- Sono nato nel 1941 durante la seconda guerra mondiale.
- A dodici anni sono entrato nel seminario di Brescia e vi sono rimasto fino alla fine del primo anno di liceo.
- Deciso di farmi missionario nei Saveriani, dopo un anno di noviziato vicino a Ravenna ho finito gli studi di liceo a Desio. Poi sono andato a Roma per lo studio della teologia.
- il 15 ottobre 1967 diventai sacerdote missionario.
- Dopo aver vissuto alcuni anni come formatore degli studenti saveriani e un anno a Londra per apprendere l'inglese, nel 1975 partii per il Bangladesh.
- Dopo ancora un intero anno di studio della lingua Bangalese, lavorai con gioia per quattro anni nella parrocchia di Baniarchar dove il coinvolgimento diretto con la gente mi piaceva molto.
- Per cinque anni mi assegnarono la direzione del Centro Catechistico Nazionale e della rivista in bengalese che vi veniva pubblicata. Feci del mio meglio, impegnandomi a studiare e a qualificarmi sempre più, per poter aiutare catechisti, seminaristi, maestri e suore a svolgere la loro missione più efficacemente possibile.
- Nel 1984 il capitolo regionale dei Saveriani mi nominò superiore regionale della missione in Bangladesh. Cominciai a fare il pellegrino da una missione all’altra dove lavoravano i Saveriani per vedere, incoraggiare, dare un parere su come affrontare difficoltà e problemi. Mi sono sentito utile a loro e nello stesso tempo ho avuto l'opportunità di crescere io stesso, diventando più calmo e comprensivo.
- Nel 1989 un altro capitolo Generale dei Saveriani a Roma rivoluzionò di nuovo la mia vita. Fui eletto Consigliere Generale, mi trasferii a Roma e cominciai a fare il pellegrino del mondo, visitando le 20 missioni dei Saveriani nel mondo.
- Per sei anni fui vagabondo in Africa, America Latina, Stati Uniti, Europa e Asia. Sono stati anni difficili ma ricchi di esperienza. Quello che più mi colpì fu la vastità del lavoro che il Signore porta avanti ovunque, attraverso tante persone limitate e fragili che, sostenute e messe insieme da Lui, riescono a tener viva la speranza e la solidarietà nel mondo.
- All’inizio del 1996 potei ritornare alla mia missione in Bangladesh. Vi ritornai più invecchiato, vent’anni dopo il mio primo arrivo, ma mi sentivo ancora in forze per ricominciare di nuovo. Mi rimisi al lavoro con gioia, pensando che ormai le cose sarebbero continuate lì fino alla fine dei miei giorni.
- Nel Novembre 1998, invece, arrivò la Direzione Generale dei Saveriani in visita al Bangladesh; cercavano un superiore per la comunità di Teologia. Girai alla larga il più possibile dai superiori, ma quando vennero a trovarmi al Centro Catechistico mi dissero chiaro e tondo che dovevo prepararmi a partire per Manila, capitale delle Filippine.
- Dopo un paio di mesi di vacanze a Borno, nel marzo 1999 partii per la nuova missione.
- Passai sei bei e lunghi anni con gli studenti di teologia a Manila. Mi chiamavano “nonno” perché davvero potevo essere loro nonno. Non sono mancati problemi e difficoltà in quanto gli studenti venivano da diverse parti del mondo, ma ci siamo capiti e ci siamo veramente voluti bene. Per aiutarli a entrare in contatto con la gente ho dovuto io per primo cercare di imparare la lingua Filippina.
- Ora ho terminato il mio lavoro come superiore, ma nel frattempo mi sono affezionato al mondo delle Filippine, per cui ho chiesto ai miei superiori di poter fare il parroco in una parrocchia che sta per nascere qui vicino alla comunità degli studenti.
- Questa parrocchia conta circa 35.000 abitanti: pochi ricchi, alcuni benestanti e una grande maggioranza di veramente poveri, una zona di baraccati. Come chiesa c’è un capannone di lamiera che contiene circa 150 persone e tre cappelline nella periferia.
Dio ha bisogno di noi...
Dio vuol fare miracoli di bene, ma per mezzo nostro. Per quanto piccoli e fragili noi siamo, per quanti errori e asinate noi gli combiniamo, Dio vuole avere bisogno di noi, vuole lavorare con noi, e noi, lavorando con Lui, diventiamo migliori e il mondo diventa migliore con noi.
