resto avviene anche per gli altri sacerdoti.
Mariuccia Valgolio
Come forse tutti sapranno, al recente lutto per la scomparsa dell'ing. Coma Pellegrini, qui già ricordato come Sindaco di Pisogne, si aggiunge ora un lutto della Società religiosa di Pisogne, che pur ci tocca anche nella dimensione civile.
Alludo alla morte di Mons. Ernesto Belotti, già Arciprete di Pisogne dall'8/12/1963 al 31/1/1979; in precedenza Curato ad Artogne e poi Parroco a Borno; successivamente Canonico Emerito del Duomo di Brescia, e poi, infine, quiescente a Borno, ove, per sue ultime volontà, ha disposto di voler essere seppellito.
Della Sua biografia, abbastanza lunga quanto lo è stato la Sua vita, essendo nato a Villa Dalegno il 22/1/1912, intendo prendere in considerazione quel breve periodo che va dal 4/12/1943 sino al 1945 e che Lui ha tanto veracemente condensato in un suo libro di memorie titolato "Anni Difficili", perché ritengo che il richiamarsi a quell'epoca, sia sufficiente per comprendere la personalità di Mons. Belotti, "strutturalmente" a mia avviso rimasta immodificata nel prosieguo della Sua vita.
Entro nella Sua Storia, e leggo le Sue note: "il 4 dicembre dei 1943 - così scriveva in "Anni Difficili" - a mezzogiorno in punto, venivo dichiarato in arresto dalla Guardia Nazionale Repubblicana dell'allora - ad un tempo imperversante e in dissoluzione - regime fascista e tradotto in carcere, iniziando così uno dei periodi più duri della mia vita. Se in questi mesi non sono morto è perché Dio non ha voluto, ma il mio fisico e il mio spirito portano delle ferite che probabilmente non si rimargineranno più".
Portato prima nelle carceri di Brescia, e poi a Parma, insieme ad altri, fra i quali due Pisognesi (don Andrea Boldini, Parroco di Fraine, ed il Sig. Bortolo Felappi di Pisogne), dopo un lungo periodo di vessazioni subite e di stenti, il 24/3/1944, veniva incriminato dai Tribunali Speciali della Repubblica di Salò dei delitti di aver aiutato prigionieri Inglesi e Jugoslavi, e di aver favorito "inoltre e comunque i soldati italiani sbandati dopo l'infausto armistizio dell'8 Settembre 1943". La pena prevista: la pena di morte!
La citazione fu consegnata allora a don Belotti nell'Ufficio del Cappellano delle carceri la tarda sera del 20 Aprile 1944, un Giovedì. Il processo avrebbe dovuto aver luogo la mattina del Lunedì seguente, giorno 24 Aprile. Mons. Belotti, neanche in questi frangenti di rischio di sua morte personale e di diffusa morte attorno (perché molte furono le sentenze capitali eseguite), non cessò mai di credere e di sperare nella Divina Provvidenza che si manifestò, certo in un modo non proprio delicato, proprio il giorno previsto per il processo (e cioè il 24 Aprile 1944), attraverso spaventosi e violentissimi bombardamenti che gli Anglo-Americani cominciarono in quel giorno su Parma, e che continuarono poi in giorni successivi, fino a distruggere proprio anche le carceri e le aule dei Tribunali, rendendo così impossibili le celebrazioni dei processi.
Di rinvio in rinvio, e da trasferimento da sedi ad altre sedi carcerarie, Mons. Belotti sa leggere nuovi interventi della Provvidenza, in particolare quando il Sabato del 27/5/1944, vigilia della Pentecoste, un agente di custodia si presenta al responsabile delle carceri con un ordine scritto: "a lui dovevano essere consegnati tre Sacerdoti, fra i quali Mons. Belotti, dovendo essere posti in libertà".
La scarcerazione era dovuta nientedimeno che a un complesso ripensamento e su ordine del Duce in persona, senza il benestare della Questura che a sua volta ignorava le autorità italiane e dipendeva esclusivamente dai Tedeschi.
"Anni Difficili", è un libro di grande afflato, nel quale c'è corrispondenza e immediatezza fra emozioni e commozioni interiori e la pulizia della prosa, così come semplicemente ed efficacemente resa dal pensiero dell'autore. è di Mons. Belotti, ad esempio, la finezza di questa meditazione mentre stava in cella: "la Storia insegna che le grandi prove - soprattutto se sì protraggono a lungo - schiacciano i deboli e sublimano i forti" (e Lui lo aveva ben, ancorché tragicamente, sperimentato!).
Sua ancora è la finezza, diventato Arciprete a Pisogne, di un bellissimo richiamo al predecessore don Giovanni Recaldini, su "Anni Difficili", riportato come segue: "Nel registro delle messe dell'archivio Parrocchiale di Pisogne, in data 25 Aprile 1945 - giorno ufficiale della fine della guerra - vi si legge una postilla, scritta in lingua latina, degna di un saggio che della valutazione del presente sa trarre previsioni per l'avvenire. è dell'Arciprete don Giovanni Recaldini, mio venerato e indimenticabile predecessore, e suona così: "Hodie Libertas illuxit. Utinam ad bonum utatur!". Parole che, in moneta povera, potrebbero tradursi così: "Oggi è sorta l'alba della libertà. Voglia il cielo che venga usata per il bene!"
Riandando a quelle vicende, mi diceva Mons. Belotti, che Lui, in quei tempi, si era semplicemente (ed io dico eroicamente) limitato a praticare la Carità Cristiana: dar da mangiare agli affamati, da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini. E che verso tutto quel mondo di fuggitivi, peraltro non tutelati dal rispetto delle leggi internazionali comunque vigenti nel periodo bellico, non poteva fare diversamente; e, "mutatis mutandis" (come spesso avvenne poi) la stessa disponibilità di aiuto l'avrebbe avuta poi anche nei confronti di quei "persecutori", poi diventati perseguitati.
Le imprevedibilità della Storia lo avevano messo nell'ardua prospettiva cui Egli corrispose, pagando pesantemente di persona, di dover dare testimonianza dì Fede e Libertà. Ciò che fece, con salda coscienza sacerdotale e mitezza d'animo, conscio di agire secondo quanto richiedevano i principi e le tradizioni delle nostre antiche Civiltà del diritto, e della nostra Civiltà cristiana.
Per questo, pur avendo sofferto, aveva perdonato tutto a tutti, anche se qualche cosa "non riusciva a digerire". Per capire leggiamo allora ancora le sue note: "Le sofferenze e le umiliazioni che riguardavano soltanto la mia persona erano ormai passate senza lasciarmi amarezza alcuna. Le avevo accettate, giorno per giorno, con rassegnazione dalle mani di Dio, convinto fin d'allora che le prove della vita erano strumenti nelle sue mani per dirozzarmi un po' e rendermi meno indegno del mio sacerdozio.