Dovunque ho girato nel mondo ho visto che il bene e la speranza sono fioriti là dove qualcuno ha lavorato e sudato insieme a Dio e Dio con lui...
Dio si fa uomo e si fa vicino a chi è nel bisogno ogni giorno per mezzo nostro. Se noi, per paura di perderci, ci tiriamo indietro... Dio non può che aspettare pazientemente fino a che qualcun altro si farà avanti e gli dirà: “Eccomi, ci sto a rischiare con Te”.
Fortunato lui: non perderà nulla di importante e troverà tutto, diventando strumento del bene di Dio.
Quaresima Missionaria 2006
CON I MISSIONARI
5-3-2022: omelia per le esequie di Padre Giacomo Rigali
Padre GIACOMO RIGALI
nato a Borno il 24-12-1941
professione perpetua 12-9-1965
ordinazione presbiterale 15-10-1967
missionario in Bangladesh
consigliere generale saveriano
missionario nelle Filippine
morto a Borno il 3-3-2022
Con profonda commozione siamo riuniti per dare l’addio al nostro indimenticabile padre Giacomo, tutti condividendo con molti altri una profonda stima per lui.
Personalmente percepisco molta serenità; una tristezza umana, ma molta pace; anche un senso di ringraziamento; il cuore forse un po’ pesante, ma sereno, pieno.
Salutiamo p. Giacomo con la Eucarestia, il sacramento che più ci coinvolge nell’amore di Cristo; e ben sappiamo come l’amore non abbia mai ostacoli, davvero è più forte della morte. Amare una persona è dirle con sincerità di cuore che non morirà mai. Così diciamo spesso…
Questo ambiente eucaristico, ci aiuta a sentire che la morte per noi non è solo la fine, ma un compimento. La fede cristiana è una grande lotta non contro la morte, ma contro la paura della morte “che rende schiavi per tutta la vita” (Eb.2,15). La morte del cristiano si colloca nel solco della morte di Cristo: è un calice amaro… sì… ma che apre alla vita, alla risurrezione.
Allora: imparare a leggere la nostra vita, il nostro. presente, ciò che siamo dal punto di vista dii essa per essere così capaci di gestire il nostro cammino con serenità verso il compimento della vita. Per quello ci diciamo che bisogna imparare a morire; e per imparare a morire bisogna imparare a vivere (il senso della vita). Il mistero della morte - perché mistero rimane – si colloca nel significato che diamo alla vita. E la nostra fede non salta, ma attraversa la lacerazione della morte.
Il nostro padre Giacomo è davvero un bell’esempio di questo processo: Lui era un amico della realtà, non perché fosse d’accordo o perché gli piacesse tutto quello che vedeva o succedeva, ma perché, a partire dalla sua Fede, cercava sempre un significato, una mediazione, una speranza, una apertura, una possibilità. E lo ha fatto anche nel suo ultimo passo: pienamente consapevole della realtà, della malattia. Tutto verso il compimento del suo cammino missionario e di credente: consegnarsi finalmente e totalmente all’amore di Dio. Ci ha lasciato nella pace, riconciliato con Dio, con l’universo intero: “tanti doni ricevuti … tanti doni condivisi”. P. Giacomo diceva sempre God must be madly in love with us: Dio deve essere innamorato pazzo di noi, così meschini, così indegni eppure… così amati. E oggi rende lode: ecco il mio Dio; in lui ho sperato perché mi salvasse. Questi è il Signore in cui ho sperato.
Fateci caso: l’apostolo Paolo non separa mai la morte di Cristo dalla sua resurrezione e quindi non può separare l’influsso che la morte e la risurrezione hanno sul credente. “Fratelli, nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso… siamo del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è ritornato alla vita”.
Nel Vangelo Gesù dice “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro”. Che cos’è che ci rende stanchi e oppressi?
La stanchezza e oppressione di cui ci parla Gesù è qualcosa che viene da dentro, sono i lacci che paralizzano il cuore, le tante paure che producono sfiducia, scoraggiamenti, ansie inutili e dipendenze varie. In altre parole, è il peccato, cioè il nostro modo sbagliato di relazionarci con Dio, che non è quello che Gesù ci ha mostrato oggi nel vangelo: “ti rendo lode o Padre, perché hai rivelato queste cose ai piccoli…” Quando non siamo capaci di trattare Dio come Padre, non possiamo trattare gli altri come fratelli!
San Gregorio Magno diceva: “Ci sono quelli che desiderano essere umili, ma senza essere disprezzati; che desiderano essere felici con ciò che hanno, ma senza essere bisognosi; che vogliono essere casti, ma senza mortificare il corpo; essere pazienti, senza sofferenza. Essi vogliono acquisire virtù e nello stesso tempo evitare i sacrifici che quelle virtù richiedono”. E concludeva: “Sono come soldati che fuggono dal campo di battaglia, e cercano di vincere la guerra vivendo comodamente nella città” (Moralia, 7, 28,34).
P. Giacomo non è rimasto in città, non si è chiuso nell’ovile, non è fuggito dal campo di battaglia, ma è andato a cercarsela – per così dire – in Bangladesh, tra i più poveri dei poveri, nel trovare metodo e modo per far conoscere Gesù Cristo e il suo Vangelo a chi non lo conosceva; nelle Filippine, tra le comunità cristiane nelle baraccopoli, prima ancora nella Brianza quando, come giovane sacerdote animava missionariamente le parrocchie e i giovani di quelle comunità cristiane. Portando a Gesù tante tante persone, giovani, anziani, malati, famiglie nella disgrazia e incarnando l’invito di Gesù: “venite a me... e io vi darò ristoro”. Lui ha sempre camminato verso la verità mettendosi insieme a ogni essere umano. Non si stancava mai di lasciare la porta aperta, nonostante le difficoltà e i conflitti.
Alcuni tratti della sua personalità e del suo carattere: poliedrico, ricco e affascinante… un po’ anche ignoto. Io stesso, che sono stato accanto a lui per un bel po’ di anni non pretendo di averlo conosciuto “totalmente” (è la stessa cosa per tutti noi: a volte noi siamo un mistero a noi stessi). Un ricco volto umano e spirituale.
Davvero meriterebbe il nostro Giacomo un tempo più lungo per narrare la sua personalità, le sue caratteristiche... non in senso celebrativo, ma solo esistenziale.
Stile di vita sobrio nel mangiare, vestire, nel gestirsi: non era amico del superfluo. Arrivava a volte tardi, dopo il ministero, e la cena consisteva in due cucchiai di riso bollito, già freddo e rinsecchito, un pezzo di pesce, una banana e tutto insieme nello stesso piatto; il bel tutto accompagnato da un bicchiere d’acqua, e dall’immancabile tazza (caraffa) di caffè: così avrebbe dormito meglio!
Le immagini, le espressioni, i simboli che usava nelle sue omelie: efficacissimi. La scelta all’ingiù, la corriera, il volante, l’awareness (la consapevolezza), il tappabuchi (“Tutta la mia vita ho fatto il tappabuchi … che per un missionario, detto da un missionario, sia chiaro, non è un insulto!).
Una delle sue espressioni favorite era: la scelta all’ingiù! La logica dell’incarnazione, la scelta di Gesù Cristo, che deve alimentare e motivare ogni scelta cristiana; soprattutto quella vocazionale missionaria e dei religiosi. Lo diceva a tutti noi, ai giovani saveriani tentati dalla comodità, dalla scelta all’insu, dello status, della carriera, degli studi... invece che del servizio, dell’umiltà, dell’amore ai poveri.
Aveva una concezione sportiva della vita, della fede, della missione… e delle inevitabili difficoltà. E la condivideva con gli altri, aiutando molti ad uscire dalla sofferenza, a intravedere una luce, una speranza.
Leggeva decine e decine di libri, ma non scriveva una riga; leggeva, rifletteva, discuteva… Affrontare un dialogo con lui su questioni teologiche, pastorali o formative, o umane risultava sempre un’avventura avvincente; faceva bene al cuore e alla mente. Lui sempre in ricerca, domandando, con dubbi, provocando, cercando di capire, Era la incarnazione di una riflessione teologica e umana sempre in progress… inarrestabile, e dentro una visione del mondo attualissima, più avanti di quella di tanti giovani. Immagino che, come ci aveva promesso, p. Giacomo avrà già fatto molte domande al Padre eterno, come sempre lo chiamava lui, circa il perché di tanta confusione sulla terra, nell’universo. Almeno adesso, dovrebbe avere tutto chiaro, mentre la nostra “confusione” continua!