Ciò che non riuscivo a digerire era d'avermi trattato come un "TRADITORE DELLA PATRIA". Quella calunnia infamante, detta e ripetuta, aveva lasciato un segno indelebile nel mio cuore come un ferro rovente su un corpo indifeso. L'amore della Patria era un sentimento troppo radicato in me perché, offendendolo, non ne risentissi. La mia patria io l'amavo allora come adesso perché vi sono nato e vi ho vissuto, perché vi è la mia casa e la mia famiglia, la mia scuola e la mia chiesa, perché vi sono i miei amici e i miei morti. L'amo perché ne ammiro la lingua, la storia, la cultura e l'arte. L'amo infine per le sue bellezze naturali e il suo clima che ne fanno il giardino d'Europa. L'Italia! Il centro civile e religioso del mondo".
Ritengo che di fronte all'incanto di un animo siffatto, non ci resti che inchinarci, riflettere e ricordare con riconoscenza!
Lissignoli Giuseppe
(Verbale della seduta del Consiglio Comunale del 23/2/2000)
Cüntòmela con i MISSIONARI
Fra i libri della bancarella pro oratorio di quest'estate, l'amico Fausto ha trovato un bel volume di oltre 400 pagine. Nell'ambito degli studi sull'emigrazione dai nostri paesi, l'Associazione Gente Camuna, l'Associazione per la storia della Chiesa bresciana e la Fondazione Civiltà Bresciana hanno promosso una ricerca e poi pubblicato questo libro sui missionari partiti dalla Vallecamonica.
Dopo la presentazione del card. Giovanni Battista Re e alcune prefazioni Simona Negruzzo, che insieme a Sergio Re sono i curatori dell'opera che fa parte dei “Quaderni di Brixia Sacra”, propone un interessante riassunto della storia missionaria della Chiesa dal 1500, quando i primi missionari partirono dall'Europa insieme ai conquistatori delle nuove terre, ai tempi nostri con le aperture verso le altre fedi promosse dal Concilio Vaticano II. Seguono poi alcune pagine scritte dallo storico ossimese Oliviero Franzoni sui primi missionari camuni dei secoli passati.
La maggiore parte del volume è costituita da schede sui singoli missionari dalla metà dell'ottocento ad oggi, contenenti a volte anche una breve testimonianza personale degli stessi protagonisti. Le schede sono raggruppate in base alle varie congregazioni missionarie (Cappuccini, Conboniani, Salesiani ecc.) delle quali si riporta all'inizio della sezione cenni su fondatori, nascita, sviluppo e presenza nel mondo.
Il poderoso volume termina con l'elenco dei sacerdoti Fidei Donum (preti diocesani donati alla missione) fra i quali figura ovviamente anche don Lino Zani e due appendici sui missionari laici sempre partiti dalla Valle Camonica, compresi quelli che fanno parte dell'Operazione Mato Grosso.
La tentazione quando si apre questa pubblicazione, stampata nel 2011, è di andare subito a vedere se ci sono i missionari nati e partiti dai nostri paesi. Ecco allora che da questo numero di Cüntòmela pubblicheremo ogni volta qualche scheda sui missionari partiti da Borno, Ossimo e Lozio. Accanto a nomi e volti conosciuti, magari troveremo persone di cui si era persa la memoria.
Padre SALVATORE DA BORNO
Giambattista Rivadossi
«Sono un ragazzo del '99 nato a Borno il giorno 8 ottobre 1899. Entrai nel collegio dei Cappuccini di Lovere nel 1910 e vi rimasi cinque anni. Vestii l'abito di novizio il 28 agosto. Emisi la professione semplice nel convento di Albino, il 3 settembre 1916. Venni precettato il 20 giugno 1917; nel gennaio 1918 fui nei pressi di Belfort in Alsazia. Il 20 agosto mi ritrovai sul monte Pasubio.
Venni congedato nel gennaio 1919. Terminai gli studi di filosofia e teologia e venni ordinato sacerdote il 14 giugno 1924. Mi diplomai in sociologia a Bergamo e i superiori mi destinarono a Milano come commissario del Terzo Ordine Francescano e segretario delle nostre missioni.
Nel 1935 partii per l'Africa come missionario e cappellano militare. Ripartii poi con la stessa mansione nel 1939: Albania, Montenegro, Iugoslavia, Austria, Germania, Francia. Il "giorno più lungo" lo vissi a Parigi. Qui le mie tracce si persero.
Venni dichiarato disperso da monsignor Orsenigo nunzio apostolico a Berlino che, dopo molte e varie ricerche, fece celebrare una messa di suffragio. Invece ero clandestino nel convento dei Cappuccini di Nantes. Nel 1946 ritornai in Italia con l'ultimo prigioniero e potei così riabbracciare mia madre, che mi aveva pianto morto.
Dal 1949 al 1955 ero stato eletto superiore dei conventi di Cerro Maggiore e Milano San Francesco. Undici anni a Brescia come cappellano dei libici e gli ultimi 14 anni a Sondrio, dedicandomi ai gruppi alpini e ai ragazzi del '99 di cui ero cappellano nazionale.
Gli ultimi tre mesi in infermeria, a Bergamo, come il beato Innocenzo».
«Aspetto la primavera», scrisse alla sorella in una delle sue ultime lettere, ma era la primavera eterna che aspettava lui. Moriva infatti il 4 maggio 1981.
Padre COSMA DA BORNO
Giovanni Rinetti
Nacque a Borno il 23 agosto 1911. Accolse la chiamata del Signore e vestì l'abito dei Cappuccini il 15 agosto 1933. Terminato il corso degli studi ginnasiali, filosofici e teologici venne ordinato sacerdote il 7 agosto 1938. Chiese ai superiori di recarsi nella missione del Brasile e partì l'anno dopo. Destinazione desobrigante o itinerante. Allora il missionario itinerante doveva essere veramente un uomo forte in salute, perché la sua assenza dalla residenza missionaria era di circa sei mesi all'anno. In quell'occasione padre Cosma predicò, confessò, amministrò i sacramenti, celebrò la messa. Quelle popolazioni vedevano il missionario una volta all'anno ed erano giorni di festa, pur nella loro squallida povertà e per lui erano sei mesi di vera fatica, ma aveva ereditato dai suoi genitori un carattere volitivo, abituato alla fatica e alle mortificazioni.
Queste caratteristiche fisiche e psichiche lo aiutarono molto a svolgere il suo fecondo apostolato. Eletto superiore, predicò molto le missioni al popolo e ciò avvenne in tutti gli Stati del nord e nord-est del Brasile. Era molto richiesto anche come predicatore di ritiri al clero diocesano e religioso. Poteva sembrare un superiore duro, insensibile, perché credeva al servizio del comando e rifiutava i compromessi. Si mostrava poi un uomo dal cuore d'oro. E questo lo dimostrava sempre con i bambini e con coloro che erano rifiutati perché non ritenuti “normali”.