Giacomo in questi anni era il nostro lolo (nonno). Incarnava la bellezza e la drammaticità dell'essere adulto, del diventare anziani. Adulto è colui che vive per gli altri e non si preoccupa più di sè. Adulto è chi è più interessato alla generazione che viene dopo di lui che alla propria: “Non abbiate paura dei cambiamenti”, pochi giorni fa confidava ad alcuni suoi giovani confratelli.
Infine: a voi familiari, a noi saveriani, a voi comunità tutta di Borno un invito: coltivate una memoria vivente di P. Giacomo; non la memoria di un morto, ma di un vivo.
Lui appartiene a questa comunità, nato dalle vostre radici; è un vostro “capitale”, un vostro “tesoro”, insieme ad altri, da non perdere per trovare e conservare le radici nei nostri “antenati” (come fanno in Cina, in Africa, in America Latina …), nei nostri defunti.
- Giacomo, cosa ci hai voluto comunicare con la tua vita e la tua morte?
- Che cosa era importante per te?
- Cosa abbiamo imparato da te?
- Che cosa ci vuoi dire?
- Come debbo rispondere con la mia esistenza alla tua?
Rispondere a queste domande è sicuramente un modo per continuare la sua missione, che è la missione di Cristo, un modo per mantenere vivo p. Giacomo tra di noi.
E anche io, per terminare, voglio rispondere a queste domande.
Caro Giacomo, per tanti di noi sei stato l’ispirazione e l’indicazione per un cammino autenticamente umano nella vita religiosa-missionaria, lontano da ogni forma di clericalismo o pretesa di definire Dio secondo certi schemi superati.
Per tutti noi era importante avere quel sassolino nella scarpa, la tua voce scomoda che ti fa pensare a modi diversi di essere discepoli missionari di Gesù, Colui che è stato scomodo a tanti.
Per te essere missionario non è stato un mestiere, o un semplice servizio reso agli altri, ma è stato un modo concreto di vivere la fede cristiana; un vero e proprio stile di vita, parte della tua identità.
Giacomo, Il cammino continua, tu rimarrai per noi un confratello significativo, interprete di uno stile missionario audace, e sempre in dialogo col mondo. Anche per questo a nome di tutti i tuoi confratelli e di chi ti ha voluto bene, vogliamo esprimerti oggi la nostra stima e gratitudine e ti affidiamo alla pace eterna, nelle braccia di Dio Padre.
Grazie, Giacomo. Maraming salamat po, padre.
p. Eugenio Pulcini
Pasqua 2020
Con i missionari
Abbiamo inviato alcune domande a Padre Giacomo Rigali. Ringraziandolo per la disponibilità, ecco le sue risposte.
Brevemente Padre Giacomo puoi presentarti?
Sono un padre missionario di Borno, ormai di 79 anni. Prete dal 1967, in missione praticamente dal 1975.
In quali paesi hai vissuto il tuo essere missionario?
Ho speso i miei primi anni di prete nella formazione dei giovani studenti missionari e nell’animazione missionaria nella diocesi di Como. Dopo un anno di lingua inglese a Londra sono andato in Bangladesh dove sono rimasto fino al 1989. Ho speso poi sei anni alla Direzione Generale dei Saveriani a Roma, viaggiando in continuazione per visitare le varie missioni dove lavorano i missionari saveriani in Asia, Africa, America Latina ed Europa.
Dopo questo periodo di lavoro come consigliere alla Direzione Generale sono tornato in Bangladesh nel 1986 per continuare la mia missione. Però, dopo tre anni in Bangladesh, mi è stato chiesto di venire nelle Filippine dove mi trovo da più di vent’anni.
Di questi, se c’è, qual’è quello a cui ti senti più legato o che ricordi più volentieri?
Dovunque sono stato mi sono trovato bene. La missione che mi ha marcato di più è stato il Bangladesh, perché in contatto con una realtà molto dura da affrontare sia nel lavoro diretto della missione, sia al centro catechistico e sia come superiore regionale del gruppo di Saveriani che lavorano in questo paese.
Le sfide sono state tante: la lingua, la cultura molto diversa, il fatto di essere piccola minoranza di poveri cristiani in mezzo ad una società mussulmana.
Per molti, di solito, i missionari sono quelli che aiutano i poveri. È essenzialmente questo o c’è anche qualcos’altro?
È un po’ per vocazione che i missionari vadano a finire in mezzo alla gente più povera. È quella che noi chiamiamo “la scelta degli ultimi”. Quando diamo inizio a qualcosa, a un centro, un’iniziativa, una diocesi anche, sappiamo già che appena potrà reggersi in piedi, la passeremo nelle mani del clero locale e noi andremo a ricominciare di nuovo da zero da un’altra parte, per dare vita ad un’altra iniziativa, per coprire un’altra necessità, per sviluppare una nuova dimensione della missione.
Dai tuoi primi anni ai giorni attuali, l’idea di missione e quello che fate sono rimasti più o meno uguali o sono cambiati?
La visione e la dinamica della missione sono cambiate abbastanza profondamente; si sono adeguate alle situazioni sociali e culturali diverse ed anche a una teologia nuova. Dall’aiutare i poveri e cercare di attirarne almeno alcuni alla fede cristiana in contrasto con le religioni da cui provenivano, ci si sta aprendo al dialogo con le religioni in mezzo alle quali ci si trova per cercare di fare qualcosa insieme per una pace più sicura, per la giustizia sociale, per il rispetto della dignità di ogni persona, per la sacralità delle famiglie, per un futuro comune. Vogliamo diventare luce, lievito ed ispirazione per l’amore ed il bene dovunque questo può crescere.
Quando torni qui in Italia, osservando la nostra realtà e confrontandola con quella in cui tu hai vissuto e tuttora vivi, quali sono i tuoi pensieri e le tue sensazioni?
La prima sensazione che provo è quella di trovarmi di fronte ad una comunità cristiana più matura ma, allo stesso tempo, invecchiata. Più matura perché la gente che continua a frequentare lo fa in quanto si è dovuta dare ragione del suo cammino di fede e del suo impegno di fronte alle tante provocazioni contrarie presentate dalla realtà sociale e culturale di oggi. Nello stesso tempo, però, siccome il mondo giovanile è abbastanza assente, la comunità praticante si trova invecchiata.
L’interrogativo che continuamente mi passa per la testa è che forse non siamo stati capaci di darci motivazioni profonde nel cammino di fede, per cui lo scontro con la problematica e gli interrogativi della realtà moderna ha fatto crollare in tanti la pratica tradizionale della fede. La sfida della vita non ha provocato nel profondo della coscienza interrogativi e ricerca per trovare risposte e soluzioni. Associazioni e movimenti di laici potrebbero offrire una svolta. Direi che per sostenersi nel cammino di fede, ogni cristiano dovrebbe trovare il modo di far parte di un gruppo o associazione parrocchiale, all’interno del quale poter discutere e condividere il cammino. La messa domenicale non basta più, non riesce ad offrire questo processo di motivazione e di impegno.
I banchi delle nostre chiese infatti sono sempre… meno pieni. Sei d’accordo con chi sostiene che il cristianesimo diventerà sempre più marginale in Europa, mentre si diffonderà in quello che una volta era chiamato terzo mondo?
Anche nelle missioni stiamo perdendo i giovani che saranno il nostro futuro. I mezzi di comunicazione sociale sono potentissimi. Seguiamo in questi giorni il dramma del coronavirus in Cina e Italia come se stesse avvenendo nei posti in cui ci troviamo a vivere. Oggi la gente ovunque nel mondo vive col cellulare in mano. Lo stile di vita e di futuro che si propone in Europa o negli USA è propagandato ovunque… in pochi anni non si faranno poi molte distinzioni. Non so se i “poveri del terzo mondo” saranno molto diversi dai “poveri del primo mondo”, Il cristianesimo per sopravvivere dovrà essere vissuto ad un’altra profondità, più profonda, personale e qualcuno dice “mistica”.
Quasi sempre nelle tue lettere ci parli dell’infinita fantasia di Dio, del suo desiderio di danzare sempre con gli uomini per inneggiare alla vita. Da dove viene questo tuo entusiasmo?