Ritornato in Italia svolse il suo apostolato in vari nostri conventi, infine approdò al convento della SS.ma Annunciata di Piancogno. Questo suo ultimo approdo lo desiderò tanto perché qui trascorse molti anni il beato Innocenzo del quale era molto devoto e del quale conservava una reliquia.
Durante l'ultima malattia volle sapere la verità e quando il superiore pronunciò la terribile parola «è in metastasi» scoppiò in un pianto dirotto. Si riprese - il camuno - e disse: «Sono pronto a fare la volontà di Dio». Questa divina volontà si manifestò il 10 marzo 1987, quando Dio lo chiamò a sé, in attesa della risurrezione eterna.
Padre NOBERTO DA BORNO
Giuseppe Fiora
Borno, 5 novembre 1915 - Bergamo, 6 ottobre 1977. In queste date è racchiusa la vita di questo eroico missionario-cappellano militare. Il 5 ottobre 1926 il piccolo Giuseppe scende con padre Rizzerio Telga, al collegio di Lovere. Compiuti gli studi ginnasiali, vestì l'abito dei novizi il 10 gennaio 1931, l'anno successivo si consacrò definitivamente nell'ordine dei Cappuccini. L'ultima tappa si concluse nel duomo di Milano dove il 6 agosto 1939 il beato cardinal Ildefonso Schuster lo consacrò sacerdote. L'anno successivo, mentre l'Italia stava impegnando le sue migliori energie, civili e militari, per non vanificare gli sforzi e i sacrifici di una guerra che, di giorno in giorno, diveniva più incerta e paurosa, i nostri superiori chiesero a padre Norberto di prestare la propria collaborazione sacerdotale alla patria in armi. E lui non si rifiutò.
Rientrò dalla Grecia nel marzo del 1942. La divisione alpina Iulia si era ricomposta al completo dopo il tragico tributo di vittime e a fine luglio, padre Norberto, partì per il fronte russo. L'11 dicembre 1942 l'esercito russo, attraverso il Don, attaccò le tre divisioni Iulia, Tridentina e Cuneense, chiudendole in un cerchio mortale. Anche padre Norberto fu fatto prigioniero e per tre lunghi anni seguì il destino degli altri soldati.
Tutti prigionieri, soldati e graduati, conoscevano la figura del cappuccino che passava per confortare, ascoltare, benedire e rincuorare i prigionieri. Riuscì a rientrare in Italia solo il 9 luglio 1946. Rimessosi in salute riprese con grande entusiasmo e alacrità il ministero della predicazione e della confessione. Il Sovrano Ordine di Malta lo nominò - con decreto del capo dello Stato italiano - tenente cappellano all'ospedale di Alzate Brianza (Co). Nel 1957 passò cappellano all'ospedale militare di Baggio (Mi) ed in seguito accettò la nomina di cappellano della "Casa Veterani di guerra" a Turate (Co) con il grado di capitano e qui tra i militari svolse una vera opera missionaria. Vi rimase dodici anni. La sua vita terrena terminò il 20 dicembre 1965. La sua salma riposa ora nel piccolo cimitero dell'Annunciata.
Cüntòmela con i MISSIONARI
Proseguiamo la pubblicazione delle pagine tratte dal volume dedicato ai missionari partiti dai nostri paesi.
Padre Beniamino da Borno
Pietro Fedrighi
Al fonte battesimale gli venne imposto il nome di Pietro. Fin da fanciullo sognò la missione ed è in tale prospettiva che orientò la sua vita. Il 4 maggio 1917 entrò nel noviziato di Albino e, dopo aver fatto il servizio militare, il 15 agosto 1923 emise la professione solenne consacrandosi definitivamente nell'ordine dei Cappuccini.
Il 25 luglio 1926 venne ordinato sacerdote e l'anno successivo venne designato all'insegnamento nel seminario di Albino, dove ebbe la possibilità di manifestare le sue doti didattiche. Quando presentò ai superiori la domanda per essere inviato alla missione del Brasile non venne infatti accettata. Rinnovò allora l'istanza con più fermezza e ardimento, dimostrando di essere un bravo camuno: mai cedere al primo diniego! E nel 1932 il sogno si realizzò: era pronto per il Brasile!
I superiori gli affidarono il delicato compito della formazione dei giovani brasiliani che facevano domanda per diventare cappuccini. Padre Beniamino ebbe così la possibilità di dimostrare la sua conoscenza della psicologia dei giovani aspiranti. Agì da uomo di fede, con lo sguardo sempre rivolto con fiducia al futuro.
Nel 1946 venne designato parroco di Carolina, la più importante parrocchia della Prelazia di Grajaù. Insegnò nel collegio delle suore, ma è nel collegio pubblico che emersero le sue doti. Rifece e diresse il collegio governativo «Gomes de Sousa» sopportando tutte le lungaggini e i capricci burocratici. Del vecchio e cadente edificio ne fece la sede dell'Antoniano. Lavorò con cautela, ma con un coraggio che rasentava l'audacia, se non a volte la temerarietà; ma la fede lo faceva andare a colpo sicuro. In questo periodo dimostrò la sua forza di volontà e la sua tenacia, venne poi trasferito a Sào Luis do Maranhao dove incominciò ad accusare disturbi agli occhi. Ritornò in Italia per curarsi, ma gli venne diagnosticato un tumore alla gola che segnò il suo tracollo. Il 5 marzo 1976 consegnò l'anima a Dio Padre.
Padre Defendente da Borno
Fermo Rivadossi
È nato come Gesù in una stalla, come dice lui stesso, il 2 marzo 1938 a Borno. Accolto tra i seminaristi cappuccini di Albino, proseguì il corso normale degli studi dopo aver emesso la sua solenne professione il 15 agosto 1959. Ordinato sacerdote l'8 giugno 1963, nello stesso anno partì per la missione del Brasile dove gli venne affidata la "desobriga", apostolato sacerdotale itinerante di grande fatica fisica, per ben dieci anni. Colpito dalla malaria, venne rimesso in forze dal dottor Alberto Beretta, cappuccino, che è ora in cammino verso la beatificazione.
Nel 1973 venne destinato alla direzione delle prime comunità cristiane, per curare la formazione dei laici verso un rinnovamento spirituale. Parroco ad Anil per sei anni, trasferito con lo stesso titolo al lebbrosario che fu del venerabile padre Daniele da Samarate, con l'aiuto degli amici delle missione di Borno, cerca di soccorrere spiritualmente e materialmente i malati colpiti dalla lebbra. Ha lasciato un ricordo indelebile nella parrocchia di Nova Timboteua, dove ha sviluppato molto il movimento per la formazione dei laici, ha creato gruppi di preghiera e circoli biblici. Attualmente risiede nella città di Santana come coadiutore di quella parrocchia dedicata a san Pio da Pietrelcina e, nonostante la malferma salute, svolge ancora il suo apostolato sacerdotale. (n.d.r. Padre Defendente dal 2013 è rientrato in Italia ed è ospitato presso il convento di Bergamo)
Padre Narciso da Borno
Francesco Baisini
Nato a Borno 1'11 novembre 1937, entrò nel seminario di Albino nel 1952. Seguì l'itinerario consueto degli studi e dopo la professione solenne avvenuta il 4 ottobre 1960 venne ordinato sacerdote a Milano il 3 aprile 1965. Lo stesso anno partì per la missione del Brasile. Dopo l'acclimatazione e lo studio della lingua venne designato alla "desobriga", ovvero al faticoso apostolato itinerante. Colpito dalla malaria anche lui venne salvato dal dottor Alberto Beretta, cappuccino. Dal 1972 al 1986 è stato designato parroco responsabile, e in questo periodo padre Narciso imparò a fare di tutto: falegname, muratore, ingegnere, meccanico, senza mai trascurare però il suo apostolato sacerdotale. Ha sempre avuto una attenzione particolare per la formazione dei movimenti pastorali e vocazionali che hanno dato grandi frutti: quattro sacerdoti cappuccini e quattro sacerdoti diocesani. Venne poi trasferito nella diocesi di Imperatriz dove costruì un policlinico per i poveri, un salone e un centro pastorale e dette grande impulso alle opere di carattere spirituale. Dal 1986 vive ad Acailandia dove ha provveduto alla costruzione della nuova parrocchia, un convento per dodici frati e un centro pastorale, sociale e promozionale, un ricovero per anziani intitolato al futuro beato Frei Daniel de Samarate, dove lui stesso vive per problemi di salute. Svolge in questo luogo il suo apostolato con la parola e con l'esempio, trasformandolo e facendolo diventare un'oasi di pace e di serenità per le persone anziane, spesso dimenticate da tutti. Ha pure costruito l'infermeria con la presenza di un infermiere fisso. Per questa sua opera gli è stato anche conferito il titolo di cittadino-commendatore. Qui padre Narciso si diletta a scrivere libretti di formazione spirituale e pastorale e, finalmente, può curare i suoi non pochi problemi di salute.
Fratel Gian Maria Ballerini
Lozio 31 agosto 1912; prima professione il 7 ottobre 1933; morto a Rebbio 2 agosto 1980. Nato a Lozio, entrò nell'istituto di Thiene dove divenne falegname. Dopo alcuni anni in varie case italiane della congregazione, nel 1937 venne inviato nel Bahr el Giebel (Sud Sudan) a insegnare nella scuola artigiani di Torit dove l'anno successivo giunse anche il cugino Bortolo (v. successivo). Allo scoppio della seconda guerra mondiale la missione dovette essere abbandonata e i fratelli sfollarono a Palotaka riprendendo alla meglio l'insegnamento dei loro mestieri a giovani locali. Nel 1942 le autorità consentirono il rientro dei comboniani a Torit. La missione era in condizioni pietose e tutti dovettero rimboccarsi le maniche per ricostruirla. L'ambiente ostile, gli insetti causarono molte malattie e morti, e fratel Ballerini fu salvato per miracolo, anche se per tutta la vita portò le conseguenze di una grave infezione epatica. Nel 1949, proprio per le precarie condizioni fisiche, fu mandato al Cairo dove si occupò della manutenzione delle case, delle relazioni con gli inquilini, dei lavori nelle varie residenze e un po' di tutto. Ritornato in Italia andò a Firenze, poi ad Arco (Tn), a Verona e infine a Rebbio (Co) dal 1959 dove, tra le tante cose di cui si occupava, trovò il tempo per inserirsi in parrocchia svolgendo vari compiti: catechismo e distribuzione dell'eucarestia anche ai malati. Spirò nel locale ospedale nel 1980.
Fratel Bortolo Ballerini
Lozio 1911; prima professione il 7 ottobre 1933; morto Okaru (Sudan) 15 agosto 1941. Con l'inseparabile cugino Gian Maria (lui riflessivo e pacato, quello esuberante e focoso), iniziò il noviziato a Venegono (Va) nel 1931 e assieme fecero la prima professione il 7 ottobre del 1933. Qui però le loro strade si separarono e Bortolo divenne sagrestano e “fratello di casa” a Riccione. Nel 1938 venne destinato al Sud Sudan ad Okaru dove accanto al seminario funzionava dal 1929 la “Intermediate School”. Proprio ad Okanu fratel Bortolo Ballerini morì di febbre nera il 15 agosto 1941 all'età di 30 anni.
Cüntòmela con i MISSIONARI
Proseguiamo la pubblicazione delle pagine tratte dal volume dedicato ai missionari partiti dai nostri paesi.
Suor Romana Giacomina Baisini
È nata a Borno il 16 gennaio 1933. Il 3 novembre 1952, all’età di 19 anni, entrò nell’Istituto (delle suore Dorotee di Cemmo) e nel 1955 emise i suoi primi voti che professerà definitivamente il 23 settembre 1961. Con disinvoltura e solerzia passò in alcune comunità dell’Istituto presenti in Italia: prima a Rovato, poi a Brescia in Via Gallo e a Cevo, Temù e Ceriale (Sv). Nel 1967 partì per l'Argentina. Particolarmente significativa è stata la sua esperienza tra i poveri dei barrios di Santiago del Estero ai quali si dedicò per ben 25 anni con passione e zelo apostolico.
Nel settembre 1992, già ammalata anche se ancora desiderosa di donarsi ai fratelli, dovette rientrare in Italia; soffrì non poco a doversi ritirare dalla missione, che tanto amava, e che l’aveva sempre vista impegnata e carica di entusiasmo. Visse quest'ultimo periodo nell'infermeria di Brescia con intervalli, più o meno lunghi, di ricoveri in ospedale dove ha concluso il suo viaggio terreno all’età di 61 anni il 15 maggio 1994, giorno dell’Ascensione del Signore. I funerali sono stati celebrati nella parrocchiale di Borno il 17 maggio ed e stata sepolta nel cimitero di Cemmo dove riposano tante sue consorelle.
Suor Eulalia Pierina Franzoni
Nata a Ossimo Inferiore il 5 luglio 1934. Novizia a Cemmo l’8 settembre 1949, dopo la prima professione del 29 settembre 1952, ha emesso i voti perpetui il 30 settembre 1958. In servizio presso diverse sedi come cuoca, nel 1973 ha iniziato la sua attività missionaria in Argentina a Santiago del Estero (1973-1983) e poi, come superiora, a Guemes (1983-1990), a La banda (1990-1994), a Las Termas (1994-1998), a Buenos Aires per un breve periodo (1998-1999), dopo di che è stata trasferita a Melo in Uruguay. Oggi risiede nella comunità di Buenos Aires.