Mi sto convincendo sempre di più che Dio ci sta aspettando, con pazienza infinita, nella profondità delle nostre coscienze. Man mano che la gente si stancherà di correr dietro ai sogni, moltiplicati oggi dai media e dai telefonini, dimenticando il Dio che ne abita il cuore, comincerà a spegnere gli stessi telefonini per riascoltare la voce del cuore, per guardarsi dentro, guardarsi in faccia, guardare gli altri in faccia, comunicare con se stessi e con gli altri, col Dio che li abita e li attende. Le cose stanno già cambiando. Tanti genitori stanno già rendendosi conto e cominciano a pensare di più. Dio ci sta già prendendo da dentro e ce la farà a renderci più profondi, più in comunione, più mistici. La spiritualità non è solo per monaci nel convento, ma ancor di più per i vagabondi nel mondo connessi al Dio del loro cuore.
CON I MISSIONARI
Manila 8-11-2019
Carissimi Amici di Borno,
saluti da Manila. Sono ancora vivo anche se non scrivo spesso. Vi spero tutti bene e in un buon clima di preparazione al Natale. Io sto benone e ne ringrazio di cuore il Signore.
Qui la mia vita da “missionario in pensione” va avanti serenamente. Mi tengo impegnato attraverso un ministero di “aiuto” su richiesta delle grosse parrocchie vicine.
Vivo nella comunità dei nostri studenti di teologia, ma vicino anche alla casa parrocchiale, quindi in immediato contatto anche con la pastorale. Gli studenti missionari sono una ventina e vengono da sei nazionalità diverse. Una bella varietà con una grande confusione di mentalità e di lingue. Purtroppo studenti di teologia italiani non ce ne sono.
Il lavoro di missionario di emergenza che sto facendo mi mette in contatto situazioni difficili e sfidanti. Così mi trovo ad andare nelle baraccopoli più dimenticate come nei grandi supermercati, nelle scuole affollatissime. Le sorprese non finiscono mai. Ultimamente, per esempio, mi sono trovato con due settimane di confessioni per gli studenti che finiscono le scuole superiori... erano più di mille quelli dell’ultimo anno delle superiori. Anche confessando cinque ore al giorno mi ci sono volute due settimane. Ma sono stato veramente contento.
Per molti di loro era la seconda confessione... dopo la confessione della prima comunione nelle loro parrocchie. Due sezioni al giorno, con un’ora di ritiro, la confessione mentre continuavano le classi e poi messa e comunione. Penso che per molti sia stata una nuova tappa nella loro vita, prima che arrivi forse il giorno del loro matrimonio quando si confesseranno di nuovo per sposarsi... almeno quelli che si sposeranno in chiesa!!! È stata una bella esperienza e penso di proporla anche ad altre scuole dei dintorni perché i giovani nelle scuole sono migliaia, però in chiesa non ci vanno forse che il dieci per cento. Dare loro attraverso la scuola questa occasione di riavvicinamento a Dio mi sembra molto bello.
Continuo ad ascoltare confessioni davanti alla cappella nel supermercato dove vado ogni settimana al venerdì sera: è interessante trovarsi a udire le confessioni nel corridoio di un supermercato. Tra sabato sera e domenica vi celebriamo ora sette messe, sempre con tanta gente dentro la grande cappella e fuori nell’ampio corridoio. Fortunatamente abbiamo l’aiuto dei laici per le comunioni, le letture e i canti. Sono bravi e non mancano mai.
La gran parte della gente ha una vita difficile, specialmente le donne. Tante si trovano da sole a portar avanti la famiglia perché tante sono le ragazze madri, a volte ancora giovanissime. La cultura moderna facilita il libero frequentarsi di ragazzi e ragazze... poi a rimanere incinte naturalmente sono le ragazze e spesso i ragazzi scompaiono. Le donne devono prendersi tutte le responsabilità e portare avanti da sole la realtà di queste famiglie incomplete.
Sono felice di essere qui e di potermi rendere ancora utile a questa mia età. Trovo attorno a me tanta vita e tanta serenità nonostante i tanti problemi, sperimento la presenza del Dio della vita e della speranza in tutta questa gente e in me stesso.
Vi faccio i miei più cordiali auguri di Buon Natale! Un saluto cordiale ai Reverendi e a tutti voi!!! Ci rivedremo il prossimo anno a marzo!
Ricordiamoci al Signore perché riusciamo a fare del nostro meglio.
Cordialmente vostro
P. Giacomo
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