Suor Rosina Giacomina Maggiori
È nata il 23 settembre 1923 a Ossimo Inferiore. Il 3 marzo 1943 è entrata nella congregazione iniziando nel medesimo anno il noviziato. Emise i voti temporanei il 10 ottobre 1946 e i voti perpetui, sempre nella casa madre di Cemmo, il 18 settembre 1952. Ha svolto a lungo in diverse sedi vari servizi, tra qui quello di maestra di lavoro. Dall’1 ottobre 1968 al 30 novembre 1972 ha svolto la sua attività a Nottingam. Oggi risiede a Capodiponte.
card. Giovanni Battista Re
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per alcuni anni in missione a Gitega - Burundi ed attualmente in Brasile.
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Patrizia Zerla
missionaria in Burkina Faso
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Padre Narciso Baisini
Borno 11-11-1937 + Brasile 27-6-2020
Missionario in Brasile
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Padre Pierino Re
Borno 29-9-1944 + Togo 7-11-1994
Missionario in Africa, Canada e di nuovo in Togo
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Padre Giacomo Rigali
Borno 24-12-1941 + Borno 3-3-1922
Missionario in Bangladesh e nelle Filippine
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Padre Defendente Rivadossi
Borno 2-3-1938 + Bergamo 25-9-2017
Missionario in Brasile
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Padre G. Battista Sanzogni
Borno 20-93-1932 + 29-3-1999
Missionario in Brasile
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Altri missionari
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Missionario in Brasile
Cüntòmela con i MISSIONARI
Proseguiamo la pubblicazione delle pagine tratte dal volume dedicato ai missionari partiti dai nostri paesi.
Padre GIOVANNI BATTISTA SANZOGNI missionario comboniano
Borno 20 settembre 1932; voti perpetui il 9 settembre 1956; ordinazione sacerdotale il 15 giugno 1957; morto il 29 marzo 1999.
Padre Giovanni Battista Sanzogni nacque a Borno il 20 settembre 1932, secondo di cinque fratelli, i genitori - poveri operai di fede semplice, ma viva - non condivisero la sua scelta di farsi missionario, e lui ne soffrì intensamente.
Nel 1944 entrò nel seminario Santangelo di Brescia, dove frequentò il ginnasio e il liceo; nel frattempo maturò la scelta per la vita missionaria. In realtà, come scrisse un suo compagno di seminario, se ci fossero stati già allora i sacerdoti fidei donum ne avrebbe certamente fatto parte, ma in mancanza di alternative entrò tra i comboniani.
Fu ordinato sacerdote nel duomo di Milano nel 1957 dall’allora arcivescovo monsignor Montini. Subito andò a Roma alla Pontificia Università Lateranense dove si laureò in diritto canonico magna cum laude, anche se avrebbe preferito teologia e filosofia. Era logico che una così “bella testa” finisse in un’aula scolastica, così tre anni insegnò a Venegono Superiore (Va) agli studenti comboniani di teologia.
Ma in cuor suo fremeva e nel 1960 finalmente i superiori accondiscesero ai suoi desideri e partì per l’Uganda dove rimase fino al 1967 come insegnante a Gulu nel locale seminario. La sua vita di missione e comunitaria fu difficile e agitata, contrassegnata da passaggi in Mozambico dal 1969 al 1975, in Malawi (1976-1983), dove si manifestarono incomprensioni e contrasti con i locali padri provinciali, per mancanza di fiducia verso sue iniziative che potevano porsi un po’ fuori dagli schemi ufficiali della congregazione.
Padre Sanzogni - secondo un confratello - precorreva i tempi, soffriva per le ingiustizie nei suoi confronti e verso il popolo, e come parroco di Gambula si adoperò per sanarle ma con metodi inconsueti, criticando spesso - in Mozambico in particolare - la politica coloniale delle autorità e il conservatorismo del clero portoghese.
Furono anni di profonda sofferenza interiore accentuata, per esempio, dal rifiuto dei superiori di inviarlo alla Segreteria di Stato vaticana, dove l'aveva richiesto il compaesano e compagno di seminario monsignor Giovanni Battista Re, per la sua preparazione in diritto canonico, conscio delle difficoltà che stava passando. Tante piccole cose accentuarono il progressivo distacco dalla congregazione, al punto che nel 1985 scrisse al padre generale della sua intenzione di andare in missione in Brasile nella diocesi di Araçui retta da un vescovo bresciano già suo compagno di seminario.
I suoi superiori gli concessero un periodo di riflessione e lui partì per il Sudamerica. Qualche anno dopo le condizioni di salute lo costrinsero a rientrare in Italia. L’efficacia delle cure fu tale che di li a poco ritornò in Brasile con la comunità di don Baresi. Nel 1995 venne eletto giudice del tribunale diocesano di Vitoria.
L’insorgere di altri problemi legati a disturbi che aveva sofferto in Africa lo costrinsero nel 1999 a rientrare definitivamente a Milano. Cullò sempre la speranza di tornare oltreoceano, ma i superiori lo invitarono all'obbedienza e lo assegnarono alla comunità degli addetti alla chiesa. Fu l’ennesima delusione.
Questo succedeva sabato 27 marzo 1999. Trascorse il sabato pomeriggio e la domenica completamente assente dalla vita comunitaria e non scese per la cena. Alle 21 un confratello bussò alla sua porta, egli rispose che andava tutto bene. Lunedì mattina 29 marzo non vedendolo agli atti comunitari e non rispondendo alle sollecitazioni dei confratelli, venne aperta la porta della sua camera e venne trovato morto.
card. Giovanni Battista Re
Vaticano - Roma
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Don Lino Zani
Missionario fidei donum in Brasile.
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Suor Ester Zerla
per alcuni anni in missione a Gitega - Burundi ed attualmente in Brasile.
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Patrizia Zerla
missionaria in Burkina Faso
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Padre Narciso Baisini
Borno 11-11-1937 + Brasile 27-6-2020
Missionario in Brasile
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Padre Pierino Re
Borno 29-9-1944 + Togo 7-11-1994
Missionario in Africa, Canada e di nuovo in Togo
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Padre Giacomo Rigali
Borno 24-12-1941 + Borno 3-3-1922
Missionario in Bangladesh e nelle Filippine
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Padre Defendente Rivadossi
Borno 2-3-1938 + Bergamo 25-9-2017
Missionario in Brasile
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Padre G. Battista Sanzogni
Borno 20-93-1932 + 29-3-1999
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Capanema, 12-10-1999
Sono entrato nel seminario di Albino (Bg) esattamente 50 anni fa, il 12 di ottobre. Avevo 11 anni e avevo fatto la IV elementare con la maestra Richini. Ricordi molto lontani. Ho sempre avuto la vocazione missionaria e pochi mesi dopo l'Ordinazione sacerdotale, avvenuta il giorno 8 di giugno del 1963, sono partito per la missione del Brasile, esattamente il giorno 29 ottobre del 1963 (Don Ernesto il 20 ottobre del 1963 mi ha consegnato il Crocefisso nella Giornata Missionaria).
Partendo da Borno con la corriera, a salutarmi c'era mio padre che mi ha detto queste testuali parole: "Figlio mio, parti pure, ma ricordati che non ci vedremo mai più in questa vita". Col cuore angosciato sono partito e ho cominciato la mia avventura missionaria.
Mi ricordo che avevo con me una lettera di mia mamma che dovevo aprire quando mi sarei trovato in alto mare. L'ho aperta il 2-11-63, quando la nave ha lasciato Lisbona. Dopo tanti anni ricordo ancora l'emozione e la trepidazione con cui ho letto quelle righe: erano come un testamento in cui c'era il cuore di una mamma. Arrivato in Brasile con la nave il giorno 9 di novembre dello stesso anno, ho passato i primi mesi nella casa madre della missione, Sao Luis, per imparare la lingua.
Il primo episodio degno di nota è stato in occasione del primo anniversario del mio arrivo in Brasile. Ero in giro per la savana della parrocchia a dorso di mulo e ho avuto il vero battesimo del missionario: la Malaria! Per una settimana ho cercato di continuare il mio viaggio; mi ricordo che l'ultima Messa l'ho celebrata seduto, sfinito, e così pure matrimoni e battesimi. Avevo febbre altissima, deliravo, invocavo la mia mamma dicendo che non volevo morire senza vederla ancora una volta.
Una donna mi si avvicina per offrirmi il suo petto, ed io, stupido, balzo in piedi come una furia dicendole di aver rispetto del mio stato di salute e di non approfittarne per tentarmi. Più tardi ho capito che non c'era malizia: lo faceva come ultimo rimedio per salvare una vita! Questo episodio l'ho raccontato ad un pranzo in canonica a Borno nel 1970, in cui erano presenti don Giuseppe Verzelletti e alcuni sacerdoti bornesi che hanno riso tantissimo.
Il giorno 8 aprile del 1964 sono stato destinato a Carolina, come desobrigante, cioè incaricato dell'interno della parrocchia. E per 13 anni a dorso di mulo ho percorso un territorio grande come mezza lombardia, anche se molto spopolato.
Poi sono stato promosso a parroco di Santa Teresa in Imperatriz, per due anni. Poi sono stato trasferito ad Amarante il 1° gennaio del 1979. Per sette anni ho lavorato in quella parrocchia come parroco, curando le famose Comunità di base.
Nel gennaio del 1986 sono stato trasferito alla capitale, Sao Luis, come parroco di Anil, una popolosa parrocchia di periferia. Sono stati gli anni più belli della mia vita. Il 30 dicembre di quell'anno moriva la mia mamma e io ho assunto quella parrocchia come se fosse una mamma.
Poco prima del mio 25° di sacerdozio ho vissuto un'esperienza bellissima: la conversione di un massone sul letto di morte. Era ammalato di cancro e io lo visitavo spesso nella sua casa, senza mai parlare né di malattia, né di religione. Nacque una profonda amicizia. Quando lo trasportarono all'ospedale in fin di vita era una maschera: un ictus alla bocca lo rendeva orribile. La sposa e le figlie piangevano, ma lui non voleva saperne di confessarsi. Mi avvicinai e gli dissi che il momento era serio e che bisognava riconciliarsi con Dio. Mi rispose balbettando, con un ghigno orribile: "Non posso". Ho sentito che era la voce del demonio. Presi il crocifisso e mi avvicinai di nuovo; lui lo guardò e poi lo prese e se lo strinse al petto e lo baciò. Il ghigno orribile scomparse e la sua bocca si aprì al sorriso; chiamò la moglie e le figlie, diede una stretta di mano riconciliandosi con loro e poi morì serenamente e in pace. La sua anima come quella del buon ladrone, è con Gesù in paradiso. Non dimenticherò mai la gioia che ho sentito perch&egrav;, indegnamente, sono stato uno strumento nelle mani di Dio per salvare un'anima.
Stralci di una sua lettera di quel periodo (ndr):
... Ho avuto e ancora ho un lavoro colossale per la costruzione del Centro catechetico (oratorio) e della chiesa del Cappello di alpino. Subito dopo Natale abbiamo iniziato i lavori e a Natale di quest'anno faremo l'inaugurazione... Certo se non c'era la spinta forte dell'aiuto di Borno, la cosa non si faceva. Tra le altre cose l'anno scorso, quando sono partito da Borno, ho portato con me un sacchetto di terra del nostro cimitero. In questi giorni faremo il pavimento della chiesa. Dove ci va l'altare voglio interrare il sacchetto di terra dei nostri morti, quasi per fare un legame simbolico tra la nostra gente di Borno e la chiesa di qui. (Sao Louis, 15-9-1989)
Sul più bello del mio lavoro mi arriva addosso una mazzata: trasferito di nuovo, e adesso con una missione difficile: parroco - cappellano del lebbrosario della Colonia do Prata. Era il mese di gennaio del 1992. In quell'ambiente ho lavorato tanto come non mai nella mia vita, e ho avuto tante amarezze, sofferenze. Questo periodo può essere chiamato come il fondo dell'abisso, il salto nello scuro.
Nonostante questo da alcuni brani delle sue lettere possiamo vedere che Padre Defendente anche in questo periodo ha fatto molte cose con entusiasmo. (ndr)
... I lebbrosi hanno un'altra mentalità, sono molto diffidenti e ci vuole molta pazienza e tatto. Io sono contrario al paternalismo, nel senso di viziare le persone e creare dipendenza; sono più propenso a gesti concreti comunitari che siano a beneficio di tutti. Ci hanno chiesto un aiuto per sistemare la cucina e il refettorio dei lebbrosi,che sono del governo. Una spesa notevole anche questa, ma con l'aiuto della provvidenza stiamo lavorando da circa un mese. (Colonia do Prata, 7-3-1993)
... Dopo aver sistemato la grande e bella chiesa dei lebbrosi, abbiamo messo a posto cucine e refettorio, e nel mese di luglio anche uno dei ricoveri, quello più malandato, delle lebbrose anziane.Qui si che sono successi dei guai. Abbiamo trasportato le vecchie lebbrose anziane con le loro "masserizie" su un trattore; brontolavano, ridevano, gridavano, ma alla fine tutto si è risolto per il meglio. Dopo un mese di lavoro, quello che sembrava un porcile è diventato un luogo accogliente e dignitoso. (Colonia do Prata, 26-10-1993)
...Abbiamo fatto la processione con le candele e i lebbrosi hanno mostrato molto orgoglio e dignità, anche se tenevano in mano le candele accese con qualche difficoltà. Ho spiegato il gesto dell'offerta della Madonna che si traduce nel nostro gesto di offerta nella Messa, e poi ho chiesto ai lebbrosi presenti cosa potevano offrire. Qualcuno, azzeccando in pieno la domanda, ha risposto che offriva il suo dolore, la sua malattia al Signore. (Colonia do Prata, 2-2-1994)
... È venuto l'Arcivescovo di Bel&eacut;m, che dista 120 Km. Le Cresime sono state celebrate all'aperto, davanti alla chiesa di San Giorgio. Per fortuna che non è piovuto, i giovani mi avrebbero mangiato vivo. Voglio molto bene a giovani e adolescenti, ma sono teste dure, e io più di loro. (Colonia do Prata, Estate 1994)
... Abbiamo realizzato un pozzo e anche la piattaforma per i due serbatoi ognuno dei quali ha una capacità di 10.000 litri... ma il bello è che il pozzo non funziona ancora in quanto manca il grosso trasformatore per far funzionare la pompa... Sto preparando anche un altro orto per fare lavorare i ragazzi del villaggio dove abitiamo. Si vede che la vocazione contadina, ereditata dai nostri padri, si fa sentire! Comunque non tralascio il lavoro pastorale e la catechesi.(Colonia do Prata, 20-10-1994)
...La pompa del pozzo artesiano di S. Isidoro, dopo nove mesi di lavoro, ha cominciato a fare tribolare. Ho riunito la gente dei villaggi di periferia e insieme abbiamo pensato di creare una specie di cooperativa, in cui tutti collaborano con qualcosina, per la manutenzione della pompa e del pozzo: l'acqua è troppo preziosa e tutti sono stati d'accordo. ...Nella mia vita di missionario non mi è mai capitato di dover fare tante cose e pensare a tanti problemi. Prima erano per lo più problemi spirituali, adesso mi tocca pensare anche al sociale come la fabbrica di mattoni: per il momento ci siamo fermati per metterci in regola con le leggi sociali. Dal 25 novembre al 10 dicembre anche qui faremo le Missioni Popolari: è da mesi che stiamo lavorando in tutta la parrocchia. Voglia il Signore che questo avvenimento serva per scuotere la nostra gente, molto pigra e tiepida nelle cose del Signore. (Colonia do Prata, 20-11-95)
... Anche per il problema dell'acqua ci sono remore burocratiche: il pozzo non è ancora stato attivato e si continua a bere acqua sporca, piena di ruggine. Mi sono fatto sentire, sono venuti a fare nuovi esami... ma la gente continua a soffrire le conseguenze. Siamo in un mondo in cui i poveri non hanno valore, quello che vale è il denaro, la potenza dei mezzi; i poveri devono arrangiarsi: e questo fa male, davvero. Una cosa almeno stiamo facendola: la scuola... Qui le vacanze sono tra dicembre e marzo e il 23 dicembre abbiamo iniziato i lavori di ristrutturazione. È uno stabile molto antico con strutture di legno marcio; abbiamo dovuto rifare strutture con il cemento armato. (Colonia do Prata, 17-1-97)
Dopo sei anni sono stato trasferito a Tuntum come Curato di campagna. Era il mese di Gennaio del 1998.
Dalle sue lettere:
... Da quando sono rientrato dall'Italia, dopo la fugace comparsa a Borno, mi sono messo a costruire il centro catechetico, che serve anche come ambiente per cucito e ricamo per le povere donne del quartiere, e come scuola serale per gli adulti. Un ambiente per alfabetizzare gli adulti che non sanno nè leggere nè scrivere. E al giorno d'oggi è importante perché la disoccupazione fa strage specialmente delle persone che non sono qualificate. (Tuntum, 25-2-1999)
... Durante la Quaresima e dopo mi sono impegnato nella campagna delle amache per i bambini poveri e ho incontrato un caso molto pietoso che vedete nella fotografia. Una bambina di due anni e mezzo conciata a quella maniera! Aveva otto mesi quando ha avuto scottature di terzo grado, amaca bruciata. I genitori poverissimi sono senza mezzi per curare la piccola Railda, il nome della bambina. Ho promesso di aiutare almeno per raddrizzare il braccino: piange il cuore davanti a tanto dolore. E ultimamente i genitori hanno bisticciato e si sono separati. Ho fatto di tutto per rappacificarli e ci sono riuscito. Sono andato a prendere i quattro stracci di lei e hanno fatto la pace per amore dei piccoli che sono tre, e ce n"è un quarto in viaggio. Tutta la gente del rione si è commossa per quello che ho fatto. Vedo che da più risultato fare cose del genere che fare delle belle prediche. La gente mi vuole un bene immenso, mi chiamano nonno.Non mi era mai capitato in tutta la mia vita missionaria. (Tuntum,.30-4-1999)
Il resto è storia recente.
Ecco l'itinerario della mia vita missionaria. Lo so che a voi non interessa solamente la cronaca dei viaggi, degli spostamenti, ma soprattutto lo stato d'animo. Affrontare nuove difficoltà, vedersela con un ambiente nuovo, persone sconosciute, ricominciare sempre da capo fa parte della vita missionaria, della vita in fraternità. Come ho detto, siamo figli dell'obbedienza. Ad Anil, tra il 1986 e il 1992, ho passato gli anni più belli, quando sentivo la gioia di essere pastore di anime. Il momento più angoscioso è stato quando sono stato chiamato ad obbedire, lasciare tutto e andare al lebbrosario. È vero che al lebbrosario sono maturato, ho fatto tante cose, ma è anche vero che sono stati anni neri, bui, quando la parola grazie, gratitudine, era sconosciuta, e questo nonostante il sacrificio di una vita data per quei poveri ammalati. Il fatto stesso della malattia contribuisce a questo stato di cose. Momenti bellissimi ho passato a Tuntum, quando ero chiamato nonno e i bambini mi volevano un bene immenso. La gioia di aver aiutato tanto i poveri e gli ammalati. Questo fatto ha scosso e convertito diverse persone alla nostra fede.
Sette volte sono venuto in Italia, nel 1970, 75, 80, 84, 88 92 e 96, più due volte di sfuggita, quando è morta la mia mamma nel 1986, e l'anno scorso, quando sono venuto a fare la festa dei coscritti della classe di ferro del 1938. Che Pazzia! In Italia mi sono sempre sentito bene, mi sono riposato e sono sempre riuscito a dare testimonianza della missione. E soprattutto devo ringraziare la generosità dei bornesi che mi ha permesso di realizzare tante cose per il Regno di Dio.
Penso di aver scritto abbastanza. Speriamo che tutto questo serva a far nascere qualche vocazione sacerdotale e missionaria. Tanti saluti a tutti.
Quaresima Missionaria 2006
card. Giovanni Battista Re
Vaticano - Roma
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Don Lino Zani
Missionario fidei donum in Brasile.
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Suor Ester Zerla
per alcuni anni in missione a Gitega - Burundi ed attualmente in Brasile.
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Patrizia Zerla
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Padre Narciso Baisini
Borno 11-11-1937 + Brasile 27-6-2020
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Padre Pierino Re
Borno 29-9-1944 + Togo 7-11-1994
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Padre Giacomo Rigali
Borno 24-12-1941 + Borno 3-3-1922
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Padre Defendente Rivadossi
Borno 2-3-1938 + Bergamo 25-9-2017
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Padre G. Battista Sanzogni
Borno 20-93-1932 + 29-3-1999
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Altri missionari
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Natale 2021
DALLE COMUNITÀ - Borno
Bellissima festa a Borno il 24 ottobre 2021 per suor Ester Zerla: il giubileo dei suoi 25 anni di professione religiosa.
Alcune settimane prima, a me e a suor Ida, è arrivata una telefonata: erano il parroco don Paolo e suor Ester in persona che ci invitavano per questa ricorrenza. Non c’era motivo per dire di no.
Ci accomunava lo stesso ideale, lo stesso cammino, la stessa convinzione ed entusiasmo per la bontà e bellezza del nostro percorso di vita. E insieme l’avremmo celebrato: lei in forma solenne, noi nel nostro spirito ma non meno solenne.
E proprio nella Giornata Missionaria Mondiale si faceva festa a suor Ester, una nostra missionaria; una festa che ha avuto come primo luogo la chiesa.
A noi riecheggiava che proprio in chiesa è avvenuta la nostra dichiarazione pubblica di voler accogliere e seguire per sempre la nostra vocazione. Ed era l’occasione per ritornarvi col pensiero, coi ricordi, con l’affetto. Per suor Ida sono più di 60 anni fa, per me quasi 50, per suor Ester 25. Che cammini!!!
All’inizio quel passo, come per ogni vocazione, è forse avvenuto un po’ incoscientemente, con più entusiasmo che consapevolezza lucida. Ma nel tempo, lungi dallo smarrirsi, dall’affievolirsi o perdere di significato, si è irrobustito grazie alla vita stessa che è maestra, ad ombre e luci che nel corso del cammino ci hanno temprate, purificate da attese o visioni non del tutto conformi all’ideale.
Eravamo qui, intorno a suor Ester, per celebrare anche noi, nell’intimo, i nostri straordinari giubilei.
Sì, straordinari, fuori dall’ordinario. Chi tiene in piedi una vita di sessanta, cinquanta, venticinque anni di dono, senza accumulare per sé, senza progetti decisi da sé, ma consapevoli di avere svolto quanto ci è stato affidato con semplicità, andando dove c’era bisogno, inserendoci in posti nuovi?
Non è naturale. È soprannaturale. Proprio come diceva suor Ester, verso il termine della celebrazione, è l’aver scoperto un Grande Amore e, sempre e solo per grazia, l’averlo seguito. Questo è stato per noi, come per ogni vita, un trampolino di lancio durato fin qui, con ombre e luci. Quale vita non ne ha? Ma… ”Tutto posso in Colui che mi dà forza!” (Fil 4,13). Ed è stata proprio così!
Don Milani diceva: “Solo grandi amori generano grandi opere”. Forse suor Ester, in missione, qualche opera l’ha realizzata. Suor Ida ed io non ne abbiamo generate di grandi, ma rimanere in piedi, felicemente, per tutta la vita, è davvero una grande opera che solo la grazia poteva compiere in noi!
Giubileo vuol dire giubilo, gioia, gratitudine, letizia, riconoscenza; riconoscenza per quest’opera grande: la nostra vocazione che ci ha colmate di gioia, sempre.
Se ha imperversato anche qualche temporale, non ci ha turbato in profondità perché, ripetiamo ancora “tutto posso in Colui che mi dà forza”. Questo è il segreto. E si riparte.
Ci è stato dato un Dono e pensiamo di averlo conservato e fatto fruttare con l’aiuto di tanti… delle nostre Congregazioni, che ci hanno aiutato a vivere la vocazione nel tempo, e di quell’intreccio di persone, che sono la Chiesa, che sostengono, illuminano, fortificano, aiutano a traghettare anche in tempi di buio.
La festa, dopo la s. Messa, è continuata in una piacevole e fraterna convivialità con i familiari di suor Ester, alcune sue consorelle, i nostri sacerdoti e un bel gruppo di amici.
Dobbiamo solo ringraziare don Paolo, suor Ester e chi ha preparato così bene ogni particolare per farci vivere una splendida domenica, ricca di grazia e di amicizie.
suor Ida e suor Silvana
- Sono nata a Borno il 27-1-1967.
- A 24 anni, il 27-1-1991, sono entrata nella Congregazione delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazaret, le quali sono chiamate nella Chiesa a evangelizzare il mondo del lavoro, vivendo una spiritualità fatta di preghiera, lavoro, silenzio, semplicità e condivisione.
- Il 15 ottobre 1995 ho emesso i miei primi voti di povertà, castità e obbedienza
- L'8 dicembre 2000 ho pronunciato i voti perpetui: suora per sempre.
- Il 6 maggio 2003 sono partita per il Burundi.
- Il Burundi è un bellissimo paese nel cuore dell'Africa, chiamato paese delle mille colline perché è molto verdeggiante, con clima temperato (20°-25°) tutto l'anno. Ha un'estensione pari a quella della Lombardia.
- Da anni il Burundi è devastato purtroppo da guerre fratricide che l'hanno reso molto povero. Ora con le elezioni democratiche speriamo in un futuro di pace duratura.
- Noi Suore Operaie siamo presenti qui dal 1966 per condividere la fede e per aiutare la gente a ritrovare la speranza e la forza di costruire un futuro migliore, attraverso servizi di formazione, di assistenza e di promozione umana.
- Io mi trovo a Gitega, una piccola cittadina a nord-est del paese, in una comunità numerosa di tante giovani e giovanissime ragazze in cammino verso la consacrazione.
- Ci occupiamo dell'alfabetizzazione e della catechesi di ragazzi e adulti, del centro dei bambini malnutriti e della scuola di taglio e cucito, ricamo, confezione di cestini, maglieria, falegnameria, francese e matematica.
- Io lavoro soprattutto nel centro formativo e in quello nutrizionale.
Quaresima Missionaria 2006
Preghiera per il Burundi
Eccomi, Signore,
dinanzi a Te!
Ti prego per il Burundi
affinché conosca Te e il Tuo Vangelo.
Accresci in esso
discepoli secondo il Tuo cuore:
uomini e donne di fede e di umiltà,
di ascolto e di dialogo,
i quali vivano per Te, con Te e in Te.
Accorda ai missionari
la pazienza nelle prove,
la gioia nelle contrarietà,
l'amore per i povere e per i sofferenti,
la ricerca della giustizia e della pace.
Fa che vivano in semplicità di vita
e in comunione fraterna.
Dona loro di morire nel tuo servizio
e di risorgere ogni giorno con Te.
Amen
card. Giovanni Battista Re
Vaticano - Roma
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Don Lino Zani
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Pasqua 2007